I
Introduzione
Il seguente lavoro ha avuto come scopo quello di indagare, all’interno della
produzione spettacolare fiorentina, quegli aspetti d’immagine legati ai temi epici
dell’Orlando Furioso di Ariosto e, principalmente, della Gerusalemme liberata di
Tasso. Attraverso questi due grandi poemi sono state cercate quelle fonti letterarie,
drammaturgiche e figurative che ne derivassero direttamente, ne riprendessero
alcuni aspetti e temi o semplicemente si inserissero nel clima della “moda”
cavalleresca, il cui più fiorente momento si colloca tra il 1589 e il 1637 circa, le
importati date che segnano i confini temporali di questo percorso e che
appartengono al periodo più fecondo della spettacolarità granducale medicea, con le
nozze dei due Fernando: nel 1589 Ferdinand I sposa Cristina di Lorena, mentre nel
1637 Ferdinando II convola a nozze con Vittoria della Rovere. Entrambi gli eventi
sono ricordati per le grandi e fastose feste celebrative in campo teatrale.
Il lavoro ha preso le mosse dalla volontà di comprendere quali furono le esigenze
che spinsero la famiglia Medici a legittimare il proprio potere attraverso l’utilizzo
dell’epica e dell’immagine cavalleresca. La ricerca di questo tipo di legittimazione
risiedeva nelle stesse presunte origini medievali, che ogni casata nobiliare ricercava
per conferire maggior lustro alla propria famiglia. La famiglia Medici, in origine
dedita alle attività banca
casate nobiliari, ma ma
completa, elemento che
conferma granducale di
condottiero, che conferm
dall’altra sottolineasse le
all’Italia e all’Europa il
Lepanto nel 1571. Non s
la figura di riferimento
caratteristiche peculiari, q
personaggio risultò esser
dell’armata cristiana al te
del 1095. La figura di Go
cristiano, ma soprattutto
“infedeli”. In lui risiedev
simbolo di un dinastia m
dell’élite europea, un’es
delle nascenti monarchie
piccoli, ma prestigiosi, st
modo ai Medici di dimo
del Cristianesimo e di u
essere il Granduca. Passa
Goffredo, quale predeces
Lorena, celebrato nel 158
magna: al centro della sc
1
Cfr. R. DE ROOVER, Gli anteced
Medici, in «Archivio Storico Ital
2
Cosimo I fu creato Granduca
consisteva nel mettere a dispos
Lepanto; Cosimo avrebbe ricevu
3
Il nome originale francese era G
il 18 luglio 1100. Cfr. M. PAR
Dedalo, 1987, pp. 17-26.
carie e, particolarmente, all’usura,
1
fu cr
ancava di un elemento necessario alla
he si faceva sempre più necessario al
di Cosimo I:
2
un antenato prestigioso, m
ermasse da una parte una discendenza
le capacità militari della famiglia, che con o
il proprio fondamentale contributo all’im
solo, proprio in virtù del legame nell’unic
to a cui i Medici volevano agganciar
i, quasi di santità e abnegazione alla causa
sere Goffredo di Buglione,
3
signore fiamm
tempo della Prima Crociata (unica vittorio
offredo divenne emblema di fede e conser
o massima figura della difesa del Santo Se
evano tutte le caratteristiche necessarie per
mercantile che necessitava di essere confe
esigenza sentita in maniera sempre più f
ie nazionali, ma anche delle altre casate aris
stati italici. Goffredo di Buglione, difensor
ostrare anche il loro zelante supporto alla
i un nuovo possibile protettore della Cro
saggio fondamentale per l’acquisizione nei
essore illustre, fu il matrimonio fra Ferdinan
589 sotto la fulgida luce di un programma
scena la figura di Goffredo, le crociate e l
cedenti del Banco Mediceo e l'azienda bancaria di mess
aliano», CXXIII, 1965, pp. 3-13.
