8
il termine giusto incomincia ad essere collaborare) con queste macchine che
sembrano avere lo stesso problema degli androidi di BladeRunner: prestazioni
sempre più stupefacenti ma una vita irrimediabilmente breve.
Intanto mentre attendiamo che l’alta definizione entri nelle nostre case, che il
prezzo dei DVD diventi accettabile e che i cinema abbandonino le storiche
bobine e si facciano inviare via satellite i film in forma digitale, qualcosa è già
successo, qualcosa che è iniziato alla fine degli anni ‘50 e che tra alterne fortune
e disavventure ha conquistato un suo territorio nell’immaginario comune
dell’uomo occidentale, conquistando uno dei suoi spazi più preziosi: il tempo
libero.
E’ il videogioco, ed ha una quadruplice paternità3: nasce con finalità didattiche
(il Tennis for Two di William A. Higinbotham nel 1958), come possibile
applicazione ludica del computer (è il caso di Spacewar di Stephen Russel del
1962), come forma di intrattenimento casalinga (con Ralph H. Bear che ne
intuisce le potenzialità commerciali, ne deposita il brevetto nel 1968 e crea nel
1972 l’Odissey Magnavox, la prima console della storia, destinata a scomparire
poiché il mercato non era ancora pronto per comprendere una così radicale
innovazione) e come forma di intrattenimento pubblico (Computer Space del
1971 e soprattutto Pong del 1972 creati da Noland K Bushnell, primo successo di
massa del videogioco).
Ed è proprio nei locali pubblici che il videogioco incomincia a sedurre i giovani
teen-ager americani, accanto ai giochi elettromeccanici e ai flipper, arrivando a
conquistare dei locali pubblici propri, le sale giochi, che diventeranno, grazie
anche alla diffusione dei supermarket in cui si ritagliano subito un loro spazio,
luogo di incontro multiclasse e multietnico per migliaia di giovani americani.4
Da allora il videogioco ha subito un’incredibile quanto inevitabile
trasformazione. Il videogioco moderno non si è evoluto solo dal punto di vista
3
Bittanti Matteo, L’innovazione tecnoludica – L’era dei videogiochi simbolici ( 1958 –1984), ed.I,
Jackson Libri, Milano, 1999, pp.48-62
9
estetico, le maggiori e più significative trasformazioni sono avvenute nella sua
struttura più profonda: ha acquistato una trama che col tempo si è fatta sempre
più complessa, fino ad arrivare alle narrazioni epiche delle saghe di Final
Fantasy o di Ultima, ha creato personaggi dal notevole spessore psicologico che
non vanno più solo pilotati ma quasi accompagnati nelle loro avventure
(pensiamo a Cloud di Final Fantasy VII o a Solid Snake in Metal Gear Solid)
dotati di una propria personalità e autonomia che li fa sempre più assomigliare a
esseri viventi, ha creato interi mondi da esplorare, nuove Superstar digitali (a
partire da Pac Man fino a arrivare a Mario Bros e Lara Croft solo per citare i più
famosi), ma soprattutto ha contaminato e inglobato i linguaggi di tutti gli altri
media.
In questo senso è fondamentale riconoscere il suo statuto di new media.
E’ digitale, comunica i suoi contenuti a milioni di persone, fonde i media
tradizionali, i loro codici e i loro linguaggi per creare qualcosa di completamente
nuovo che non è né cinema, né televisione, né carta stampata ma sintesi di tutti
questi. In una sola parola è videogioco, cioè gioco con l’audiovisivo con tutto ciò
che questa definizione implica.
Ma analizziamo in modo più approfondito la questione.
Nel 1939 un eclettico sociologo interessato alla Kulturgeschichte (quindi più uno
storico delle idee che un sociologo) pubblica ad Amsterdam in lingua tedesca un
saggio molto interessante: Homo Ludens5 (pubblicato in Italia per la prima volta
nel 1949). Il suo nome è Johan Huizinga e gode già di una discreta fama per
opere come Herfstij der Middeleeuwen (L’Autunno del Medio Evo,
Harlem,1919) e In der schaduwen van morgen (La crisi della civiltà, Harlem,
1935)6. Ma è con Homo Ludens che l’autore propone un’interpretazione
interessante e totalmente innovativa della storia della cultura. Il titolo dell’opera
racchiude già in sintesi tutto il suo pensiero: l’umanità non è composta da
4
Herz J.C., Joystick Nation: how videogame ate our quarters, won our hearts and rewiredour minds, (tr.
