Introduzione
La crisi economica che stiamo attraversando ha portato i politici e le
istituzioni internazionali a dimostrare un forte interesse per il tema della
misurazione del benessere. Cominciando dalla comunicazione della Commissione
Europea «Non solo PIl: misurare il progresso in un mondo in cambiamento»
avvenuta ad agosto del 2009, passando per la pubblicazione del rapporto della
Commissione Stiglitz sulla «Misurazione della performance economica e del
progresso sociale», che sottolineano l’importanza di questi temi, si è assistito a un
vero e proprio crescendo di riflessioni e discussioni che, forse, condurrà a quello
che si definisce un «cambio di paradigma» nel modo di valutare il successo di un
paese (Giovannini, 2010). Le iniziative dei vari organismi nazionali e
internazionali sul tema del benessere riflettono un’insoddisfazione diffusa tra i
cittadini e le istituzioni, dovuta in parte a un uso inappropriato degli indicatori e in
parte al fatto che, in presenza di cambiamenti rilevanti nella distribuzione del
reddito, il PIL, come qualunque altro aggregato statistico, può fornire una
valutazione falsa delle condizioni di vita in cui molti soggetti si trovano (Panico e
Sapienza, 2010). Da un Sondaggio Eurobarometro condotto nel 2008, è risultato
che più di 2/3 dei cittadini dell’UE sono del parere che per misurare il progresso
sia necessario impiegare in ugual misura indicatori sociali, ambientali ed
economici. L’utilizzo del PIL pro capite come proxy del benessere della
popolazione ha avuto decisamente senso, in una fase in cui la crescita economica
coincideva con importanti miglioramenti sul piano sociale, sulla speranza di vita e
l’istruzione in primis. In effetti, negli Stati Uniti, già nel 1968, poco prima di
essere ucciso, Robert Kennedy disse:
“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale
soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare
senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base
dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto interno
lordo (PIL). Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la
nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la
devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita
veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se
possiamo essere orgogliosi di essere americani”.
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Alla luce delle trasformazioni avvenute verso la metà degli anni Settanta,
ricercatori universitari, organizzazioni della società civile, statistici ufficiali e
organizzazioni internazionali, cominciano a interessarsi ai fenomeni della povertà
e del benessere da un punto di vista non esclusivamente delle risorse, e a proporre
misure alternative del progresso sociale (Giovannini e Rondinella, 2011). Nel
corso degli anni, quindi, si è assistito a un vero e proprio spostamento di
attenzione dal piano delle risorse ad altri elementi considerati capaci di misurare il
benessere delle persone. Le analisi si sono spostate dalle tradizionali dimensioni
del reddito ad altri aspetti non meno rilevanti quali le opportunità, le libertà, la
vulnerabilità e la coesione sociale. Il tema della qualità della vita, quindi, tra alti e
bassi ha continuato, e continua tutt’oggi, a destare interesse, sia sul fronte della
riflessione teorica che su quello della ricerca applicata. Secondo Nuvolati: “Il
risveglio sul tema della qualità della vita è soprattutto addebitabile alla crescita
preoccupante di nuovi fenomeni che riguardano le comunità nel loro complesso e
non solo i segmenti più deboli. Mi riferisco ai problemi che vanno
dall’inquinamento ai conflitti etnici, dalle carenze o disfunzioni dei servizi alle
nuove forme di criminalità. Problemi che tendono ad aggiungersi e a rendere
persino più preoccupanti quelli più tradizionali legati alla marginalità sociale”
(Nuvolati, 2003, p. 74). Infatti, la multidimensionalità del benessere, richiede di
riflettere sulla qualità della crescita, o meglio, sul fatto che non basta aumentare il
PIL per produrre maggior benessere. Questo non vuol dire che il PIL non sia
importante nella determinazione del benessere, ma che da solo esso non è capace
di rilevarne tutti gli aspetti. Per le società moderne il concetto di qualità della vita
è fondamentale per la valutazione del benessere individuale e collettivo, difatti,
dovrebbe costituire il riferimento metodologico essenziale nella definizione di
politiche pubbliche orientate al miglioramento delle condizioni di vita di singoli
individui e dell’intera società. Non si tratta di un concetto semplice da definire, né
tanto meno da misurare, e finisce spesso per essere sintetizzato attraverso
indicatori piuttosto grezzi e parziali, principalmente di natura economica (in
particolare, il reddito pro capite), cui si sommano talora indicatori di natura
sociale o ambientale nel tentativo di sottolinearne il carattere multidimensionale
(Chiappero e Pareglio, 2009). Posto che il benessere sia da intendere in senso
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multidimensionale, capire quali sono le dimensioni che lo compongono e i fattori
che lo determinano resta una delle questioni più problematiche per i ricercatori.