ca di Toscana nel 1569, dopo l’accordo stipulato c
osizione della Lega Santa la flotta medicea per comb
uto, così il titolo di Granduca, con tanto di bolla pontif
Godefroy de Bouillon, nacque a Baisy intorno al 1060
RISE, Goffredo di Buglione, il crociato esemplare, in
II
creditrice anche di
sua affermazione
all’indomani della
magari cavaliere e
di “sangue blu”,
n orgoglio mostrava
impresa cristiana a
ico credo cristiano,
arsi doveva avere
sa religiosa. Questo
mmingo e capitano
iosa per i Cristiani)
ervazione del credo
Sepolcro contro gli
erché fosse eletto a
nfermata all’interno
forte sull’esempio
ristocratiche dei più
ore della fede, dava
la Chiesa nel nome
roce, quale poteva
ei ranghi medicei di
ando I e Cristina di
a teatrale in pompa
le battaglie navali.
esser Vieri di Cambio de'
con Papa V: l’accordo
battere i Turchi presso
tificia.
0 e morì a Gerusalemme
in Le Crociate, Edizioni
III
Questo percorso, dunque, si snoda, dal capitolo I, partendo proprio da questo
straordinario evento, che segnò tanto la casata quanto la città e i suoi artisti, letterati,
ingegneri-architetti scenografi, per attraversare così quella produzione teatrale-
figurativa che caratterizzò il periodo suddetto e che aveva alle proprie radici i temi
cavallereschi tratti dai due più famosi poemi del Cinquecento letterario italiano.
La presunta discendenza della casata lorenese dal capitano fiammingo, fu un
elemento fondamentale a partire dal quale si decisero le sorti di quest’unione e fu
così che Cristina di Lorena introdusse Goffredo di Buglione all’interno della
famiglia Medici: Cristina portò, dunque, con sé, oltre alla materiale dote in danari,
un’ulteriore dote di inestimabile valore qual era il prestigio e la legittimazione tanto
agognata dai Medici. Dopo la corona granducale concessa a Cosimo I, il figlio
Ferdinando poteva così aspirare senza più alcun timore alle più alte onorificenze e
al riconoscimento indiscusso della propria famiglia a livello europeo e cristiano.
Nello stesso momento, prendendo spunto dalla casa d’Este, che aveva da sempre
aggiunto nuova linfa alla spettacolarità e alle pratiche teatrali innovative, i Medici
seppero cogliere quei frutti più preziosi che andavano a combaciare con i propri
interessi, non facendosi sfuggire l’occasione, , della stesura della Liberata da parte
di Tasso, occorsa a proposito in quegli anni. Se la casata d’Este aveva fissato nel
Furioso il più prezioso supporto encomiastico alle origini della famiglia, grazie alla
figura dell’imperfetto cavaliere Ruggiero, i Medici, attraverso Cristina di Lorena,
misero a frutto il lavoro di ricerca delle proprie origini nobiliari, appoggiandosi alla
figura ancora più imponente di Goffredo di Buglione, capitano, “santo”, eroe senza
macchia.
All’interno di questa scia, in cui la Liberata riveste un ruolo di primissimo piano, si
sono potute ripercorrere brevemente anche le tappe che diedero origine al poema,
inizialmente intitolato Rinaldo e le cui tematiche si avvicinavano molto di più alle
avventure amorose d’impronta quasi scherzosa, che non alle profondità spirituali e
carnali della versione pubblicata nel 1581. Dunque il discorso si è posto l’obiettivo
di raccogliere le informazioni sul soggiorno di Torquato Tasso presso la città di
Firenze, rilevando la pochezza di documenti e la stranezza del quasi disinteresse da
IV
parte di Ferdinando I nell’accogliere il poeta presso la corte (a cui Tasso agognava
da molti anni). La maggior parte delle informazioni raccolte, rimangono quelle
relative alla famosa querelle sorta fra i Cruscanti e gli altri letterati: gli uni a favore
del Furioso, in cui ravvedevano ancora la più alta forma di epica contemporanea, gli
altri a sostegno della novità della Liberata. Il poeta ferrarese trovò comunque in
Ferdinando un mecenate magnanimo, che sostenne forse più per pietas cristiana,
che per vero interesse artistico, un Tasso oramai segnato dalle instabilità del proprio
animo. Sta di fatto che la Liberata e i temi ad essa contigui assunsero, dal 1589, un
ruolo fondamentale alla giustificazione del potere mediceo, che fino a Cosimo I
aveva mantenuto uno stretto contatto con la città e conservato alcune forme di
partecipazione popolare.
