CAPITOLO II
1.1 La posizione debitoria del prestatore di lavoro ai fini disciplinari
Le difficoltà riscontrate nell’individuare un fondamento contrattuale al potere
disciplinare, sono, in realtà, conseguenza dell’ulteriore interrogativo circa l’ampiezza
della posizione debitoria del prestatore di lavoro ai fini della validità dell’esercizio
del potere da parte del datore di lavoro.
Il dibattito di cui si è dato conto
43
, che ha dato origine alla contrapposizione tra la tesi
c.d. “contrattualistica” e la tesi c.d. “organicistica”, sviluppatasi attorno alla
possibilità di distinguere tra responsabilità contrattuale per inadempimento e
responsabilità disciplinare, ha condotto a ricomprendere nella stessa categoria e a
considerare coincidenti ai fini disciplinari i doveri cui il prestatore di lavoro è tenuto
in relazione al rapporto di lavoro, e quelli invece riconducibili all’organizzazione
dell’impresa
44
.
Se, sul piano tecnico – teorico, si è trovata una distinzione tra condotte lesive del
rapporto disciplinare, e condotte che incidono su ampi interessi organizzativi del
datore di lavoro, la dottrina ha sottolineato che questa distinzione non è produttiva di
effetti sul piano pratico, perché l’articolo 2106 ricollega l’esercizio del potere
43
Cfr. cap. I, § 1.1.
44
PERSIANI, Contratto di lavoro e organizzazione, Padova, 1966, p.149; MENGONI Contratto e rapporto
di lavoro nella recente dottrina italiana, in Riv. Soc. 1965, 685 e ss.
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all’inosservanza del 2104 c.c. (obbligo di diligenza nella prestazione lavorativa), e
dell’articolo 2105 c. c(violazione degli obblighi di fedeltà)
45
. Si può così affermare
che ogni reazione del datore di lavoro ad un’ infrazione del lavoratore deve esser
collegata al rapporto disciplinare attraverso ciò che sottolinea l’articolo 2106 c. c, che
poi rinvia agli art. 2104 e 2105 c. c. L’accertamento di un fatto o comportamento è
una questione collegata alla delimitazione dell’area debitoria del lavoratore e, quindi,
alla nozione di obbligazione di lavoro in forma subordinata
46
; infatti è impossibile
fare una casistica tipizzata in modo rigido estesa a tutte le infrazioni, visti i continui
mutamenti nell’impresa e negli enti pubblici.
La descrizione delle condotte vietate da parte dei codici disciplinari previsti dai
contratti, serve da un lato a capire quali comportamenti sono incompatibili con il
realizzarsi degli obblighi di diligenza dell’articolo 2104 c. c, e dall’altro a realizzare
una trasfusione nell’elenco degli obblighi contrattuali di tutte quelle disposizioni
impartite dal datore di lavoro per la corretta esecuzione e la disciplina del lavoro. Una
volta ammessa e verificata la tipizzazione delle condotte illecite, i contenuti della
contrattazione collettiva non vengono sottoposti ad un controllo di legalità
concentrato sulla riconducibilità dell’infrazione al rapporto obbligatorio
47
, poichè si
trasferisce l’indagine sul grado di specializzazione dei contratti collettivi, soprattutto
quando essa viene integrata dal datore di lavoro.
45
MONTUSCHI L., Potere disciplinare e rapporto di lavoro, in Quaderni di diritto del lavoro, 1991, cit. p.
21.
46
Chieco, Poteri dell’imprenditore, cit., 219.
47
Del Punta, Sanzioni conservative, cit., 98.
24
Sia l’articolo 2106 che l’articolo 7 dello Statuto realizzano un modello in base al
quale il rilievo disciplinare di un comportamento del lavoratore è rimesso alla
determinazione del contratto collettivo. Lo Statuto più volte ha contribuito a
determinare gli ambiti e i contenuti di legittimo esercizio del potere; infatti si è
osservato come questa tutela dei diritti all’interno dell’impresa ha ampliato la sfera
dei comportamenti leciti del lavoratore, rimodulando l’area debitoria rilevante oppure
introducendo cause di giustificazione di comportamenti illeciti o circostanze volte ad
attenuarli
48
. Questo vale per i diritti di libera manifestazione del pensiero, e di
svolgimento dell’attività sindacale i quali non possono dar luogo a sanzioni
disciplinari.
In sostanza, nella normativa lavoristica e nell’ambito dei principi dell’ordinamento,
esistono regole che, pur essendo estranee alla materia disciplinare, sono idonee a
costituire dei limiti di carattere sostanziale all’esercizio del potere punitivo da parte
del datore di lavoro ed esimendo da sanzione la resistenza del lavoratore di fronte a
pretese illegittime.
