15
CAPITOLO PRIMO
Nascita e sviluppo del concetto di democrazia: dalla
civiltà antica al pensiero contemporaneo.
I. Tre tradizioni storiche.
Il problema della democrazia, delle sue caratteristiche e del suo pregio
è antico quanto la riflessione sulla politica stessa, ed è stato in ogni
epoca riproposto e riformulato.
1
Nella teoria contemporanea della democrazia confluiscono tre
correnti di pensiero.
a. La teoria aristotelica delle tre forme di governo: la democrazia,
come governo di tutti coloro che godono dei diritti di
cittadinanza, distinta dalla monarchia, come governo di uno solo;
dall’aristocrazia, come governo di pochi.
b. La teoria romano-medievale della sovranità popolare, in base
alla quale si contrappone una concezione ascendente a una
concezione discendente della sovranità, a seconda che il potere
supremo derivi dal popolo e sia rappresentativo o derivi dal
principe, e venga trasmesso per delega dal superiore
all’inferiore.
c. La teoria moderna o machiavellica, secondo cui le forme storiche
di governo sono essenzialmente due, la monarchia e la
repubblica; l’antica democrazia non è altro che una forma di
repubblica.
II. La teoria aristotelica.
Una delle prime dispute, di cui si abbia notizia, intorno alle tre forme di
governo è narrata da Erodoto nella sua opera Storie.
2
Nel III libro della
sua opera, intitolato Talia
3
, lo storico greco racconta il dibattito
svoltosi tra i più importanti notabili persiani, Otane, Megabizio e Dario,
nell’anno 522/521 a. C., intorno alla migliore forma di governo.
Megabizio difende l’aristocrazia, Dario tutela la monarchia
4
, Otane
1
N. BOBBIO, Democrazia, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Il dizionario di politica, Torino, Utet,
2004, p. 235.
2
G. POMA, Le istituzioni politiche della Grecia in età classica, Capannori, Il Mulino, 2003, p. 15.
3
ERODOTO, Storie, III libro, a cura di A. Colonna e F. Bevilacqua, Torino, Utet, 1996, p. 185.
4
TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso, Milano, Edizioni Bur, 1985, p. 767.
16
sostiene il governo popolare, che chiama secondo l'antico uso greco
“isonomia” (dal greco ίσος "uguale" e νόμος "legge", rappresenta il
concetto di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge). Secondo
Otane la monarchia sarebbe una forma di governo imperfetta, perché
al monarca «è lecito fare quello che vuole senza doverne rendere
conto»
5
a nessuno. Invece Megabizio e Dario condannano il governo
democratico perché «nulla […] v’è di più stolto e di più insolente che
una moltitudine incapace», e, inoltre, come può ben governare «colui
che non ha ricevuto istruzione […]»?
6
Platone ha una visione negativa della democrazia.
7
Nel dialogo
Repubblica, descrive cinque forme di governo: l’aristocrazia, la
timocrazia, l’oligarchia, la democrazia e la tirannide. Il filosofo greco
reputa che solo l’aristocrazia sia onesta, mentre la democrazia è
caratterizzata dalla «licenza»
8
. Nell’opera Politico distingue le forme di
governo «buone» da quelle «cattive» in base al criterio della legalità o
dell’illegalità e identifica la democrazia come la meno buona delle
forme buone e la meno cattiva delle forme cattive. Infine nelle Leggi
Platone descrive solo le «due madri delle forme di governo»: la
monarchia, il cui prototipo è lo Stato persiano, e la democrazia, il cui
prototipo è la città di Atene; entrambe vengono considerate come
forme politiche negative, la monarchia per eccesso di autorità, la
democrazia per eccesso di libertà. Ancora una volta Platone condanna
la democrazia come il regime «della libertà troppo sfrenata».
