INTRODUZIONE
A partire dagli anni sessanta del secolo scorso si è sviluppato sul tema dell'imputabilità un acceso
dibattito scientifico alimentato dalla mancanza di parametri scientifici univoci sulle nozioni di
infermità psichica e di capacità di intendere e di volere. I contrasti interpretativi discendono dalle
posizioni estremamente diversificate che la psichiatria forense nostrana ha assunto sul tema
dell'imputabilità, i quali traggono origine a loro volta dai contrasti esistenti all'interno di questa
disciplina scientifica in ordine al suo apporto al processo penale. In un loro studio sulla valutazione
clinica dell'imputabilità, negli anni ottanta, Tullio Bandini e Uberto Gatti (1982) commentavano il
dibattito interno alla psichiatria forense su questo tema affermando che in quel momento storico si
era giunti ad una situazione di contrasto che vedeva contemporaneamente presenti da un lato la
richiesta di estendere l'intervento psicologico e psichiatrico all'interno del processo penale,
attraverso la sistematica utilizzazione della cosiddetta “perizia criminologica”, e dall'altro lato la
richiesta di limitare o addirittura escludere l'intervento della psichiatria nel sistema giudiziario
penale, fino a considerare sempre imputabili i rei affetti da patologia mentale. A fronte di questa
oramai trentennale incertezza interpretativa si inseriva, a metà di questo decennio, in maniera
risolutiva la Suprema Corte di Cassazione, intervenendo con una pronuncia a Sezioni Unite con la
quale la nozione di imputabilità veniva definitivamente rivisitata.
Le Sezioni Unite, in particolare, intervenivano per stabilire se, ai fini del riconoscimento del vizio
totale o parziale di mente, rientrassero nel concetto di infermità psichica i gravi disturbi di
personalità tradizionalmente inquadrati nell'ambito delle anomalie psichiche riconducibili all'art. 90
del codice penale. Con il loro intervento le Sezioni Unite (Cass. 9163/2005) risolvevano la
questione affermando il principio secondo cui i gravi disturbi di personalità sono ascrivibili al
novero delle infermità psichiche e possono dar luogo al vizio di mente previsto dall'art. 88 del
codice penale a condizione che siano di gravità ed intensità tale da incidere sulla capacità di
intendere e di volere dell'agente e sussista un nesso eziologico tra il disturbo mentale e la condotta
delittuosa. Per raggiungere tali conclusioni le Sezioni Unite rivisitavano la nozione di
imputabilità, inquadrandola nell'ambito della capacità penale e adeguandola alle più recenti
acquisizioni scientifiche della psichiatria forense. In questo modo si giungeva a definire
l'infermità psichica come una condizione di disagio mentale di consistenza tale da escludere o
ridurre consistentemente la capacità di intendere e di volere del soggetto autore di reato. In questa
prospettiva interpretativa non è, dunque, tanto la condizione di infermità psichica dell'agente a
rilevare sul piano dell'accertamento processuale della capacità di intendere e di volere, quanto il suo
disagio mentale, la cui consistenza deve essere tale da incidere negativamente sulla sua capacità di
autodeterminarsi liberamente in rapporto al singolo evento delittuoso. In questo modo si recupera
la concezione dell'imputabilità in senso relativo affermatasi in seno alla psichiatria forense nel corso
degli anni settanta del secolo scorso, secondo cui tale condizione soggettiva dell'agente non deve
essere valutata come generica attitudine a rispondere di un reato, ma come capacità rapportabile al
singolo evento delittuoso esaminato. (Canepa , 1974).
Queste premesse appaiono necessarie per illustrare il modo in cui si procederà nella elaborazione di
questo lavoro. Con il primo capitolo verranno affrontati i temi generali relativi alla responsabilità
penale e quindi alla capacità di discernimento e di libera autodeterminazione dell'autore del reato.
In particolare si prenderanno le mosse dalla distinzione che il nostro Ordinamento opera tra la
responsabilità e l'imputabilità, previa una breve disamina storica relativa ai principi normativi . Si
affronteranno i temi distinti della capacità di intendere e di volere, approfondendo le relative
nozioni secondo le quali la prima è l'attitudine del soggetto a conoscere la realtà esterna, ciò che si
svolge intorno a lui, e a cogliere il valore sociale positivo o negativo dei propri atti e presuppone
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l'idoneità psichica di comprendere o discernere il contenuto delle proprie azioni od omissioni (art.