1.2 Comportamenti che integrano i reati
La descrizione della fattispecie disciplinare, di cui abbiamo finora considerato
l’inadempimento come elemento oggettivo, pone il problema della rilevanza della
volontarietà della condotta, vista come elemento soggettivo fondamentale.
48
L. Spagnuolo Vigorita, Il potere disciplinare dell’imprenditore, cit., 53.
25
L’elemento comune è che per la configurabilità dell’illecito manca un atteggiamento
colposo del lavoratore
49
, dal quale non si può prescindere. Indici normativi che fanno
capire quanto è importante l’elemento soggettivo sono riscontrabili nell’articolo
2106 e nell’articolo 7 dello Statuto: nel primo il lavoratore incorre in sanzioni
disciplinari con riferimento alle “infrazioni” caratterizzate da “gravità”, nel secondo
si ritiene che la responsabilità sia di carattere personale e venga inserita in un circuito
para- processuale diretto a far emergere la non imputabilità del fatto al lavoratore, ed
in particolare al grado di colpa.
Quest’elemento si può identificare anche nella negligenza del lavoratore e nella
mancata osservanza delle disposizioni impartite dall’imprenditore o dai collaboratori,
fino ad arrivare ai comportamenti mirati alla lesione dell’interesse protetto.
L’immanente presenza dell’elemento soggettivo è riscontrabile in molte clausole dei
contratti collettivi, che guardano alla colpa come un elemento costitutivo della
fattispecie dell’illecito, ovvero ad un criterio distintivo delle infrazioni per quanto
riguarda il dolo.
Perplessità sono state avanzate sull’elemento soggettivo come elemento costitutivo
della fattispecie. Partendo dalla concezione neutra dell’obbligo di diligenza e
riscoprendo i significati che i concetti di colpa e di imputabilità hanno assunto
nell’inadempimento contrattuale
50
, dove “la colpa non indica un vitium voluntatis ma
l’inosservanza di regole oggettive”, e predeterminate secondo norme di esecuzione
della prestazione, si è rilevato in dottrina che la colpa intesa come requisito
49
Mancini, La responsabilità contrattuale,cit, 25.
50
Giorgianni, L’inadempimento, Milano, 1975, 207 e ss.
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soggettivo non costituisce la fattispecie di inadempimento. Quindi “l’elemento
soggettivo della colpevolezza rileva ai fini dell’accertamento della gravità
dell’infrazione e non ai fini della qualificazione della fattispecie di
inadempimento”
51
.
In definitiva gli elementi di ordine personale incidono, a scopo sanzionatorio, sulla
sola verifica di gravità dell’inadempimento e la colpa disciplinare viene assimilata a
quella contrattuale, in quanto il debitore è già in una situazione di insolvenza dovuta
al fatto che la prestazione non sia stata eseguita.
Vi è una summa divisio avuta in dottrina tra regole di condotta che concernono
obblighi contrattuali del lavoratore e condotte che rappresentano nello specifico gli
obblighi di adempiere secondo le disposizioni per l’esecuzione e la disciplina del
lavoro, è rilevante appena vengono elencati i comportamenti sanzionabili. Si è
rilevato che i comportamenti considerati incompatibili con i “valori dell’impresa si
sono perpetuati nel tempo, già a partire dalla codificazione realizzatasi nel periodo
corporativo, al punto tale da considerare il 2104 e il 2105 come un emergere di regole
consolidate nella normativa disciplinare dei contratti collettivi
52
.
Da un lato la presenza delle tipizzazioni contrattuali costringe l’interprete ad una
dettagliata analisi della casistica, dall’altro l’eterogeneità rende discutibile ogni
tentativo di classificazione volte a ricomprendere la fattispecie di infrazione, o
dell’interesse datoriale colpito dall’illecito. Tra le infrazioni della prima categoria
rientrano l’assenza ingiustificata o l’abbandono ingiustificato del lavoro, il ritardo, il
51
Viscomi, Diligenza e prestazione di lavoro, Torino, 1997, 287 e ss.
52
Montuschi, Sub art. 7, cfr 36 e ss.
27
rifiuto di eseguire mansioni di competenza del lavoratore, il contegno scorretto verso
la clientela o la mancata esecuzione del lavoro straordinario festivo o notturno se
richiesto dal datore di lavoro, mentre possono essere elencate nel secondo tipo la
tutela del regolare svolgimento dell’organizzazione del lavoro, l’inosservanza delle
disposizioni, la lieve insubordinazione, i comportamenti denigratori, lo stato di
ubriachezza durante l’orario di lavoro, la manomissione o l’alterazione dei sistemi di
controllo, l’inosservanza del divieto di fumare nei locali adibiti. Oltre a queste,
rientrano altresì quei comportamenti violenti volti a minare la tranquillità
dell’ambiente o dei rapporti interpersonali tra il lavoratore ed il management, dando
vita a delle situazioni anche di rilevanza penale come la rissa o l’alterco tra colleghi
di lavoro; tra queste situazioni v’è anche la violazione dell’obbligo di fedeltà,
accostata sia alla responsabilità disciplinare che a quella risarcitoria.