It., Il popolo del joystick. Come i videogiochi hanno mangiato le nostre vite, Giangiacomo Feltrinelli
Editore, Milano, 1998, pp 53-68)
5
Huizinga Johan, Homo Ludens, Giulio Einaudi editore, Torino, 1949
10
homines sapiens ma da homines ludens, “la civilta umana sorge e si sviluppa nel
gioco, come gioco”7. Attività che per il loro intrinseco carattere di serietà sono
comunemente opposte al gioco, come la religione, il diritto, la guerra, la poesia ,
la filosofia, la scienza e l’arte, sono nate e si sono sviluppate in forma di gioco e
vengono tuttora giocate, sebbene la cosa non sia più così evidente come nelle
società arcaiche.
Il gioco diventa quindi elemento comune e invariante culturale in ogni ambito
della cultura umana.
A questo punto è necessario definire esattamente cosa Huizinga intende quando
si riferisce al gioco.
“Il gioco è più di antico della cultura… (è già presente nel mondo animale
N.d.R.)… ma è qualcosa di più che un fenomeno puramente fisiologico o una
reazione psichica fisiologicamente determinata…Il gioco è una funzione che
contiene senso”.8
Il gioco è anzitutto un atto libero, volontario e desiderato. Non è imposto da una
necessità fisica e tantomeno da un dovere morale. Solo in un secondo momento,
quando diviene funzione culturale, compaiono i concetti di dovere, compito,
impegno.
Il gioco non è la vita ordinaria, è una sfera temporanea di attività con una finalità
propria. Attraverso il gioco l’uomo “crea un mondo, fittizio e pur vivo,
convenzionale eppur non meno concreto del cosiddetto mondo reale, in cui
l’immaginazione possa distendere” (Chabod)9. Esso si isola dalla vita ordinaria in
luogo e durata e si fa accompagnamento e completamento della vita in generale.
La sua limitazione nel tempo (la durata del gioco) e ancora di più la sua
limitazione nello spazio (il campo da gioco) sono determinati in anticipo, sia
6
Dossena Giampaolo, Enciclopedia dei giochi, Utet, Torino, 1999 p. 601
7
J. Huizinga, op. cit., p. XXXI
8
Ivi, p. 3
9
citato in Eco, Umberto, “Homo Ludens” oggi, saggio introduttivo in Huizinga Johan, Homo Ludens,
Giulio Einaudi Editore, Torino, 1973, p. IX.
11
materialmente, sia nel pensiero. In questo senso il gioco è formalmente identico
al rito: entrambi si compiono in spazi segregati lontani dallo spazio comune e dal
tempo quotidiano in cui valgono speciali regole e in cui i partecipanti assumono
specifici ruoli nel rispetto di quelle regole.
Entro lo spazio destinato al gioco domina un ordine proprio e assoluto. Il gioco
soddisfa temporaneamente l’istanza umana di ordine, arresta per un momento la
caoticità, l’imprevedibilità e l’ingovernabilità del reale. Il gioco crea ordine, è
ordine.
Ed è in questa tendenza a creare forme ordinate che la riflessione sul gioco trova
un territorio di contatto con la riflessione sul concetto di bello: l’estetica.
Il gioco in ogni sua forma tende ad essere bello sebbene il concetto di bello possa
manifestarsi in forme anche molto differenti. I termini con i quali possiamo
definire gli elementi del gioco provengono in gran parte dalla sfera estetica:
tensione, equilibrio, oscillamento, scambio di turno, contrasto, variazione,
intreccio e soluzione.