L’obiettivo del presente lavoro è stato quello di dare spazio al dibattito che
si è sviluppato soprattutto negli ultimi anni a livello internazionale, relativo alla
definizione e misurazione del benessere degli individui. Infine, si è cercato,
attraverso un’esperienza empirica, di mostrare l’importanza di elaborare una
concezione di benessere di tutti, capace di rappresentare gli interessi delle
diversità che compongono le nostre società.
Nel primo capitolo, al fine di affinare la nostra conoscenza sui motivi che
hanno portato alla nascita del PIL, sarà innanzitutto tracciato lo scenario storico
che ha giustificato l’applicazione di misure risorsiste per la misurazione della
crescita di un paese. La contabilità nazionale costituisce uno strumento essenziale
per l’orientamento degli attori economici nell’assunzione delle decisioni, per la
valutazione delle politiche e per la previsione del futuro delle società in cui
viviamo (Panico e Sapienza, 2010). Dai libri di testo alle pagine di giornale, per
non parlare delle stanze della politica mondiale, il PIL ha contribuito a plasmare
l’idea di benessere di una società, nonostante sia stato originariamente sviluppato
come strumento per una valutazione strettamente economica. È indubbio che uno
dei concetti più ricorrenti, premiato dal successo presso il grande pubblico fin
dalla sua creazione, sia il Prodotto interno lordo (PIL) (D’Ovidio, 2009). Va
comunque sottolineato che il successo del PIL non si regge solo sulla relativa
facilità di calcolo, ma soprattutto sulla possibilità di produrre una misura sintetica
con cui comparare le performance di diversi paesi e plasmare interventi di politica
economica, essendo quindi un vero strumento di monitoraggio e informazione per
la politica di un paese (Carraro, Cruciani, Lanzi, e Parrado, 2011). Nonostante
tutti o quasi siano consapevoli dei suoi grandi limiti nella misurazione del
benessere, esso è riuscito ad assumere un ruolo di feticcio: una vera e propria
ossessione planetaria che ha coinvolto governanti, studiosi, imprenditori e
consumatori (Campiglio, 2010). Infatti, a livello di percezione sociale, il PIL
rappresenta molto più di un semplice numero utile agli economisti per valutare il
peso di un’economia, ma assurge ormai a vero e proprio rilevatore di salute del
sistema economico, ma anche di un popolo e del suo benessere generale. Secondo
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Latouche (2009), nel nostro immaginario il PIL è fortemente legato al livello di
vita e all’ammontare dello stipendio. Siamo stati “formattati” a considerare questo
indicatore economico come misura del benessere, poiché direttamente
proporzionale al consumo di merci. È importante riconoscere che il PIL non è
intrinsecamente cattivo ma misura ciò che misura, è usato come indicatore di
qualcosa che non misura e non fu mai destinato a misurarla (Costanza, Hart,
Posner e Talberth, 2009). Inoltre, al fine di comprendere i cambiamenti in atto
nella concezione e misurazione di benessere, sarà data particolare attenzione a uno
dei lavori più significativi in quest’ambito, che è stato quello della Commissione
Stiglitz, istituita dal presidente francese Sarkozy nel gennaio del 2008. Le
indicazioni raccolte in questo noto Rapporto hanno catalizzato l’attenzione dei
media e raccolto l’interesse delle più importanti istituzioni e agenzie nazionali e
transnazionali, preposte all’orientamento e alla ricerca sui temi della ridefinizione
del benessere oltre il PIL, e dei criteri, metodi e processi utili alla sua nuova
misurazione. Sarà proprio grazie alle Raccomandazioni della Commissione
Stiglitz, e a un’analisi dei principali limiti del PIL, che si cercherà di comprendere
l’esigenza di andare oltre le misure monetarie per la misurazione del benessere di
una popolazione.