Questi rapporti descritti sopra trovano spunti d’indagine in quei casi in cui il
lavoratore sia incorso in una pena detentiva per la commissione di reati non connessi
allo svolgimento del rapporto di lavoro, o quando lo stesso fatto è anche fonte di
responsabilità penale.
Nel primo caso vale il principio dell’irrilevanza di fatti come la commissione di
determinati reati o la condanna a pena detentiva per fatti penali non attinenti
all’esecuzione della prestazione e agli obblighi contrattuali. Secondo alcuni, la
ripetuta propensione a delinquere non costituisce motivo di rilevanza disciplinare,
poiché è necessario l’accertamento circa l’obbligo del lavoratore di non commettere
un determinato fatto. Occorre cioè la prova, posta in capo al datore di lavoro, che
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l’episodio delittuoso determini riflessi negativi sull’ambiente di lavoro tali da rendere
impossibile la prosecuzione del rapporto; si richiede in particolare che il fatto assuma
tanta gravità in ambito lavorativo in modo tale da costituire un pregiudizio per
l’organizzazione aziendale.
In modo diverso si pone la questione circa la sussistenza di una responsabilità penale
per fatti o comportamenti attinenti alla prestazione lavorativa, considerati quali
infrazioni disciplinari. Si tratta delle figure della rissa dentro e fuori i locali, del
danneggiamento di beni aziendali, del furto, della frode, dell’ingiuria, delle lesioni o
delle molestie sessuali, che in dottrina non sono perseguibili sul piano disciplinare,
sulla considerazione che il datore di lavoro non può arrogarsi il diritto di infliggere in
via anticipata una pena preclusa allo stesso potere statuale
53
. Qui si è rilevato che le
condotte in oggetto, secondo un carattere plurioffensivo, sollecitano
contemporaneamente una reazione generale ed una particolare, in quanto sono fatti
idonei a turbare il rapporto contrattuale e quindi autonomamente perseguibili.
Questo per dire che non sussiste alcun nesso di pregiudizialità tra giudizio penale ed
azione disciplinare per gli stessi fatti, attribuendo al datore di lavoro la possibilità di
reagire. Questo vale per i fatti che costituiscono illeciti disciplinari a prescindere
dall’esistenza o meno di un reato.
1.3 Estensione delle sanzioni al settore pubblico
Il decreto legislativo 165/2001 riserva alle sanzioni disciplinari una regolazione
identica a quella delle infrazioni. La legge infatti estende alle “sanzioni disciplinari”
53
Montuschi, Potere disciplinare e rapporto di lavoro, cit, 176.
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il rinvio alla contrattazione collettiva, dimostrando così di sottoporre sia il regime
delle sanzioni che quello delle infrazioni ad un’unica fonte regolativa; ciò si evince in
maniera più chiara dall’articolo 55 del decreto che attribuisce ai contratti collettivi la
possibilità di definire la “tipologia” delle ”infrazioni e delle relative sanzioni”,
rinviando alla fonte negoziale. Lo fa anche astenendosi da qualsiasi limitazione
qualitativa, enunciando una procedura semplificata di irrogazione
54
.
Rispetto al regime previgente, la cesura è netta: mentre nel t. u. imp. civ. 3/1957, la
tipologia delle sanzioni era già definita e disciplinata dall’articolo 79 a 85, fornendo
un elenco di condotte vietate alle quali venivano affiancate pene disciplinari aventi i
caratteri della tipicità e della tassatività, ora possiamo dire che la contrattazione
collettiva ha reso assai articolato l’apparato sanzionatorio del codice disciplinare
fornendo alle amministrazioni criteri generali volti a modulare la sanzione in
proporzione alla gravità e alla modalità delle infrazioni commesse.
Infatti, salvo accennate indicazioni di legge, la tipologia delle sanzioni costituisce una
parte integrante delle norme che disciplinano i contratti collettivi, i quali ne
forniscono un elenco dettagliato nella norma dedicata alle “Sanzioni e procedure
disciplinari” per poi correlarle con le infrazioni nel “Codice Disciplinare” .
L’effetto “unificante “ della normativa disciplinare ha fatto sì che la tipologia delle
sanzioni risulti identica in ogni settore del pubblico impiego, dando vita alla
“omologazione delle conseguenze” per tutti i dipendenti delle pubbliche
amministrazioni a provvedimenti disciplinari. I contratti prevedono 6 tipi di sanzioni:
54
Levi, Il potere disciplinare, cit, 178.
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