40 c.p., Mantovani, 1992). La seconda è l'attitudine del soggetto a determinarsi in modo autonomo,
a scegliere tra i motivi coscienti in modo indipendente, a volere ciò che l'intelletto ha reputato
doversi fare, a comportarsi coerentemente con tale scelta, a optare per la condotta che appare più
ragionevole, a resistere agli stimoli provenienti da avvenimenti esterni (Mantovani, 1992). Il
capitolo proseguirà, poi, illustrando le principali cause che attenuano o escludono l'imputabilità,
partendo dalla considerazione che il disturbo mentale non è più oggi, per la psichiatria, solo una
malattia, ma un'entità più complessa , non definibile, in ordine alla quale vi sono poche certezze
circa l'eziologia. Il patrimonio genico, la costituzione, le vicende di vita, gli stress, il tipo di
ambiente, l'individuale plasticità dell'encefalo, i meccanismi psicodinamici, la peculiare modalità di
reagire, di opporsi, di difendersi sono tutti elementi che concorrono al suo verificarsi. Si parlerà dei
due diversi orientamenti che riguardano il tema della valutazione psichiatrica forense, il primo dei
quali auspica un sempre più stretto vincolo ed un maggior rigore nosografico ed il secondo ritiene
che il giudizio sulla imputabilità prescinda in gran parte dalla nosografia. Si vedrà come il DSM
-IV TR adotta un approccio categoriale al disturbo psichiatrico e si esamineranno le posizioni che al
contrario vedono auspicabile adottare un diverso approccio dimensionale. Verranno esaminate
anche le critiche portate all'attuale sistema dell'imputabilità del nostro Ordinamento e saranno
inoltre approfondite particolari condizioni che potrebbero incidere sulla capacità di intendere e di
volere con riferimento agli stati emotivi e passionali, all'alcol e agli stupefacenti, e al sordomutismo
e cecità, in ordine alle quali si esamineranno le soluzioni adottate dal legislatore e gli accertamenti
psichiatrici da svolgere in proposito.
Il secondo capitolo prenderà le mosse dalla sopra citata sentenza della Suprema Corte di Cassazione
n. 9163/2005 e dalla relativa definizione di disturbo grave di personalità. Con questo concetto la
Corte intende che il disturbo deve avere in concreto compromesso la capacità sia di percepire il
disvalore del fatto commesso, sia di recepire il significato del trattamento punitivo. Si vedrà come
l'orientamento della Corte mette in crisi il criterio in base al quale l'anomalia psichica debba essere
evinta dal novero delle rigide e predeterminate categorie nosografiche e lascia quindi spazio
affinchè, ai fini del giudizio circa la configurabilità o meno del vizio di mente, totale o parziale, il
concetto di disturbo di personalità possa costituire causa idonea ad escludere o scemare fortemente
la capacità di intendere e di volere. Per la Corte il disturbo deve essere grave. Si approfondirà
pertanto il concetto di gravità e si porrà particolare attenzione alla Organizzazione Borderline di
Personalità di Kernberg; in questo senso verranno descritti i disturbi di personalità che rientrano in
tale Organizzazione di Personalità, vale a dire oltre allo specifico disturbo borderline, il disturbo
schizoide di personalità, il disturbo schizotipico di personalità, il disturbo paranoide di personalità,
il disturbo istrionico di personalità, il disturbo antisociale di personalità, il disturbo narcisisitico di
personalità e il disturbo dipendente di personalità, che rientrando nella gamma della predetta
Organizzazione Borderline di Personalità appaiono rivestire una particolare gravità nel senso voluto
dalla Suprema Corte. Non si potrà però non fare riferimento ai disturbi schizofrenici che, alla luce
anche del concetto di pericolosità sociale, appare necessario approfondire in maniera particolare. Si
farà riferimento alle classificazioni del DSM IV-TR, ma si darà risalto anche alle varie posizioni
dei diversi autori che si sono occupati della materia dal punto di vista psicodinamico,
fenomenologico, cognitivo e comportamentale.