Nel secondo capitolo sarà illustrata l’introduzione e l’evoluzione del
concetto di qualità della vita nei paesi industrializzati, prestando, inoltre,
particolare attenzione ai problemi di definizione che questo comporta. Sarà
dimostrato come a causa della molteplicità delle componenti che lo determinano e
in assenza di un quadro teorico di riferimento, sia difficile trovare tutt’oggi una
definizione condivisa tra i ricercatori. Anche se l’ampia produzione di carattere
teorico e metodologico che, con approcci diversi, è confluita in quest’ultimo
decennio nella complessa e variegata area tematica della qualità della vita, e
nonostante gli sforzi di definizione che sono stati compiuti soprattutto ai fini di
una sua più adeguata misurazione, il campo semantico della qualità della vita
rimane ancora vago e ambiguo, e una concettualizzazione adeguata non risulta
ancora acquisita (Cordini, 2009). L´aspetto forse più indicativo è che la
molteplicità dei bisogni per come vengono a manifestarsi in epoche e contesti
differenti richiede, di volta in volta, una ricostruzione del concetto di benessere in
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relazione alla specificità del luogo o del momento di analisi. Tuttavia, proprio
laddove si tenti di costruire una lista di bisogni fondamentali, ci si avvede
immediatamente come questi non possano essere unicamente concepiti come
bisogni materiali o legati al consumo di risorse, né possano ritenersi indipendenti
dal contesto socio-economico di riferimento o dalla connotazione conferita ai
concetti di sviluppo umano e di natura umana. L’idea è che il concetto di qualità
della vita dovrebbe quindi essere progressivamente dissociato da quello del
reddito e del consumo di beni, ed essere analizzato nelle sue componenti oggettive
e soggettive. Infatti, sarà illustrata una rassegna degli approcci più rilevanti per
l'analisi della qualità della vita che sono stati sviluppati nel campo delle scienze
sociali, rivolgendo particolare attenzione soprattutto agli approcci soggettivi, che
grazie al loro contributo, è stato possibile comprendere l’importanza della
componente soggettiva nella determinazione della qualità della vita.
Nel terzo capitolo sarà presentato il lavoro di Amartya Sen, che rappresenta
uno dei più importanti contributi degli ultimi anni al dibattito relativo al benessere
e alla povertà multidimensionale. Grazie al contributo di Sen, ci riferiamo non più
a una semplice nozione di deprivazione nelle risorse, ma a nozioni più complesse
di well-being, in cui ciò che viene osservato e quantificato è il grado di conferire
valore alla vita umana (Del Bono e Lanzi, 2007). La possibile compresenza di
modelli culturali e valoriali all’interno della stessa società, così come il permanere
di differenze socio-economiche, ci induce a pensare alla qualità della vita come a
una condizione non più riconducibile ad aspetti monetari. Tale constatazione
sembra essere suffragata dalla modellistica in tema di qualità della vita che negli
anni è andata sempre più proponendo un’evidente differenziazione tra aspetti
oggettivi e soggettivi del benessere. In questo quadro diventa sempre più
importante cercare di individuare e di interpretare i percorsi strategici sviluppati,
dai singoli individui o a livello di nuclei familiari, per affrontare i problemi della
vita quotidiana anche attraverso lo sviluppo di pratiche d’interazione e
cooperazione con altri individui o con il sistema istituzionale. Qui un richiamo
esplicito va al concetto di qualità della vita per come è inteso da Sen in antitesi
all’utilitarismo. In base al pensiero dell’autore, la condizione di benessere non è
determinata né da un livello di soddisfazione soggettivo espresso dagli individui
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né dal possesso di un paniere minimo di beni, bensì dalla possibilità per
l’individuo stesso di esprimere liberamente le proprie capacità in sintonia con una
serie di valori condivisi. Pertanto, misurare il benessere in termini di felicità o di
appagamento dei desideri (utilità) può essere pericolosamente fuorviante. Le
persone differiscono profondamente nella possibilità di convertire il reddito in
funzionamenti, non solo sulla base di caratteristiche individuali, ma anche sulla
base della loro appartenenza di gruppo (Sen, 1993). Grazie ai lavori di Sen e
Nussbaum, si è progressivamente affermata una concezione allargata di benessere
individuale declinato non unicamente come opulenza, ma come eudaimonia,
ovvero piena realizzazione della natura umana individuale. Le categorie come
libertà positiva, capacità di autorealizzazione e autodeterminazione, ottenimento
di elementi di valore di carattere sociale o simbolico (quali l’integrazione, il
rispetto di sé, la partecipazione alla vita civile), hanno definitivamente varcato i
confini disciplinari della filosofia politica e sono divenuti concetti guida per lo
studio e l’analisi del benessere. Valutare il benessere con metodi che hanno a che
fare con l’analisi dei sentimenti, delle percezioni e delle frustrazioni individuali, si
corre il rischio di caratterizzare il benessere a prescindere da qualsiasi rapporto
con la caratterizzazione delle dinamiche collettive e istituzionali (Marcon e Villa,
2011). Grazie a Sen i concetti di benessere e povertà assumono una connotazione
fortemente multidimensionale, e sono valutati tenendo conto delle circostanze
concrete in cui si esercita il processo di conversione delle risorse in
“funzionamenti”. Nonostante il grande successo, l’approccio delle capacità non è
esente da critiche, in larga misura dovute alla sua natura intrinsecamente
complessa, che può scoraggiare l’applicazione empirica o, quanto meno, a
spingere a drastiche semplificazioni, con il rischio di limitare la portata del
risultato finale (Sugden, 2006). A tal riguardo, il contributo di Martha Nussbaum
ha rappresentato un ulteriore approfondimento della nozione di funzionamenti. Il
tentativo della studiosa è proprio quello di individuare alcuni tratti essenziali e
universali della natura umana che, una volta conseguiti, possono testimoniare il
pieno benessere dell’uomo.