Aristotele
9
, considerato il più acuto interprete della sostanza della
democrazia e dell’oligarchia, prevede una tripartizione delle forme di
governo, a loro volta distinte in pure, se esercitano il potere in vista
dell'interesse comune, o deviate, se esercitano il potere nel loro privato
interesse. Secondo il filosofo greco del IV sec. a.C. esistono tre possibili
forme di governo a seconda che «il potere sovrano sia esercitato da
uno solo, da pochi, o dai più»
10
. Se è uno solo a governare si ha la
monarchia, che può degenerare in tirannide; se sono pochi e i migliori
a governare si ha l'aristocrazia, che può decadere in oligarchia; se è la
5
ERODOTO, op. cit., p. 186.
6
Ibidem, p. 187.
7
N. BOBBIO, Democrazia, op. cit., p. 235.
8
PLATONE, Repubblica, Milano, Bompiani, 2009, p. 103. «D'altronde», [...] «desidero anch'io ascoltare
quali sono le quattro forme di governo di cui parlavi». «Non ti sarà difficile ascoltarlo», [...] «Le quattro
forme di cui parlo hanno anche dei nomi appositi: la prima, la più lodata, è quella cretese e spartana; la
seconda, tale anche nelle lodi, è chiamata oligarchia ed è una forma di governo piena di molti mali.
Diversa da questa è la democrazia, che la segue nell'ordine, e infine viene la vera e propria tirannide, che
differisce da tutte queste, quarto ed estremo malanno per una città».
9
ARISTOTELE, La Costituzione degli Ateniesi, (a cura di G. Lozza), Milano, Mondadori, ristampa 2011, pp.
82 - 86.
10
ARISTOTELE, Politica, IV libro, Roma - Bari, Laterza, 1973, pp. 125 - 126.
17
maggioranza del popolo ad avere il potere si ha la politeia, che può
degenerare in democrazia.
Aristotele distingue ulteriormente la democrazia in cinque forme:
11
1. ricchi e poveri partecipano al governo in condizioni di parità (la
maggioranza è popolare perché la classe popolare è più
numerosa);
2. le cariche pubbliche sono assegnate in base ad un censo molto
basso;
3. tutti i cittadini sono ammessi alle cariche pubbliche, tranne quelli
privati dei diritti civili in seguito a procedimento giudiziario;
4. tutti i cittadini sono ammessi alle cariche pubbliche senza
distinzione;
5. è sovrana la massa e non la legge, quali che siano i diritti politici
(in questo caso si ha il dominio dei demagoghi, cioè la vera e
propria forma corrotta del governo popolare).
Aristotele mette in luce come la differenza tra i due opposti sistemi
politici della democrazia e dell’oligarchia non risiede nel fatto che a
possedere la cittadinanza siano “molti” o “pochi”, bensì se siano
possidenti o nullatenenti.
12
Il filosofo greco ha il merito di ancorare i
due sistemi al loro contenuto di classe. Intuisce, inoltre, che anche nelle
oligarchie la maggioranza è al potere e che quindi tra principio di
maggioranza e democrazia non c’è alcun rapporto sostanziale.
Salvo poche eccezioni la tripartizione aristotelica fu accolta in tutta la
tradizione del pensiero occidentale, almeno fino a Hegel, e diventò uno
dei capisaldi della trattatistica politica.
III. La teoria romano-medievale.
I giuristi medievali elaborano la teoria della sovranità popolare
partendo da alcuni passi del Digesto di Giustiniano
13
, di cui i principali
sono quelli di Ulpiano e Giuliano.
14
Ulpiano ritiene che il principe abbia l’autorità di governare il popolo
perché il popolo stesso gliel’ha conferita. Giuliano afferma che il popolo
crea il diritto non solo con il voto, dando vita alle leggi, ma anche con le
consuetudini. Il passo di Ulpiano serve a dimostrare che, chiunque sia
l’effettivo detentore del potere sovrano, la fonte originaria di questo
potere è comunque il popolo: aprì la strada alla distinzione tra
11
N. BOBBIO, Democrazia, op. cit., p. 236.
12
L. CANFORA, op. cit., p. 44.
13
GIUSTINIANO, Antologia del Digesto di Giustiniano, Milano, EduCatt Università Cattolica, 2005, p. 169.