La Gerusalemme liberata, è stata indagata da molti studiosi e da alcuni è stato
possibile trarre materiale interessante per lo studio e per la ricerca di tematiche
fondamentali alle necessità medicee. Primariamente sono scaturite alcune
caratteristiche che riconducevano la composizione del poema ai grandi scenari della
favola ad anche alla partizione dei canti in senso drammaturgico. Infatti, stando ad
alcuni studi, nella scansione dei tempi e soprattutto nell’introduzione dei
personaggi, la Liberata possiede un’andatura teatrale, come se i canti iniziali
fossero il primo atto di un dramma e servissero ad esporre la materia trattata,
presentando anche i protagonisti. Oltretutto, è stato interessante rilevare che le
prescrizioni di Angelo Ingegneri, , riportate all’interno del suo scritto Della poesia
rappresentativa, ebbero molta parte nell’influenzare drammaturghi e poeti, fra cui
anche Tasso. Allo stesso modo, la spinta del Concilio di Trento (1545-1563), che
nacque dalla necessità di combattere le nuove eresie e gli scismi protestanti, giocò
un ruolo fondamentale nella scelta, da parte di molti artisti, di tematiche a carattere
cristiano e in particolare gerosolimitano, dato che la Crociata divenne il simbolo di
un’unità dei fedeli, momentaneamente da riconquistare. Tasso non si sottrasse al
bisogno e alle richieste dall’alto del potere ecclesiastico centrale, cogliendo
l’occasione per mettere a frutto la sua abilità: nacque così la Gerusalemme liberata,
quel crogiuolo di fatti umani, fede, passioni amorose, e malinconiche ricerche che
ancora oggi racconta dell’uomo. Ed è proprio dell’essere umano che il poema riesce
V
a trattare, deviando dall’ironia e dal carattere discorsivo del Furioso. È cresciuta,
così, la consapevolezza, che il poema tassiano muova i propri passi su quelli degli
stessi suoi eroi, che prendono vita da ciò che li fa avanzare o arrestare: l’amore. Da
questo sentimento si dipartono sia la storia di Goffredo, sia quelle degli altri
cavalieri e delle varie figure femminili. Importante, è poi l’interpretazione che
viene fatta di Goffredo, l’ottimo capitano, che racchiude in sé sia le virtù
cavalleresche sia la virtù cristiana della pietà. Un eroe perfetto, derivazione di tanti
eroi classici, le cui singole virtù si riuniscono in un unico personaggio, superiore a
Ulisse, ad Enea e a tutti i comandanti delle armate antiche. In Goffredo si rinnovava
la speranza dell’unità cristiana e il sogno della riconquista del Santo Sepolcro
attraverso la battaglia, ma anche la magnanimità della persona. Un “santo” per certi
aspetti, distaccato dalle cose terrene e già proiettato verso il Cielo, del quale sente
una forte nostalgia (sentimento preponderante di tutto il poema).