Il gioco è seducente e affascinante, il gioco è ritmo e armonia. Il gioco è tensione,
incertezza (e in ciò imita il mondo reale su scala ridotta), possibilità di una buona
o di una cattiva riuscita.
E’ questo elemento di tensione che tuttavia dà un certo contenuto etico
all’attività di gioco, situata di per sé fuori dall’ambito del bene e del male. Nel
gioco è messa alla prova l’abilità del giocatore, sia essa forza fisica, destrezza o
ingegno.
Il giocatore ha sempre ben presente un obiettivo: eccellere nel proprio campo,
vincere nel rispetto delle regole.
Ma quali sono le caratteristiche delle regole del gioco? Le regole del gioco sono
assolutamente obbligatorie e inconfutabili. Non è ammesso scetticismo nei loro
riguardi. Cambiare regole significa modificare il gioco, è un’attività che è lecita
solo al di fuori del gioco stesso, quando esso non è ancora iniziato e non esistono
partecipanti.
12
Tenendo presente questo si capisce come i giocatori tollerino maggiormente la
figura del baro piuttosto che quella del guastafeste.
Il baro finge di giocare il gioco, il guastafeste rompe l’illusione del gioco, ne
svela la relatività e la fragilità, distrugge il mondo in cui i partecipanti al gioco si
sono temporaneamente e volontariamente rinchiusi. La stessa cosa è avvenuta e
avviene all’interno della società, nel mondo reale: gli ipocriti sebbene condannati
non sono considerati pericolosi e indesiderati come gli eretici i quali, se non
vogliono essere eliminati, devono fondare nuove regole, creare altre comunità
giocanti.
La comunità giocante tende a costituire un gruppo anche quando il gioco è finito.
La sensazione di trovarsi assieme in una situazione eccezionale, di segregarsi
insieme agli altri, di allontanarsi dalla quotidianità, prolunga il suo fascino oltre i
limiti temporali del gioco. Il club è il risultato di questa naturale inclinazione.
Questa visione globale del fenomeno gioco ci sembra si sposi naturalmente con
la riflessione che ci proponiamo di compiere sui videogiochi.
Innanzitutto analizziamo la parola con cui è stato identificato inizialmente questo
tipo di testo-oggetto: “videogame”.
Video si riferisce alla materia prima del videogioco: l’immagine10. Le immagini e
l’interattività sono le due componenti fondamentali del videogioco.
Il sonoro infatti, per quanto sia fondamentale ai fini di creare una giusta
atmosfera e immergere il giocatore nel mondo immaginario del gioco, può
sempre essere escluso senza che la giocabilità e la comprensibilità del testo
siano irrimediabilmente compromesse. E ciò vale anche per i Rhythm Games11,
giochi in cui per individuare il momento esatto in cui eseguire una certa nota
occorre sia ascoltare il brano da completare sia leggere la rappresentazione visiva
del brano che si sta ascoltando. In pratica al momento giusto delle immagini ci
avvertono che dobbiamo premere determinati tasti. Il primo metodo è
sicuramente più efficace ma l’interazione con le immagini rimane comunque
10
in particolare l’immagine di sintesi che sarà analizzate nel cap. III
11
Rhythm Games, tr. It. Giochi di ritmo, vedi I.1.12
13
necessaria, d’altronde si sa che la vista, soprattutto nel nostro secolo, è un senso
sopravvalutato.
Video (dal latino videre, trad. it. “vedere”) è il primo elemento che, in parole
composte del linguaggio scientifico e tecnico, indica apparecchiature, immagini o
grandezze usati nei sistemi televisivi di trasmissione (videocassette,
videocitofono, videofrequenze) ovvero indica relazione con la vista (videoleso).
Video è lo schermo fluorescente su cui vengono visualizzati i risultati di una
elaborazione elettronica o i dati contenuti nella memoria di un calcolatore.
Videogioco è:
Apparecchio elettronico che permette a uno o più giocatori di simulare, mediante
vari tipi di comandi, sullo schermo di un televisore ordinario a cui viene
collegato o su quello di un monitor che ne fa parte integrante, vari giochi,
generalmente sportivi o ideati appositamente12.