14
N. BOBBIO, Democrazia, op. cit., p. 236.
18
titolarità ed esercizio del potere. Il passo di Giuliano, per contro,
consente di sostenere che, anche là dove il popolo abbia trasferito ad
altri il potere originario di fare le leggi, conserva pur sempre la facoltà
di creare diritto attraverso la consuetudine. Riguardo a questo secondo
assunto, la tesi su cui si scontrano i fautori e gli oppositori della
sovranità popolare consiste nel domandarsi se la consuetudine possa
abrogare o meno la legge. Con riferimento al passo di Ulpiano, la
disputa, tra difensori ed avversari della sovranità popolare, si
concentra sul significato da dare al passaggio del potere, dal popolo
all’imperatore: si tratta di stabilire se questo passaggio sia da
considerarsi un trasferimento definitivo, e quindi non solo
dell’esercizio, ma anche della titolarità (una vera e propria translatio
imperii), oppure una concessione temporanea e revocabile, con la
conseguenza che la titolarità del potere rimarrebbe di competenza del
popolo, e al principe sarebbe affidato esclusivamente l’esercizio di esso
(una semplice concessio imperii).
Marsilio da Padova, nel suo Defensor pacis
15
, individua il principio
secondo il quale il potere di fare le leggi spetta unicamente al popolo, il
quale attribuisce ad altri nient’altro che il potere esecutivo, ovvero il
potere di governare nell’ambito delle leggi. La teoria di Marsilio da
Padova si riferisce ai due poteri fondamentali dello Stato, il legislativo e
l’esecutivo: il primo, in quanto appartenente esclusivamente al popolo,
è il potere principale; il secondo, che il popolo delega ad altri sotto
forma di mandato revocabile, è il potere derivato. Questa dottrina è
uno dei cardini delle teorie politiche degli scrittori del Sei e Settecento,
che vengono oggi considerati come i padri della democrazia moderna.
Sebbene il concetto dell’origine popolare della sovranità
16
e della
legge sia decisamente moderno, non bisogna dimenticare quanto
ancora vi sia di medievale nella teoria di Marsilio: il popolo viene
assunto come totalità organica e quindi non c’è libertà uguale per tutti i
cittadini, ma solo un privilegio per alcuni, dato che il comune mantiene
al suo interno una struttura corporativa.
17
La rappresentanza politica
finisce così per essere rappresentanza di gruppi e interessi, e non di
tutti i cittadini.
A un analogo concetto di democrazia si ispira all’inizio del Seicento
anche Althusius
18
, che chiude il periodo delle dottrine politiche
medievali e apre il pensiero democratico moderno. Per il giurista
15
MARSILIO DA PADOVA, Defensor pacis, Napoli, Liguori editore, 1966, p. 194.
16
Si sofferma sulle origini del termine-concetto di sovranità: C. BONVECCHIO, L’eclissi della sovranità,
Milano - Udine, Mimesis editore, 2010, pp. 469 e ss. «Come si vede il concetto di sovranità - una ed
indivisibile - ha molte sfaccettature e molte ambiguità e contraddizioni».
17
N. MATTEUCCI - G. ZANETTI, Democrazia, in Enciclopedia Filosofica Bompiani, III volume, Milano,
2006, p. 2658.
18
J. ALTHUSIUS, Politica Methodice Digesta, Torino, Claudiana editrice, 2009, p. 134.
19
tedesco i diritti sovrani appartenegono al popolo, il quale non può
alienarli neppure volendo: il popolo, rispetto ai suoi procuratori, è
“potior et superior”. Lo stesso concetto di popolo, inteso nella sua
essenza di organismo, resta però un concetto medievale. Il giurista
sostiene che, fra l’individuo e lo Stato, vi sia una catena di unità
intermedie e che la rappresentanza resti legata al principio della
delega corporativa.