Nella Liberata si è messi di fronte come ad un concilio di personaggi estranei l’uno
all’altro, che per un motivo misterioso si inseguono, si rincorrono, cercano
l’affrancamento dalla solitudine. sullo sfondo di tutto questo vi sono la guerra,
l’incitamento alla battaglia, alla lotta contro gli “infedeli”, utilizzati principalmente
come pretesto di carattere storico-realistico e in parte per soddisfare quella necessità
congenita al poema eroico dell’avventura. Nella Liberata, comunque, si scontrano
forze assai più potenti dell’odio interreligioso; i sentimenti positivi di pietà e amore
riescono, infatti, a mettere in comunicazione i mondi a tenuta stagna (e maschili) di
Cristiani e Musulmani, tra l’altro questi sentimenti scaturiscono per lo più dalle
figure femminili. Il ruolo delle donne nel poema è, infatti, fondamentale. Se anche
non tutte hanno la capacità di dimostrare un’accorta e convenevole pudicizia (vedi
Armida), Sofronia, Clorinda, Erminia, la stessa maga Armida, muovono le proprie
istanze dal cuore, dalla ricerca amorosa, che sia spirituale o carnale, che sia
soddisfatta oppure delusa. E in questo è possibile notare che, se anche l’azione si
interrompe e sembra venir meno il flusso costante del racconto, proprio questa
interruzione dà modo alla passione amorosa di prendere il sopravvento sulla morte e
per breve tempo rimandarla o per lo meno scacciarne il fantasma: ad esempio in un
magico giardino, dove Rinaldo è fortemente preso da Armida, essa, con il proprio
VI
desiderio riesce in parte a evitargli il campo di battaglia e allo stesso tempo mette in
comunicazione il cavaliere cristiano con il mondo pagano. Così faranno tutte le
altre: Erminia e Clorinda con Tancredi, Sofronia, attraverso Clorinda, con Aladino.
C’è una mondo diverso rispetto a quello della guerra, che è il mondo femminile
della Liberata, capace di “rubare” il tempo alla morte, trattenendo l’amato o
ergendosi al di sopra del supplizio, per entrare così in una più stretta comunicazione
con “l’altro da sé”.
Il capitolo II ha preso come pretesto la necessità medicea di affermazione e
mantenimento del potere, per indagare quelle manifestazioni drammaturgico-
spettacolari, che corrispondessero a tale bisogno ed insieme riportassero alla
tematica finora illustrata: l’epica che si faceva mezzo di propaganda dinastica
attraverso lo spettacolo, instrumentum regni per controllo del potere attraverso la
cultura.
Nella ricerca ha prevalso una scansione per grandi campi che includevano tre filoni
principali: Lepanto, Goffredo e la Croce, la “santità” e l’impudicizia. Si è seguito, in
questa maniera, l’evoluzione non forzatamente cronologica dei temi richiesti dalla
casata medicea per i propri scopi politici e individuato negli stessi un cambio netto
fra ricerca di un riconoscimento dall’esterno del proprio potere e mantenimento
dello stesso.
Lepanto e la grande prova di fedeltà da parte di Cosimo I verso la Chiesa e la Lega
Santa, attraverso l’invio della propria flotta, furono immortalati (anche se
anonimamente) nel 1589 all’arrivo di Cristina di Lorena a Pisa e, successivamente,
al suo ingresso trionfale in Firenze. Le due grandi battaglie navali “effimere”, quella
di Pisa sull’Arno e la Naumachia più famosa allestita nel cortile di Palazzo Pitti
sancirono l’inizio ufficiale dell’unione fra la casata Medici con l’antico antenato dei
Lorena, Goffredo di Buglione, ma soprattutto si imposero come mezzo dei Medici
per mostrare tutta la loro potenza economica e il loro attaccamento alla causa
cristiana, nonché per stimolare nei fedeli e nel Papa una nuova iniziativa per la
riconquista di Gerusalemme e del Sepolcro, impresa precedentemente fallita
nonostante la vittoria sul mare del 1571. Gli allestimenti da una parte allietarono il
VII
popolo, che a Pisa potette assistere alla Battaglia del Galeone sull’Arno, dall’altra
ribadivano il concetto di corte, con l’innesco di un meccanismo governativo di
controllo fra principe e i nobili: allo scopo servì la Naumachia in Palazzo Pitti.
Alcuni studi anno rilevano anche la particolare esaltazione dei Cavalieri di Santo
Stefano, fondati dalla stessa famiglia Medici, che nella loro natura di uomini
d’arme, così come nel loro ruolo legato alle spedizioni crociate, portavano ancora
più alla luce l’importanza della famiglia.
All’evento di Lepanto, si affianca la figura di Goffredo: il condottiero cristiano,
viene ritratto in onore di Cristina sulle tele dipinte da Santi di Tito; esse poste ad
ornamento di uno degli archi trionfali allestiti nelle vie di Firenze nell’aprile 1589.