Nel quarto capitolo saranno presentate le principali esperienze già maturate
da organismi internazionali e nazionali in tema di misurazione del benessere. Sarà
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soprattutto grazie a queste esperienze che si cercherà di capire il modo in cui le
Raccomandazioni della Commissione Stiglitz e l’approccio delle capacità di Sen
possano trovare una concreta applicazione sul piano della misurazione del
benessere dei cittadini. All’interno di questo scenario, anche l’Istituto nazionale di
statistica (Istat) è stato chiamato ad affrontare la sfida della misurazione del
benessere nazionale e del progresso sociale. Per questo motivo l’Istat ha proposto
al Cnel di lanciare un’iniziativa comune per misurare il progresso sociale, basata
sul coinvolgimento di tutte le componenti della società, attraverso un processo di
consultazione. La sfida principale è stata quella di elaborare una definizione
condivisa di progresso riferita alla società italiana, definendone le dimensioni di
maggior rilievo economico, sociale e ambientale.
Dopo una attenta analisi dei dati e della metodologia usata, ci siamo chiesti
se il set di dimensioni individuate dall’Istat ha la possibilità di divenire uno
strumento riconosciuto dalle diverse componenti sociali. Attraverso un’analisi sul
campo si è provato a dimostrare l’importanza, nell’elaborazione del concetto di
benessere, di tenere in considerazione anche i bisogni espressi da una componente
situata agli estremi della scala sociale. Si è cercato di mettere in evidenza come
all’interno delle nostre società possano esistere delle differenti concezioni di
benessere tra gruppi sociali distanti. Un esempio è costituito proprio dalle
differenti concezioni del concetto di benessere tra i cittadini poco istruiti e
disoccupati di un quartiere disagiato della città di Napoli, la cui concezione di
benessere è espressa soprattutto in termini di benessere economico e di
occupazione, e i cittadini appartenenti a una componente altamente scolarizzata, il
cui criterio di benessere è espresso in termini di nuovi bisogni. Infatti, dai dati
raccolti attraverso il questionario online dall’Istat e dalla nostra esperienza
empirica, emerge come, per una componente della società sono soprattutto i
bisogni post-materialistici ad assumere un peso rilevante. Tra le dimensioni
giudicate come le più importanti abbiamo: la salute, l’ambiente, la soddisfazione
per la propria vita, la qualità dei servizi, l’istruzione, la formazione, la sicurezza e
le relazioni sociali. Invece, nel caso degli intervistati del quartiere Sanità di
Napoli, il benessere è espresso soprattutto in termini di soddisfazione di bisogni
materiali, che sono più strettamente correlati alla possibilità per l’individuo di
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nutrirsi, coprirsi, lavorare, disporre di un’abitazione, possedere specifici beni di
consumo, ecc. Anche se gli aspetti legati alla salute e alle relazioni sociali non
sono trascurati, il benessere è inteso soprattutto in senso materiale, in termini di
maggiori risorse economiche e occupazionali. Infatti, sul fronte della ricerca, dalle
partecipazioni già avviate in Italia e in alcuni paesi europei, emerge il peso
significativo che i cittadini attribuiscono ai criteri immateriali e relazionali (intesi
in senso ampio: relazioni con le istituzioni, relazioni personali, equità, solidarietà,
reciprocità, impegno civico, ecc.) (cfr. Istat, 2011). Secondo una vasta letteratura,
più la soddisfazione materiale è acquisita e il quadro democratico affermato, più i
criteri immateriali o relazionali acquistano importanza. All’opposto, dove la
povertà è estesa, i criteri materiali prendono il sopravvento, senza tutta via
trascurare gli aspetti relazionali (Farrell e Thirion, 2011). A chi cerca di
interpretare questa dicotomia viene spesso la tentazione di localizzare
geograficamente e temporalmente il manifestarsi di specifici bisogni. In realtà la
divisione tra società economicamente più avanzate, caratterizzate dall’esclusiva