Game d’altra parte è “an amusement or sport involving competition under rules”
(Webster).13
Game è la matrice astratta che permette l’esecuzione di un’azione piacevole: to
play, il verbo che nella lingua inglese non significa solo giocare ma anche
suonare e recitare (come il francese jouer e il tedesco spielen).
Huizinga nel suo saggio, analizza la nozione di gioco in tutte le principali lingue
del pianeta e rivela come anche in lingue molto distanti tra di loro il campo
semantico associato alla parola gioco comprenda quasi sempre alcuni significati:
il carattere di scherzo, di divertimento, di movimento vivace, di
rappresentazione, di messinscena, di competizione, di tensione al rischio.
Alla luce di queste riflessioni non c’è termine più adatto di player per indicare
l’utente di videogiochi: egli non solo gioca, ma recita una parte, partecipa a una
messinscena, con la nascita dei Rhythm Games persino suona su finti strumenti.
12Nicola Zingarelli, Il Nuovo Zingarelli, vocabolario della lingua italiana, ed XI., Zanichelli, Bologna,
1984
14
Per concludere, una curiosità. La lingua giapponese denota come il concetto di
gioco permea in modo totale la cultura nipponica. I giapponesi nascondono
l’eccezionale serietà del loro ideale di vita dietro la finzione che tutto il vivere
non è che un gioco. Il Bushido giapponese (un fenomeno analogo alla Chevalerie
del Medioevo cristiano) si svolge totalmente nella sfera del gioco. L’asobase-
kotoba, letteralmente lingua per gioco, è il linguaggio che si usa per rivolgersi ai
superiori.
Delle classi sociali superiori si presuppone che agiscano sempre per gioco,
qualunque cosa facciano. La forma cortese per dire: voi arrivate a Tokio,
letteralmente tradotta sarebbe: voi giocate arrivo a Tokio. E così per: ho sentito
che vostro padre è morto, si dice: ho sentito che messere vostro padre ha giocato
morte. Il superiore è veduto come vivesse in una zona elevata, ove solo il
proprio piacere lo porta ad agire.14
Cioè è sicuramente significativo, se teniamo conto che in Giappone i videogiochi
sono considerati molto seriamente. In Giappone esistono giochi su qualunque
argomento, videogame che l’occidente osserva con un certo distacco se non con
superiorità o disprezzo.
Si va dai simulatori di pesca ai fuochi d’artificio, dai giochi in cui si controlla
l’evoluzione della carriera di una cantante digitale ai giochi erotici vietati ai
minori in cui l’obiettivo del proprio simulacro virtuale è quello di sedurre
affascinanti anime gemelle fatte di pixel (i cosiddetti giochi Hentai15). Questa
cultura del gioco sicuramente ha avuto il suo ruolo nel costruire il successo
commerciale di industrie ora famose in tutto il mondo come la Nintendo o la
S.E.G.A. Non a caso una rivista del settore paragonando alcuni aspetti di due
ottimi videogiochi di guida, uno americano (Driver del Team Reflection) e uno
giapponese (Gran Turismo 2 della Polyphony) non esitava a dichiarare “esistono
13
cit. in. Eco, “Homo Ludens” oggi, op. cit., p. XVIII
14
J. Huizinga, op. cit., p. 43
15
Vedi cap I.1.11.
15
due realtà nel mondo dell’intrattenimento videoludico: il pianeta terra e il
Giappone”.
16
I. CLASSIFICAZIONE DEI VIDEOGIOCHI
Per analizzare con ordine il vasto insieme dei testi-oggetto che possiamo
identificare come videogiochi occorre segmentare questa categoria in diversi
generi. Riteniamo che siano appropriate due tipi di classificazioni.
La prima è sorta spontaneamente, in modo totalmente asistematico. E’ nata sulle
riviste che si occupano di intrattenimento videoludico e fa parte del linguaggio
proprio di questa comunità giocante. Tale classificazione, che noi definiremo
Classica16, è comparsa e si è sviluppata naturalmente per permettere ai
componenti della comunità videoludica di meglio definire e individuare gli
oggetti con cui ha a che fare.