In sostanza, la repubblica di Althusius conserva ancora l’ideale
medievale della gerarchia, anche se il filosofo tedesco la vede, non più
discendere dall’Imperatore, ma costruita dal basso in alto, attraverso
tutti i corpi intermedi, in una unità federativa.
IV. La teoria moderna.
Niccolò Machiavelli,
19
dopo una lunga meditazione sulla storia della
repubblica romana, unita alle considerazioni sugli avvenimenti del
proprio tempo, nell’opera Il principe scrive che: «tutti gli stati, tutti e’
dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e
sono o repubbliche o principati».
20
Nella nozione idealizzata di
repubblica di Machiavelli, intesa come quella forma di governo in cui il
potere non é concentrato nelle mani di uno solo, ma é distribuito in
diversi corpi collegiali, si ritrovano alcuni tratti che contribuiscono a
formare l’immagine della democrazia moderna, che viene oggi definita
come regime policratico, opposto al regime monocratico.
Su questa linea Althusius espone, nell’opera Politica Methodice
Digesta
21
, la differenza tra le varie forme di governo, distinguendole a
seconda che il “summus magistratus” sia “monarchicus” o
“polyarchicus”.
Il politologo americano Robert Alan Dahl riprende negli anni
Cinquanta questa terminologia, rendendola familiare alla scienza
politica americana. Nell’opera A preface to Democratic Theory
22
Dahl
elabora la teoria della polyarchal democracy, che si contrappone alle
teorie tradizionali della democrazia. Secondo questa teoria, se per
democrazia, si intende la forma aristotelica (cioè il governo di tutti
coloro che godono dei diritti di cittadinanza), la repubblica non è
democrazia perché non tutto il popolo di Atene gode dei diritti di
cittadinanza: infatti, almeno fino all’età di Solone (VI secolo a.C.), la
pienezza dei diritti politici, che costituisce il contenuto stesso della
19
N. BOBBIO, Democrazia, op. cit., p. 237.
20
N. MACHIAVELLI, Il principe, Milano, Superbur classici, 2003, p. 48.
21
J. ALTHUSIUS, op. cit. p. 141.
22
R. A. DAHL, A preface to Democratic Theory, University of Chicago Press, 1956, p. 421 e ss.
20
cittadinanza, non è concessa ai nullatenenti. Nel suo carattere di
“governo libero”, di regime anti-autocratico, la forma di governo
repubblicana racchiude comunque un elemento basilare della
democrazia moderna, nella misura in cui si intende per democrazia
ogni forma di governo contrapposta al dispotismo.
Montesquieu
23
descrive nelle sue opere tre forme di governo: la
repubblica, la monarchia e il dispotismo. La forma di governo
repubblicana comprende sia la repubblica democratica che quella
aristocratica, che vengono quasi sempre trattate separatamente. Per
quanto riguarda invece i principi su cui si basa ogni forma di governo,
il filosofo di La Brède ritiene che il principio proprio della repubblica,
cioè la virtù, sia il principio classico anche della democrazia, ma non
dell’aristocrazia, tanto è vero che, rispetto all’aristocrazia, afferma che
la virtù non sia richiesta in modo assoluto.
Secondo Jean Jacques Rousseau, considerato il grande teorico della
democrazia moderna, l’ideale repubblicano e quello democratico
coincidono perfettamente. Lo Stato che idealizza è una democrazia, ma
preferisce chiamarlo, seguendo la dottrina più moderna delle forme di
governo, “repubblica”. Più esattamente il filosofo ginevrino, mentre
chiama repubblica la forma dello Stato o del corpo politico, considera
la democrazia una delle tre possibili forme di governo di un corpo
sociale. Lo scrittore francese nel Contratto sociale espone una visione
svalutativa del sistema rappresentativo perché a suo parere «la
sovranità non può essere rappresentata per la stessa ragione per cui
non può essere alienata».
