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Introduzione
il padre / mio e de li altri miei miglior
che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre
(Purg. XXVI, vv. 97-99)
Nell’intricata selva delle indagini critiche sulla figura di Guido
Guinizzelli, oscillanti tra l’innalzamento al ruolo di innovatore della
tradizione e caposcuola del Dolce Stil Novo, e la sua riduzione a
esponente geniale ma in fondo ancora legato al modus poetandi di
vecchia maniera, si staglia con una semplicità perentoria il giudizio di
Dante, che nella Commedia, con una dichiarazione impegnativa di alta
ammirazione, giunge a riconoscere in lui il “padre / mio e de li altri
miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre”
(Purgatorio, XXVI, 97-99).
Pur indicando una velata ripresa parodica del sonetto di Guido a
Guittone O caro padre meo, il lemma “padre” non esaurisce in quella
sottigliezza il suo valore e il suo prestigio semantico ma pare
accogliere e superare, in una sorta di sintesi dialettica, i precedenti
tributi danteschi.
Così dal piano ideologico del “saggio” della Vita Nuova (XX),
che sembra alludere alla conquista speculativa del primo Guido, alla
robusta nervatura filosofica del suo poetare, specificamente nella
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canzone dottrinale Al cor Gentil, si passa al “maximus” del De
Vulgari Eloquentia (I, XV,) riconoscimento dell’eccellenza
linguistica, di quell’ideale artistico di compostezza e di dolcezza
raggiunto, che è il contributo più moderno sul piano dello stile.
E come dunque non vedere in quel “padre” un’accezione
“spirituale” , un sottile rimando ai Padri della Chiesa, e tutta la
devozione di Dante per colui che attraverso il riutilizzo dei testi sacri
adattati “per forsa”, per usare le parole di Bonagiunta, al contesto
profano del dire d’amore, aveva scosso il sistema lirico facendone
scricchiolare le strutture e aveva aperto la strada al nuovo, tutto
dantesco, ontologismo e fenomenologismo dell’Amore, alla sua
capitale evoluzione dall’eros alla caritas?
Assai prima che Dante proclamasse Beatrice una cosa venuta /
da cielo in terra a miracol mostrare, specchio della potenza divina e
immagine “figurale” del Verbo fatto carne, qualcosa di simile aveva
insinuato a forza di allusioni bibliche il padre Guinizzelli, sia pure
oscillando incerto tra gli effetti salutiferi della cristiana piena di
biltade e di valore e quelli portatori di ferite e di battaglia di sospiri.
Con la sua intuizione poetica della donna angelo, Guinizzelli
aveva indicato la direzione di una possibile soluzione all’insanabile
contrasto tra sentimento amoroso e legge morale, poetica ed etica,
amore cortese e morale cristiana.
Dante, si direbbe, per via di rivelazione («allora dico che la mia
lingua parlò quasi come per se stessa mossa» Vita Nuova, XIX) nelle
rime in lode di Beatrice fa propria la fondamentale scoperta del
bolognese e la risolve in una nuova ontologia dell’amore per la quale
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la donna angelo assurge a realtà metafisica tesa ai valori del simbolo,
della figura e dell’allegoria.
La temeraria metafora del “saggio” (Tenne d’angel sembianza
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),
la sua aspirazione a fare della donna una «intelligenza del cielo» nella
quale «splende Deo Criator» in Dante si tramuta in realtà in «violenza
reale» in una «spinta a estrarre dal sentimento il massimo
dell’intensità col sollevarlo dalla sfera della soggettività ed ancorarlo
nelle più alte regione di estrema assolutezza»
2
.
Ė proprio, dunque, a partire dalla grande canzone dottrinale del
primo Guido Al cor gentil rempaira sempre amore che Dante
giovanile “prende l’aire” e giunge, attraverso una lunga e complessa
gestazione, le cui tracce sono visibili, anzi ostentate, in tutta la sua
storia poetica, alla svolta delle rime nuove, alla spiritualizzazione
dell’Amore che ditta dentro, in interiore nomine, la verità assoluta e
che farà del poeta-pellegrino uno scriba dei.