La seconda è un’applicazione degli studi di un antropologo, Roger Caillois, che
riferendosi esplicitamente al lavoro di Huizinga, scrive nel 1958 Les jeux et les
hommes17 e cura nell’enciclopedia diretta da Raymond Queneau per l’editore
Gallimard (Encyclopèdie de la Plèiade) il volume su giochi e sport pubblicato
nel 1967.18 Callois pretende di poter suddividere in modo esauriente tutti i giochi
esistenti e possibili utilizzando quattro categorie: Agon o competizione, Alea o
caso, Mimicry o maschera, Ilinix o vertigine. Ogni gioco inoltre è caratterizzato
dalla presenza più o meno significativa di una struttura rigida di regole che limita
la libertà dei giocatori e che va dalla totale assenza di regole, la Paidia, al gioco
fortemente strutturato, il Ludus.
16
la classificazione classica utilizza prevalentemente espressioni originarie della lingua inglese. Qualora
in Italia nella prassi si sia affermato anche un’espressione in italiano tale neologismo sarà messo tra
parentesi in caso contrario si rimanda alla traduzione in nota.
17
Caillois Roger, Les jrux et les hommes. Le masque et la vertige, Editions Gallimard, Paris, (tr. It. I
giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, ed. I, Gruppo Editoriale Fabbri- Bompiani, Sonzogno,
Etas S.p.A.,Milano, 1981)
18
cit. in G. Dossena, op. cit., p.253
17
I.1. La classificazione Classica
Per il continuo evolversi della materia trattata e per il suo carattere di
spontaneità, la classificazione Classica, risulta perennemente instabile. In effetti
sebbene il gran numero di software disponibile sia riconducibile alle categorie
già esistenti, prima o poi capita di dover inventare nuovi termini per classificare
videogiochi fortemente innovativi.
La nascita di questa classificazione è legata in modo sostanziale alle modalità di
produzione dei videogiochi.
Da sempre un autore innovativo crea un prodotto che ha per diversi aspetti
carattere di novità e si distingue fortemente dalla massa del restante software. Se
il gioco ha successo subito altri autori o altre software house19 si appropriano
dell’idea alla base del gioco (il concept) dando il via alla creazione dei cosiddetti
cloni (programmi che spesso si differenziano dall’originale solo per l’aspetto
estetico). Generalmente questi videogiochi tendono ad essere piuttosto mediocri
e l’abbassamento del livello globale della qualità degli stessi, sommato alla
sensazione di mancanza di originalità del settore, ha provocato più di una volta
drammatiche crisi nel mercato dell’intrattenimento videoludico (come ad
esempio la cosiddetta “Peste dell’hardware” del 1977 causata dai cloni di Pong o
la “Peste del software” del 1983 che portò allo smembramento, da parte della
Warner, della storica Atari)20. D'altronde, essendo il videogioco un bene di
consumo, un prodotto da vendere in un mercato libero, il fenomeno è piuttosto
inevitabile; dinamiche analoghe sono infatti presenti nel mondo del cinema e
dell’intrattenimento musicale, ma grazie ad un riconosciuto status culturale che al
videogioco è ancora negato, in entrambi i casi esistono dei territori, come il
cinema o la discografia indipendente, in cui le logiche economiche sono
relativamente più deboli.21
19
Softwarehose tr. It.editori di software
20
J.C. Herz, op. cit., p. 25
21
riguardo la nascita di una produzione videoludica indipendente vedi Saltzman Marc, Game Design:
Secret of the Sages, second Edition, Brady Publishing, Indianapolis, 2000 pp. 329-338
18
Alla luce di quanto esposto vedremo come nella classificazione Classica ogni
genere ha un illustre capostipite. Faremo poi una breve e non esaustiva (poiché
sarebbe sempre da aggiornare) carrellata di nuove categorie fino a concludere
con esempi per cui non esistono definizioni appropriate.
All’interno di un genere, naturalmente, non esistono solo i cloni. Spesso pur
rimanendo il concept invariato, nuovi giochi apportano sostanziali modifiche che
si diffondono nelle generazioni seguenti di videogame contaminando spesso
anche altri generi a cui non appartengono.