24
Infatti, dal momento che la sovranità
consiste nella «volontà generale, e la volontà generale non si
rappresenta»
25
il sistema rappresentativo risulta svalutato.
Rousseau pone anche l’accento, in modo lungimirante, sui disastrosi
effetti del sistema rappresentativo, che si concretizzano: nella
trasformazione dei rappresentanti eletti in ceto politico; nella loro
separatezza dagli interessi specifici di coloro che li hanno designati
come propri rappresentanti; nel loro funzionare, in momenti decisivi,
come corpo separato e autoreferenziale.
D’altro canto, è doveroso ammettere che, escludendo l’istituto della
rappresentanza, lo scrittore ginevrino rimane legato al ricordo delle
23
D. W. CARRITHERS, M. A. MOSHER, P. A. RAHE, Montesquieu’s science of politics: essays on the Spirit
of laws, Lanham (MD), Rowman & Littlefield Publishers, 2001, pp. 308 e ss.
24
J. J. ROUSSEAU, op. cit., p. 169.
25
Ibidem.
21
antiche repubbliche e all’esempio delle comunità svizzere: solo in un
piccolo Stato è possibile attuare una democrazia.
26
V. Liberalismo e socialismo nella democrazia del XIX
secolo.
Lungo tutto il XIX secolo, la discussione intorno alla democrazia, si
svolge principalmente attraverso un confronto con le prevalenti
dottrine politiche del tempo: il liberalismo da un lato e il socialismo
dall’altro.
27
V.1. Democrazia e liberalismo.
Per quanto riguarda il rapporto tra democrazia e concezione liberale
dello Stato, il punto di partenza è l’opera di Constant La libertà degli
antichi comparata a quella dei moderni
28
. Per l’intellettuale francese la
libertà dei moderni è la libertà individuale nei riguardi dello Stato,
quella libertà di cui sono manifestazione concreta le libertà civili e la
libertà politica, mentre la libertà degli antichi è la libertà intesa come
partecipazione diretta alla formazione delle leggi attraverso il corpo
politico, di cui l’assemblea dei cittadini è la massima espressione.
Gli scrittori liberali, dallo stesso Constant a Tocqueville a John Stuart
Mill, identificano la sovranità popolare con la democrazia diretta (che è
l’ideale rousseauiano). Affermano inoltre, che la sola forma di
democrazia compatibile con lo Stato liberale (cioè con lo Stato che
garantisce alcune libertà fondamentali quali la libertà di pensiero, di
religione, di stampa, di riunione), sia la democrazia rappresentativa o
parlamentare, dove il compito di fare le leggi spetta, non a tutto il
popolo riunito in assemblea, ma ad un corpo ristretto di rappresentanti
eletti dai cittadini a cui vengono riconosciuti i diritti politici. In questa
concezione della democrazia, che possiamo chiamare “liberale”, la
partecipazione al potere politico (che da sempre è considerata
l’elemento caratterizzante del sistema democratico) viene definita
come la manifestazione del diritto di eleggere rappresentanti al
parlamento e di essere eletti, e viene attuata attraverso una delle tante
libertà individuali, che il cittadino ha rivendicato e conquistato contro
26
N. BOBBIO, Democrazia, in op. cit., p. 238.
27
L. CANFORA, op. cit., p. 86
28
B. CONSTANT, La libertà degli antichi comparata a quella dei moderni, Torino, Einaudi editore, 2005, p.
83.