Si volle in questo modo onorare la futura Granduchessa e “avvertire” dell’inizio di
un legame indissolubile con un passato glorioso (seppur acquisito), e, di fatto, del
passaggio di Ferdinando I al nuovo status di difensor fidei, attraverso una non
scritta legge di proprietà transitiva. La stessa Cristina, che nel 1589 commissionò gli
affreschi per villa La Petraia, scelse Goffredo di Buglione come soggetto, proprio
per il suo legame con la famiglia di origine. Era in esso che si manifestava, dunque,
la stessa potenza delle casate unite dall’importante matrimonio: tramite esso
entrambe giustificavano la loro posizione. Molto importante, è risultata la figura di
Goffredo come strenuamente legata al Cristianesimo, di cui si fece scudo e
protettore, così come desiderata farsi la famiglia Medici, che nel tema
“consanguineo” di Lepanto e Goffredo, metteva al centro l’importanza della Croce:
simbolo e reliquia da proteggere. Se Ferdinando I si mostrò come difensore della
fede, Cosimo II, la moglie Maria Maddalena d’Austria, e ancora Cristina,
divenivano i nuovi difensori della Croce. In questo passaggio, si è messa in luce una
tappa fondamentale: nel 1612 Cosimo II andava lentamente visitando i territori
acquisiti, dopo il suo insediamento come nuovo Granduca, e fu in queste occasioni
che altri simboli religiosi incrementavano quella che già era una situazione di potere
acquisita (trasformata, in quegli anni, in naturale necessità di mantenere il potere).
Si cercò nella religiosità e nella simbologia del lignum vitae, il legno della Croce, la
più ambita reliquia cristiana, il senso nuovo del potere principesco; venne in
soccorso a tale esigenza gli stessi reliquiari, la cui produzione orafa era pressoché
VIII
imponente. In particolare il cosiddetto Albero di Arcidosso (preziosa opera del XIV
secolo) racchiudeva nella sua fattura extra-ordinaria la summa di un discorso di
legittimazione attraverso la fede, che finora si è cercato di esporre. L’Albero, sui
cui rami erano scritti, in medaglioni, i nomi dei discendenti della casa medicea
risultò per Cristina e Cosimo un ulteriore segno di predestinazione e quindi fu colto
come occasione per rafforzare la propria posizione. Già l’anno precedente a questi
viaggi, le composizioni di Francesco Braccioni avevano fatto pendant alle
intenzioni granducali. La Croce racquistata, dedicata a Cosimo nel 1611, segnò il
massimo esempio di composizione encomiastica nei confronti dei Medici, riunendo
nuovamente il tema cavalleresco e la simbologia della Croce.
Il terzo grande filone individuato include le principali figure che i poeti scelsero per
le proprie composizioni e che riflettevano esempi “santi” o impudichi, da cui farsi
influenzare attraverso lo spettacolo e la poesia oppure tenersi a distanza. Fra questi
personaggi le più frequentate furono le figure femminili, a dimostrazione che la
profondità delle loro sofferenze implicava anche un certo coinvolgimento da parte
dei poeti; ma esse si dimostravano soprattutto potenziali fonti di drammaturgie, che
le istanze del Barocco stava facendo crescere. Quelle figure, che muovevano la
storia o fermavano per un breve periodo l’avanzata dell’eroe sul campo di battaglia,
erano le medesime che più volte furono riprese da poeti e “sceneggiatori” operanti a
Firenze sotto i Medici. Primo fra questi fu Giovanni Villifranchi, che con
l’innovativa forma della favola scenica, compose quattro operette incentrate sulle
donne della Liberata (all’appello mancò soltanto Clorinda) e il Leone “tassizato”
del Furioso. Dagli studi è emerso che queste figure, colte nei momenti topici delle
loro storie, erano divenute una sorta di traslazione dallo scritto di Tasso in una
forma rappresentativa. Le favole sceniche si prefiggevano di essere un genere
innovativo, ma non lo furono del tutto: esse nascevano infatti come testo
drammaturgico e recavano nel loro carattere una naturale interpretazione di
personaggi ed eventi da parte dell’autore, ma proprio nel tentativo di giustificare la
loro esistenza, il poeta non si risparmiò in citazioni dirette dalla Liberata.