I.1.1 Shoot’em up (Sparatutto)
L’antenato illustre di questa categoria è addirittura Spacewar (1962), il secondo
videogioco della storia e il primo ad essere considerato tale dai suoi creatori (il
Tennis for Two di Higinbotham aveva scopi educativi anziché ricreativi).
L’obiettivo della simulazione spaziale di Russel era quello di distruggere
l’astronave avversaria, utilizzando l’armamento della propria navicella. I
giocatori erano obbligatoriamente due poiché l’hardware che permetteva a
Spacewar di funzionare (il mainframe PDP-1) non era in grado di gestire
nemmeno una minima intelligenza artificiale. Le due astronavi (uno spillo e un
cuneo) si affrontavano nello spazio siderale (lo sfondo nero). La partita
terminava con l’eliminazione dell’avversario.
Spacewar subì diverse migliorie e modifiche da altri studenti di ingegneria
appartenenti alla neonata comunità degli hackers. Il programma infatti nacque e
si sviluppò nell’ambito universitario sfruttando il costosissimo e ingombrante
Programmed Data Processor-1 donato al MIT (Massachussets Institute of
Technology di Boston) da Digital Equipement Corporation. La cultura dello
scambio e della condivisione delle conoscenze e delle competenze diffusa nella
comunità hacker (sostenitori dell’ideologia no-copyright) fece in modo che
Spacewar si diffondesse liberamente in ambito universitario e che venisse
liberamente modificato. Peter Samson, ad esempio, aggiunse dei puntini neri allo
19
sfondo che, rappresentando le stelle dell’universo, migliorano l’atmosfera del
gioco. Dan Edwars inserì nel campo da gioco un sole che influenzava la
traiettoria dei missili. J.M. Greatz aggiunse la funzione dell’iperspazio che
permetteva alla propria navicella di scomparire dallo schermo e di ricomparire in
un altro punto del tutto casuale.
Sfruttando la rete ARPA net (antenata preistorica dell’attuale Internet) creata nel
1969, il gioco venne distribuito liberamente a tutte le università dotate di un
hardware in grado di farlo funzionare.
Successivamente il genere degli Shoot’em Up conosce altre importanti
innovazioni che diventeranno caratteristiche di migliaia di “Sparatutto”: il
giocatore si ritroverà da solo ad affrontare una minaccia di proporzioni enormi
(Space Invaders nel 1978 è il primo successo di massa del videogame sia in sala
giochi che in casa, come cartuccia dell’Atari 2600), comparirà una schermata
dedicata alla registrazione dei record in cui il giocatore può firmare il proprio
punteggio con le proprie iniziali (apparso la prima volta in Asteroids, uno dei
primi videogiochi che sfruttava la grafica vettoriale e ultimo gioco in bianco e
nero), il punteggio sarà visualizzato in modo permanente come nei flipper
(un’altra innovazione apparsa per la prima volta in Space Invaders), nascerà lo
scrolling - lo scorrimento dello schermo - vera innovazione linguistica del
videogioco (lo scrolling orizzontale viene utilizzato per la prima volta da Eugene
Jarvis in Defender nel 1980 e presto diventa scrolling verticale e scrolling
multidirezionale), le astronavi potranno potenziare il loro armamento (Galaga),
modificarlo durante il gioco, sfruttare barriere, aumentare la propria velocità o la
capacità di sopportare i colpi dei nemici, utilizzare i Pod (delle specie di satelliti
aiutanti apparsi per la prima volta in R-Type in cui appariva un’altra importante
innovazione: il Beam, ovvero la capacità di caricare un colpo molto potente
rinunciando alla propria potenza di fuoco per qualche secondo), faranno la loro
comparsa gli Shoot’em Up “a tubo” che simuleranno una certa profondità di
campo in cui è possibile inoltrarsi (è il caso di Tempest ) e quelli “in soggettiva”
(come Star Wars, il primo videogioco basato sulla licenza di Guerre Stellari), un
20
secondo giocatore sarà nostro alleato contro l’ennesima invasione di alieni, le
missioni saranno suddivise in livelli alla fine dei quali saranno posti i “Boss di
fine livello”: nemici sempre più grandi che dispongono di numerose modalità di
attacco e di una notevole resistenza.