22
lo Stato assoluto. Il fatto che il diritto di partecipare, se pure
indirettamente, alla formazione del governo, venga compreso nella
classe delle libertà, dimostra che nella concezione liberale della
democrazia, l’accento viene posto più che sul mero fatto della
partecipazione, sull’esigenza che questa partecipazione sia libera: cioè
sia l’espressione e il risultato di tutte le altre libertà. Secondo la
concezione liberale dello Stato, non può esistere una democrazia senza
il riconoscimento dei diritti fondamentali, che rendano possibile una
partecipazione politica guidata da un’autonoma determinazione della
volontà di ciascun individuo.
La linea di sviluppo della democrazia nei regimi rappresentativi è da
rintracciarsi essenzialmente in due direzioni:
a. nel graduale allargamento del diritto di voto, che, inizialmente, è
ristretto a un’esigua parte dei cittadini in base a criteri fondati
sul censo, sul sesso e sulla cultura, ma che poi si è andato
estendendo a tutti i cittadini di ambo i sessi che abbiano
raggiunto un certo limite di età (suffragio universale);
b. nella moltiplicazione degli organi rappresentativi, che, in una
prima fase, sono limitati ad una delle due assemblee legislative,
ma che poi si estendono via via all’altra assemblea, agli enti del
potere locale, o, nel passaggio dalla monarchia alla repubblica,
anche al capo dello Stato.
In sostanza, lungo tutto il corso di uno sviluppo che arriva fino ai giorni
nostri, il processo di democratizzazione consiste in una trasformazione
più quantitativa che qualitativa del regime rappresentativo. In questo
contesto storico, la democrazia non si presenta come un’alternativa al
regime rappresentativo, come sarebbe stato nel progetto rousseauiano
respinto da Constant, ma è un suo complemento, una correzione.
V.2. Democrazia e socialismo.
Anche rispetto al socialismo, nelle sue differenti versioni, l’ideale
democratico rappresenta un elemento integrante e necessario, ma non
costitutivo.
29
Integrante, perché uno degli scopi che si sono sempre
prefissati i teorici del socialismo, è stato il rafforzamento della base
popolare dello stato; necessario, perché senza questo rafforzamento
non si potrebbe raggiungere quella profonda trasformazione della
società, che i socialisti delle diverse correnti si sono sempre
prospettati; infine non costitutivo, perché l’essenza del socialismo è
29
N. BOBBIO, Democrazia, in op. cit., p. 239.
23
sempre stata l’idea della trasformazione dei rapporti economici e
dell’emancipazione sociale, non del solo privilegio politico dell’uomo.
Ciò che cambia nella dottrina socialista rispetto alla dottrina liberale
è il modo di intendere il processo di democratizzazione dello Stato.
Infatti nella teoria marxista-engelsiana il suffragio universale, che per il
liberalismo è il punto di arrivo del processo di democratizzazione dello
Stato, costituisce soltanto il punto di partenza.
Oltre a ciò, l’approfondimento del processo di democratizzazione da
parte delle dottrine socialiste avviene in due modi:
a. attraverso la critica della democrazia soltanto rappresentativa e
la conseguente ripresa di alcuni temi della democrazia diretta;
b. attraverso la richiesta che la partecipazione popolare si estenda
dagli organi di decisione politica agli organi di decisione
economica, da alcuni centri dell’apparato statale all’impresa,
dalla società politica alla società civile: da qui si è venuto
parlando di democrazia economica, democrazia industriale,
democrazia consiliare (che prende il nome dai nuovi organi di
controllo nelle fabbriche, i “consigli operai”).