Dall’abuso di giustificazioni e citazioni tassiane, è stato possibile passare a fasi e
generi completamente diversi. Quel che per Villifranchi rimase sulla carta, per i
IX
compositori Andrea Salvadori e Ferdinando Saracinelli si compì direttamente sulla
scena, più precisamente nella piazza e nell’anfiteatro. Infatti, i due artisti, alle
dipendenze di casa Medici furono coloro che, insieme a scenografi e a coreografi,
diedero vita alle più spettacolari prove di ballo e abbattimento a cavallo. Fra il 1615
e il 1637 si vide la produzione di varie opere, fra cui La disfida di Ismeno, La
liberazione di Ruggiero dall’isola di Alcina ed infine l’ultimo spettacolo a cui qui si
fa riferimento, L’Armida trionfante di Saracinelli, che cronologicamente chiude il
periodo drammaturgico preso in esame. Dall’analisi si evince che le figure magiche
furono sempre al centro di un scelta ben precisa e legata alla politica adottata dai
Medici durante il regno di Cosimo II e la reggenza delle Granduchesse Cristina di
Lorena e Maria Maddalena d’Austria. Oltre ad un cambio di interessi, che già si era
avvisato con Cosimo (influenzato dalla madre), per quanto riguarda le tematiche
religiose - assai copiosa fu infatti la produzione di drammi e sacre rappresentazione
negli anni 1621-1628 -, ci si orientò verso spettacoli moraleggianti che
trasmettessero, oltre l’apparente fasto degli allestimenti, utile ad appoggiare e
celebrare nuove unioni matrimoniali, un messaggio di tipo spirituale, in cui la magia
apparteneva al male, mentre il bene si identificava sempre nei cavalieri, elemento
che continuava ad interessare alla casata. La figura della maga Armida, la più
suggestiva, accrebbe il proprio fascino grazie allo spettacolo di Saracinelli, che la
pose al centro di una sfilata di carri, cavalieri e macchine sceniche magnifiche.
L’impudicizia di Armida, così come quella di Alcina e il male rappresentato da
Ismeno, venivano sconfitti, e il vincitore diveniva l’esempio massimo cui i nobili
dovevano ispirarsi. Tali esempi hanno posto delle questioni a proposito delle scelte
effettuate, mettendo in rilievo, che, sì, il tema dalla magia identificava il male, ma
era anche il principale strumento per realizzare in forma di spettacolo quel
“meraviglioso” che il teatro Barocco si prefiggeva già di mostrare; si rendeva così
palese che la magia dei personaggi si metaforizzava nella magia del teatro, con cui
la famiglia Medici sapeva ammaestrare nobili e avvicinare casate esterne al
Granducato, rendendo il dilettevole un utile strumento per il proprio prestigio.
Il percorso si chiude con un capitolo, il terzo, che si distacca, per certi aspetti dalla
forma finora data al lavoro: le pagine scritte, che chiudono questa analisi tematica,
X
si basano su una scelta di dipinti, per la maggior parte commissionati dalla famiglia
Medici, che rimandano ad una produzione sempre d’ispirazione epica, senza
perdere però di vista l’ambito teatrale e spettacolare. La scelta è ricaduta su tele e
affreschi delle ville medicee, ed è stato necessario sviluppare un discorso che
ripercorresse almeno in parte la pratica del gesto, avvalendosi anche di alcune
tavole extra-tematiche, prese in prestito da trattati per lo più contemporanei alle
opere. Questo è avvenuto considerando prima di tutto il possibile legame fra la
pittura, la pratica attoriale, l’iconologia ed in parte la fisiognomica (argomenti,
questi ultimi, studiati fin dai tempi di Aristotele). Quello che si è tentato di fare, è la
creazione di una sorta di catalogo nel catalogo, nel quale includere quei dipinti
“epici” che rimandassero anche al mondo e alla pratica teatrale, o che
apparentemente ne contenessero un’eco. Si è indagato sugli elementi più palesi, per
poi scendere nel dettaglio, arrivando a trattare e comprendere quanto la gestualità e
la retorica dell’iconologia si potessero inserire come ponte fra teatro e epica. Il
risultato, lentamente, ha portato a scoprire, all’interno dei dipinti, sia possibili
riferimenti alla pratica del gesto attoriale, sia la presenza di elementi scenografici.