Attualmente il genere degli Shoot’em Up viene suddiviso in base al tipo di
scrolling: Shoot’em Up a scrolling orizzontale, verticale o multidirezionale,
Shoot’em Up “a tubo” e Shoot’em Up in soggettiva, in cui si ha l’impressione di
essere all’interno dell’astronave pilotata. In questa categoria, rientrano anche i
moderni Shoot’em Up tridimensionali come Doom, Quake, Half Life.
Considerando questi ultimi titoli ci si rende conto come questo genere possa
allontanarsi da un immaginario fantascientifico composto soltanto da astronavi.
A volte il proprio alter ego digitale è un soldato (come in Commando o in Ikari
Warriors), a volte un pistolero (Gun Smoke), un aeroplano (Flying Shark), un
automobile (Road Blaster) o, addirittura, un drago alato (Dragon Spirit), degli
insetti (Apidia) o un pomodoro volante (Tomato’s Day).
A volte, soprattutto nelle sale giochi, gli Shoot’em Up necessitano di particolari
interfacce di controllo che simulano i comandi di un’astronave (Star Wars), di un
caccia da combattimento (Afterburner, Fire Fox) o vari tipi di armi come pistole
(Time Crisis, Hause of Dead) o mitragliatori (Operation Wolf).
I.1.2. Platform Game22
Questo genere di videogiochi è caratterizzato dalla presenza di ostacoli e nemici
che il simulacro del giocatore (generalmente un essere antropomorfo) deve
evitare saltandoli direttamente o realizzando dei percorsi alternativi mediante
l’uso delle piattaforme (da cui il nome della categoria). Le piattaforme sono zone
del campo da gioco su cui il personaggio può camminare, correre e saltare.
Capostipite della serie è Jumpman (1983), sviluppato da Randy Glover, e grande
successo di quell’anno, ma è con Donkey Kong, il gioco della Nintendo in cui fa
21
la sua prima comparsa Mario
23
, una delle maggiori superstar digitali
contemporanee, che il Platform Game, per la sua immediatezza e giocabilità, si
afferma come genere di massa.
Generalmente è dotato di scrolling (tendenzialmente orizzontale) e sono presenti
degli elementi dello Shoot’em Up, come la capacità di sparare, di utilizzare armi
differenti e vari tipi di barriere, la visualizzazione e registrazione del punteggio e
la divisione dell’avventura in livelli alla fine dei quali è presente un nemico
particolarmente tenace. A volte il giocatore ha un tempo limitato per concludere
lo schermo (anche questa caratteristica è nata negli Shoot’em Up con Computer
Space ma in quel genere è decisamente più raro trovare questa limitazione). Lo
scrolling inoltre generalmente è differente da quello degli sparatutto poiché
mentre in quest’ultima categoria lo schermo tende a scorrere a velocità costante
secondo delle direzioni prestabilite, nel Platform Game è influenzato dal
movimento del simulacro del giocatore.
Lo stile grafico di questo genere richiama quasi sempre il mondo del cinema
d’animazione o dei Manga giapponesi, anche perché molti Platform Games di
successo come Donkey Kong, Bobble Bubble, Rainbow Island o il recente Metal
Slug sono di produzione nipponica. I personaggi e i mondi rappresentati sono
spesso delle caricature, persino quando il mondo rappresentato si ispira
all’immaginario del cinema e della letteratura Horror (pensiamo a Ghosts‘n
Goblins e ai suoi seguiti) dove zombi, demoni e mostri d’ogni sorta hanno tutti
un aspetto “carino”.
Una componente fondamentale dei giochi a piattaforme è l’esplorazione che, a
secondo dell’estensione della mappa di gioco, può essere più o meno complessa.
22
Platform Game tr. It. “Gioco di piattaforme”
23
vedi II.2