Al cor gentil è un concentrato di temi e motivi che verranno
ripresi e sviluppati da Dante dalla Vita Nuova, al Convivio, fino al
Paradiso; fuoriesce dai versi guinizzelliani un potenziale semantico e
narrativo che solo il sommo poeta riuscirà pienamente ad attualizzare.
Probabilmente senza la canzone di Guinizzelli non si sarebbe
prospettata a Dante l’ipotesi del viaggio paradisiaco azionato
dall’amore del poeta per la sua donna.
Prima di lui Guinizzelli aveva provato la paesumptio ulissiaca
di confrontarsi con Dio, aveva immaginato di passare l’ultimo cielo, il
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Al cor gentil rempaira sempre amore, v. 58
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E. Auerbach, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 40
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Primo Mobile, e di arrivare fino all’Empireo, aveva scoperto
nell’immagine femminile il “semblanti
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” divino, aveva cantato le lodi
della donna plasmandole sulle lodi liturgiche, aveva attribuito
all’oggetto del suo desiderio una funzione catartica e beatificante
capace di proiettare l’io nell’orbita del divino.
Il momento guinizzelliano segue, nel giovane Dante, a un
momento cavalcantiano e il modo di porsi di Dante nei confronti del
problema amoroso passa da una fase di passione tormentosa a un’altra
di pura esaltazione, dal desiderio alla contemplazione.
Uno svolgimento che lo porta a imbattersi nell’aporia di fondo
della teorica d’amore tradizionale che il Guinizzelli aveva in qualche
modo aggirato: il conflitto tra amore e virtù, passione e ragione, che
sarà evidenziato in maniera vivida nella canzone Donna me prega dal
Cavalcanti e che acquisterà una rilevanza eminente nella riflessione
dantesca con proposte oscillanti di conciliazione.
L’obbiettivo che Dante va delineando nella Commedia è uscire
dall’equivoco, risolvere l’antinomia affiorante nella canzone di
Cavalcanti conciliando gli inconciliabili, cercando di armonizzare
laddove non erano riusciti i due Guidi amore e fede, amore e ragione.
Tutta la Commedia è permeata da un’autoanalisi palinodica, è
un testo che funziona in gran parte attraverso un processo dialettico di
revisione e riappropriazione negli episodi in cui Dante, mediante
autocitazioni, guarda al suo passato poetico, alle sue precedenti
esperienze letterarie.
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Al cor gentil rempaira sempre amore, v. 54
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In questo trattamento retrospettivo che Dante riserva al suo io
poetico, nell’episodio infernale di Paolo e Francesca, intessuto di
richiami guinizzelliani, e nella collocazione del Guido bolognese fra
gli spiriti che devono purgare la loro lussuria, si è colta una totale
condanna e liquidazione della dottrina d’amore stilnovistico-
guinizzelliana.
In realtà il peccato di Francesca non coinvolge gli inizi lirici
dell’avventura amorosa ma gli sviluppi romanzeschi; è nell’aver
bruciato le potenzialità dell’amore stilnovistico, nell’aver
strumentalizzato la carica intellettuale dell’amore cortese per
soddisfare il suo appetito sensuale. Del resto lo stesso Dante
affermava nel Convivio che «è ragionevole e onesto non le cose,ma le
malizie de le cose odiare e procurare da esse di partire»
4
.
L’Alighieri dunque vuole indicare il residuo sensualistico, le
scorie della passione terrena persistenti al fondo della dottrina
d’amore guinizzelliana e della sua stessa poesia d’amore anteriore alla
Commedia, ma non intende elaborare una nuova teoria d’amore da
sostituire alla vecchia, piuttosto correggere questa dimostrando
l’erroneità di alcuni suoi postulati e solo di quelli.
Questa è l’unica strada che gli consente di non rinnegare il suo
passato letterario ma di accoglierlo nella sintesi omnicomprensiva del
poema, che è la nuova arte alla quale si è rivolto e che condensa tutta
la complessità della vita, tutti i sentimenti che agitano il cuore umano,
il sacro e il profano, la terra e il cielo e Dante non può certo
4
Convivio, IV, I
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dimenticare i motivi della poesia giovanile, per quanto sicuramente
purificati e sublimati.