Questo ha reso evidente, per alcune opere, il legame stretto degli artisti e la
permeabilità del mondo della pittura e del teatro. Interessante infatti è stato
indagare, al di là delle ravvicinate contingenze spettacolari, i precedenti
scenografici e paragonarli alle opere dipinte, come ad esempio per il dipinto
Sofronia e Olindo liberati da Clorinda, in cui è stato possibile intravedere una
probabile influenza delle tavole di Jacques Callot relative allo spettacolo Il
Solimano, per poi seguire una simile metodologia per quanto riguarda alcuni
elementi architettonici paragonabili alle strutture effemere dei “trionfi” fiorentini.
Allo stesso modo si è posta l’attenzione sulla produzione di alcuni affreschi
commissionati per le ville medicee La Petraia e Corsini, in cui, anche stavolta, sono
le donne e l’amore a prevalere nelle tematiche trattate. Per alcuni di questi è servito
analizzare il lavoro di Giovanni Villifranchi, precedentemente citato, in particolare
per la figura di Erminia, per altri invece è stato interessante rilavare la presenza
contemporanea di scenografi e pittori presso la villa, che ha subito evidenziato la
possibile influenza reciproca e quindi messo nuovamente in comunicazione pittura e
XI
teatro. Il percorso continua seguendo, oltre alla produzione d’ispirazione tassiana,
anche quella ariostesca, principalmente con l’individuazione, all’interno dei dipinti,
di gesti che riconducessero alla pratica attoriale. In questa analisi si è cercato, il
contributo di questi trattati di iconologia e fisiognomica, che contribuissero a
comprendere le ragioni di scelte plastiche piuttosto di altre. Per certe opere si è
individuato un legame fra l’ormai consolidata iconologia degli affetti e le
rappresentazioni pittoriche, che da essa hanno tratto il senso e allo stesso tempo lo
hanno adattato e rielaborato ai temi; in altri casi, invece, si è cercato di comprendere
quanto di effettivamente teatrale risiedesse nel gesto in alcune tele, come ad
esempio in Rinaldo impedisce il suicidio di Armida di Cesare Dandini.
L’osservazione di tutte le opere ha confermato che ritenere i vari campi delle arti
mondi a tenuta stagna non premia la ricerca, ma la impoverisce e questo si può
notare ancora di più con l’ultima analisi delle opere pittoriche, che vanno ad
supportare un discorso di influenze reciproche e reciproche ispirazioni.
Per concludere, è possibile affermare che l’interazione fra le arti ha dato vita a opere
di carattere diverso l’una dall’altra, ma allo stesso tempo le ha confermate
all’interno di un contesto culturale fervente e assai più generoso delle odierne
diatribe sul plagio. Oltretutto si evince, a sostegno di una ricerca iniziale, quanto il
tema cavalleresco fosse di vitale importanza per la famiglia Medici e quanto
apprezzato all’interno dell’ambiente fiorentino. Le figure epiche, oltre a dare lustro
ad una casata oramai principesca, sono mezzo di conferma dell’enorme
dispiegamento di energie intellettuali ed economiche. Esse hanno dato modo alla
famiglia fiorentina di inserirsi a pieno titolo all’interno di un’élite europea,
sottraendosi all’origine mercantile e innalzandosi a difensori del Cristianesimo. I
Medici, confermati e legittimati grazie a quei cavalieri e a quelle eroine che i poemi
riuscirono a elevare ad esempi di forza e virtù, utilizzarono l’immagine e la
spettacolarità per porsi loro stessi al centro di un teatro che li vedeva protagonisti e
nuovi eroi.