Marx, nelle effimere istituzioni create dal popolo parigino insorto nella
Comune di Parigi, coglie alcuni elementi di una nuova forma di
democrazia che chiama “autogoverno dei produttori”. I caratteri
distintivi di questa nuova forma di Stato, rispetto al regime
rappresentativo, sono quattro:
a. mentre il regime rappresentativo è fondato sulla distinzione tra
il potere legislativo e quello esecutivo, il nuovo Stato della
Comune non è un organismo parlamentare, ma è un organismo
di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo;
b. il regime parlamentare innestato sui vecchi Stati assoluti lascia
sopravvivere accanto a sé organi non rappresentativi che
continuano a costituire una parte essenziale dell’apparato statale
(come l’esercito, la magistratura e la burocrazia), invece la
Comune estende il sistema elettivo a tutte le branche dello Stato;
c. mentre la rappresentanza nazionale caratteristica del sistema
rappresentativo è contraddistinta dal divieto di mandato
imperativo, la cui conseguenza è l’irrevocabilità dell’incarico per
tutto il tempo della legislatura, la Comune è composta da
consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei diversi
mandamenti di Parigi, responsabili e quindi revocabili in
qualsiasi momento;
d. il sistema parlamentare non ha distrutto l’accentramento politico
ed amministrativo dei vecchi Stati assoluti, anzi lo ha confermato
attraverso l’istituzione di un parlamento nazionale, invece il
nuovo Stato della Comune decentra al massimo le proprie
24
funzioni in comuni rurali, che inviano i loro rappresentanti ad
un’assemblea nazionale, alla quale sono lasciate poche ma
importanti funzioni, adempiute dai funzionari comunali.
Traendo ispirazione dalle riflessioni di Marx sulla Comune, Lenin,
nell’opera Stato e rivoluzione
30
e negli scritti e nei discorsi del periodo
rivoluzionario, enuncia le linee direttive di quella nuova “democrazia
dei consigli”, che si trova al centro del dibattito fra i principali teorici
del socialismo negli anni Venti del secolo scorso, da Gramsci a Rosa
Luxemburg, da Max Adler a Korsch, per finire con Anton Pannekoek nel
1940.
31
Ciò che caratterizza la “democrazia dei consigli”, rispetto alla
democrazia parlamentare, è il riconoscimento che è avvenuto uno
spostamento dei centri di potere: dagli organi tradizionali dello Stato
alla grande impresa. Il controllo che il cittadino è in grado di esercitare,
attraverso i canali tradizionali della democrazia politica, non è
sufficiente a impedire alcuni abusi di potere, la cui abolizione è lo
scopo finale della democrazia. Il nuovo tipo di controllo non può
avvenire che sui luoghi stessi della produzione, e viene esercitato dal
cittadino in quanto lavoratore, attraverso i consigli di fabbrica.
In sostanza, il consiglio di fabbrica diventa il germe di un nuovo tipo
di Stato, che è lo “Stato o comunità dei lavoratori”, in contrapposizione
allo Stato dei cittadini. Il sistema statale nel suo complesso è una
federazione di consigli unificati attraverso un raggruppamento di essi a
vari livelli territoriali e aziendali.
VI. Democrazia ed élitismo nel XX secolo.
Alla fine del XIX secolo, si afferma una critica contro la democrazia
intesa nel suo senso tradizionale di “dottrina della sovranità popolare”:
questa critica pretende di fondare la democrazia esclusivamente
sull’osservazione scientifica dei fatti, ed è propugnata dai teorici delle
minoranze governanti, o élites, come Ludwig Gumplowicz, Gaetano
Mosca e Vilfredo Pareto. Secondo questi pensatori, la sovranità
popolare è un ideale-limite, e non ha mai corrisposto e non potrà mai
corrispondere a una realtà di fatto, perché in tutti i regimi politici è
sempre una minoranza di persone a detenere il potere effettivo: la
classe politica.
Con questa teoria si conclude la lunga vicenda delle tre forme di
governo, che è all’origine della storia del concetto di democrazia:
poiché in ogni società, di tutti i tempi, e a tutti i livelli di civiltà, il
potere è nelle mani di una minoranza, non c’è altra forma di governo
30
LENIN, Stato e rivoluzione, Milano, Lotta Comunista editore, 2003, pp. 40 e ss.
31
N. BOBBIO, Democrazia, in op. cit., p. 240.