Anche il Paradiso, lungi dal rappresentare il superamento
dell’esperienza stilnovistica come ritenuto da Contini
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, porta a
compimento il processo di potenziamento semantico delle immagini e
delle metafore già messe in circolazione dal geniale novatore
bolognese alla fine degli anni ’60 del secolo precedente.
Emerge una fitta intertestualità rivelatrice del fatto che la tesi
guinizzelliana non è affatto superata ma rafforzata. Per entrambi i
poeti l’amore è raffinamento spirituale, un processo che però solo nel
poema sacro riesce a trovare il suo approdo finale nella caritas, la
virtù che “numquam excidit” come sostiene San Paolo, ma lega in
eterno la creatura al suo Creatore in un afflato cosmico che
«congiunge e unisce l’amante con la persona amata» (Convivio, IV, I).
È un amore continuamente attivo che nel paradiso
continuamente s’irradia, e in Dio-amore si conclude, come nel porto
più sublime, l’esperienza di Dante personaggio, poeta e guida di tutti
coloro a cui ha voluto mostrare un esemplare itinerarium di
salvazione.
Se Guido aveva piegato i testi biblici ad esprimere contenuti
profani muovendosi per tentavi su un terreno aperto a orizzonti e
soluzioni diverse, il Dante della maturità invertendo il procedimento
recupererà proprio nel Paradiso tutto il variopinto repertorio di
metafore e similitudini del miglior Guinizzelli, poeta “visivo”, tutto
luce e ardore, a significare il divino.
5
G. Contini, Dante come personaggio-poeta della «Commedia», in Un’idea di
Dante, Torino, Einaudi, 1976, pp. 42-48
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Lungi quindi dall’essere una lumera come lo aveva definito
Bonagiunta accusandolo di aver mutata la mainera / de li plagenti
ditti de l’amore, Guinizzelli è luce vera nella poesia volgare, è in
qualche modo il Virgilio della nuova poesia quale è figurato da Stazio
in Purgatorio, XXII, 67-69: «Facesti come quei che va di notte / che
porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte».
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Capitolo I
I nuclei ideologici della poesia guinizzelliana nella
Vita Nuova.
Il pensiero di Dante non somiglia ad una linea che sempre
progredisce, bensì ad una linea che ora guadagna lo spazio che le si
apre davanti, ora si dispone secondo le figure del circolo e della
ripetizione.
La vicenda intellettuale dantesca si svolge nel ritmo inesausto
del suo sperimentare ma parallelamente alla spinta sperimentalistica
agisce nella coscienza del poeta quell’esigenza di ordine, di
simmetria, di unitarietà che era la conquista etico-sociale dell’uomo
medievale sulla precarietà della propria condizione.
Quest’esigenza permea la struttura di ciascuna opera dantesca, è
la ricerca di una coerenza etico-letteraria, che fonde nel nuovo
momento i momenti passati, revisionandoli, reinterpetandoli alla luce
dell’accresciuto patrimonio culturale ed esistenziale.
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Così nell’itinerario poetico di Dante il diagramma ideativo si
ispessisce dai primi componimenti alla stesura del poema sacro quasi
che ogni progetto ne implicasse uno più vasto.
La riflessione sull’Amore, che è fulcro di tutto il percorso
letterario dantesco, è parimenti sottoposta a due forze opposte, quella
centrifuga del perpetuo sperimentalismo e quella centripeta della
ricerca di unità e sintesi.
Ma nel suo svolgimento si può scorgere una linea evolutiva che
si snoda sotto l’egida luminosa del “padre” Guido Guinizzelli.
Questi risplende attraverso citazioni, menzioni esplicite ed
implicite, spunti, richiami intertestuali, disseminati in luoghi strategici
delle opere dantesche, quasi a segnare la via di una progressione
ideologica nella teoria d’Amore di Dante, un processo dialettico dal
piano dell’eros alla virtus alla caritas.
Con il presente lavoro cercherò di indagare i rapporti di
Guinizzelli con Dante, sia nella rete di richiami fra i testi, sia
inevitabilmente nell’autorappresentazione che ne fornisce lo stesso
Dante, e in particolar modo l’assorbimento e il riutilizzo dell’eredità
guinizzelliana nella formulazione dantesca della propria
personalissima dottrina d’amore dal “libello” fino al poema sacro.