preminenza di bisogni post-materialisti – cioè riguardanti l’espressione, l’identità,
i modelli di relazione e comunicazione tra gli individui – e società del terzo
mondo, in cui prevalgono ancora i bisogni primari (cibo, vestiario, abitazione),
non è certo convincente. Basti pensare al configurarsi proprio nelle civiltà più
industrializzate di nuovi e diffusi fenomeni di autentica povertà, proprio in senso
materiale. Numerosi studi ci dimostrano come in seguito all’affermarsi della
cosiddetta “società del benessere” che ha implicato la progressiva soddisfazione
dei bisogni cosiddetti primari, si è assistito alla nascita del concetto di “nuove
povertà”, ove l’aggettivo “nuovo” talvolta sottolinea che si tratta di fenomeni nati
dallo sviluppo e dalla crescita, talvolta è riferito all’insoddisfazione di bisogni
cosiddetti post-materialistici, talvolta infine è riferito alle nuove categorie di
soggetti colpiti dalla povertà (Negri, 1993). Ciò è ascrivibile in parte all’insorgere
di un segmento di popolazione che pur lavorando percepisce un reddito inferiore
alla soglia di povertà, i cosiddetti working poor (Carrieri, 2012).
Come suggerito da diversi autori, in seguito ai cambiamenti avvenuti dalla
seconda metà degli anni Settanta, nelle società occidentali abbiamo l’emergere di
nuove situazioni di rischio, dalle quali possono emergere nuove figure di poveri
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(Cacace, 2012; Morlicchio, 2012; Benassi, 2003; Lanzi e Delbono, 2002; Ranci,
2002a; Spanò, 2001; Morlicchio, 2000; Spanò, 1999; Negri, 1993). A partire dalla
crisi della società fordista basata sul lavoro, la società dell’individuo vede, da una
parte, l’indebolimento della capacità dell’attività economica di funzionare da
canale principale di integrazione sociale; dall’altra, la perdita graduale di densità
di quelle reti familiari e di sociabilità primaria che tendono a mostrarsi sempre più
fragili, costituendo un incentivo e una conseguenza diretta di forme sempre più
estese di isolamento sociale (Ranci, 2002b). Tutto ciò, si configura come una
nuova condizione di vulnerabilità sociale, che va a definirsi come una situazione
caratterizzata dall’inserimento precario dell’individuo nei canali di accesso alle
risorse materiali fondamentali (il lavoro, ma anche ai benefici legati al welfare
state) e/o dalla fragilità del tessuto relazionale di riferimento (Spanò, 1999). Gli
individui si trovano ad affrontare non più solo un deficit di risorse, come si era
abituati a pensare, ma una più costante ed estesa esposizione a processi di
disarticolazione sociale, capaci di destrutturare e rendere fragili l’organizzazione
individuale della vita quotidiana delle persone, dove la carenza di risorse si
accompagna a processi di dèsaffiliation (Morlicchio, 2012). In altre parole,
autonomia e capacità di scelta e autodeterminazione delle persone sono
perennemente minacciate dalla difficoltà di inserimento all’interno di forme di
integrazione sociale chiaramente riconoscibili e fruibili (Spanò, 1999). Nella
definizione del concetto di benessere, alla luce di questi cambiamenti avvenuti
nelle nostre società, diventa fondamentale dare voce a tutte quelle componenti
della società (immigrati, giovani disoccupati, lavoratori precari, madri sole, rom,
tossicodipendenti, ecc.), che si trovano in una condizione di maggiore disagio
sociale. Dal punto di vista metodologico, la sfida principale da affrontare consiste
nell’«elaborare» indicatori che trasformano la parola dei cittadini in scale di
progresso, declinando la diversità delle situazioni e i divari di benessere tra le
differenti situazioni e in particolare tra i cittadini che si trovano agli estremi della
distribuzione sociale (Consiglio d’Europa, 2010). Elaborare considerazioni sulla
partecipazione dei cittadini al progresso, o più precisamente sull’interazione
indispensabile per progredire nel benessere di tutti, compreso quello delle
generazioni future, significa tenere conto delle domande e dei contributi di tutti,