I critici hanno assiduamente discusso l’entità delle innovazioni
guinizzelliane di fronte all’alto riconoscimento da parte di Dante , con
la sua serie ininterrotta di dichiarazioni di stima che conferiscono al
Guinizzelli una posizione eminente dalla Vita Nuova fino alla
Commedia.
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È di Ernesto Giacomo Parodi e di Gianfranco Contini l’opinione
che il rimatore bolognese sarebbe stato sovrastimato sia da
Bonagiunta, che lo accusava di aver «mutata la mainera/ de li plagenti
ditti de l’amore», sia da Dante, troppo generoso nel definirlo «padre/
mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e
leggiadre» e che andrebbe invece abbassato al ruolo di minore
precursore.
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Ebbe molta fortuna, in ambito critico, l’osservazione del Parodi
che «se il Guinizzelli fu il precursore, il vero padre dello Stil nuovo fu
Cavalcanti e che per merito suo il germe guinizzelliano si sviluppò in
un albero grande e robusto»
7
.
Ma all’interno della querelle sulla maniera di Guinizzelli, che si
aggira intorno a luoghi e a citazioni logorate dall’uso, si è fatta strada
una linea interpretativa filosofico-teologica che ha intravisto nelle
Sacre Scritture il sostrato ispiratore comune non solo a Dante e a
Cavalcanti ma anche al maestro bolognese a partire dallo studio del
Gorni.
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Questi ha tenuto desta l’attenzione sul Guinizzelli, fino ai più
recenti approfondimenti come la laboriosa inchiesta condotta da
Paolazzi
9
che mette in luce, oltre alle influenze oraziane, le ampie
6
G. Contini, (a cura di) Poeti del Duecento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, II,
pp. 444-445
7
E. G. Parodi, Poesia e storia nella «Divina Commedia», Venezia, Neri Pozza,
1965, pp. 145-146
8
G. Gorni, Il nodo della lingua e il verbo d'amore. Studi su Dante e altri
duecentisti, Firenze, Olschki, 1981, pp. 13-45
9
C. Paolazzi, La maniera mutata. Il «dolce stil novo» tra Scrittura e «Ars
poetica», Milano, Vita e Pensiero, 1998
11
suggestioni bibliche presenti nell’immaginario e nella poesia del
“primo Guido”.
Senza dubbio il fiume dell’influenza guinizzelliana è ancora in
parte da sondare, sia per Dante che per gli altri rimatori, ma è
indiscussa la novità tematica e formale della canzone Al cor gentil e
dei sonetti di “loda”.
Senza questi testi il Guinizzelli sarebbe rimasto
fondamentalmente un guittoniano, o un siculo-toscano, considerato
che un’ampia sezione del corpus delle sue rime si colloca nell’ambito
di questa tradizione. La mancanza di elementi per tentare la datazione
dei testi non consente di stabilire se i componimenti cosiddetti
“stilnovistici” siano posteriori agli altri o se il Guinizzelli abbia
composto secondo due distinte “maniere”. È più legittimo forse
collocare, come afferma Marti
10
, l’intera produzione del poeta
bolognese tra tradizione e rinnovamento, in una visione sincretistica
del suo sperimentalismo, supponendo che nei momenti più felici della
sua ispirazione abbia composto quei testi (la famosa canzone e almeno
tre sonetti) in virtù dei quali Dante ha potuto riconoscerlo come
precursore di un nuovo contenuto, magistralmente definito da Contini
«l’inquadramento ontologico, e dunque teologico, dell’oggetto amato,
l’euristica di esperienze trascendenti per via di analogia»
11
.
Ma ancor più della novità intrinseca della sua poesia sarebbero
le polemiche accuse dei due più autorevoli capiscuola del tempo,
Bonagiunta e Guittone, a garantire al Guinizzelli un posto di decoro.
10
M. Marti, Storia dello Stil nuovo, Lecce, Milella, 1973
11
Contini, (a cura di) Poeti del Duecento, cit., p. 444