Successivamente si passerà, nel capitolo III, a trattare della perizia e del suo oggetto nel processo
penale. Verrà premessa una breve disamina storica sul ruolo svolto dalla psicologia giuridica nel
processo penale, facendo riferimento al movimento che si costituì intorno al Tribunale di Milano
verso la fine degli settanta. Si partirà da alcuni concetti di base per spiegare il fatto che nei casi in
cui sorgano dubbi, durante un procedimento giudiziario penale, sulla presenza o meno di una
psicopatologia dell'imputato, il giudice può avvalersi della perizia di uno psichiatra o altro
professionista della salute mentale, quale lo psicologo, che valuterà attualmente la capacità di
intendere e di volere dell'imputato medesimo. Si approfondirà il ruolo del perito facendo
riferimento non solo ai casi in cui è chiamato a prestare la sua opera nel processo penale, ma anche
in altri campi giuridici al fine di porre in risalto le dovute differenze tra i setting in cui si trova ad
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operare. Si farà riferimento all'opera della Merzagora (2002) per illustrare le fasi di svolgimento
della perizia e i problemi che devono in proposito essere affrontati e risolti.
Si parlerà poi del divieto posto dal secondo comma dell'art. 220 c.p.p. e delle conseguenze che
indebitamente, a parere di molti autori, sono da esso state tratte. La norma dell'art. 220, 2°
comma del c.p.p., afferma l'Ordine degli Psicologi della Regione Lombardia, è stata
grossolanamente strumentalizzata da coloro che intendono negare tout court l'ingresso dello
psicologo in qualità di perito nel processo penale. Si vedrà, comunque, come ci si sta muovendo
verso il superamento del divieto anche in presenza di una prassi giurisprudenziale che si sta sempre
più consolidando. Argomenti imprescindibili da trattare in merito alla perizia sono, oltre alla
capacità di intendere e di volere, l'accertamento della pericolosità sociale e la conseguente
eventuale applicazione di misure di sicurezza, e la capacità di stare in giudizio. In ordine a questo
ultimo punto si vedrà come in letteratura, sulla base della giurisprudenza più attuale, si faccia
riferimento a quelle situazioni di infermità mentale che, influenzando la capacità di
autodeterminazione dell'imputato, ne impediscono o riducono significativamente la capacità di
partecipare attivamente alla dialettica processuale, abbandonando così l'angusta visione del codice
Rocco che riduceva anche questo aspetto alla capacità di intendere e di volere.
L'ultimo capitolo sarà dedicato alla psicodiagnostica in ambito forense, e si vedrà che essa in altri
Paesi ha assunto una notevole rilevanza ma in Italia nonostante ci sia oggi una rivalutazione degli
strumenti di indagine della personalità e dell'uso in svariati contesti, una cultura psicodiagnostica
vera e propria di fatto non si è mai sviluppata. Questa scarsa affidabilità e conoscenza degli
strumenti psicodiagnostici è ancora più forte in ambito giudiziario, dove la psicologia ha fatto fatica
ad affermarsi come una scienza e dove gli strumenti risultavano e ancora oggi risultano poco
oggettivi rispetto a quelli utilizzati in altre discipline come la medicina. Si vedrà inoltre come il
contesto giudiziario e forense presenti differenze non trascurabili rispetto alla situazione clinica
standard dove solitamente si fa formazione.
Verranno poi esaminate le principali caratteristiche dei test più utilizzati in ambito forense e i loro
relativi limiti ai fini di una conoscenza più puntuale ed oggettiva possibile della personalità
dell'imputato. Si farà riferimento ai test proiettivi, quali il Rorschach, il Thematic Apperception
Test (T.A.T.) e i disegni, ai test di livello, quali la Wechsler Adult Intelligence Scale (W.A.I.S.) e ai
test di personalità, quali il Minnesota Multiphasic Personality Inventory ( M.M.P.I.), Il Millon
Clinical Multiaxial Inventory (M.C.M.I.).
Nelle conclusioni verranno, per così dire, tirate le somme del lavoro svolto ponendo l'accento sul
fatto che oggi, ai fini della capacità di intendere e di volere e delle relative conseguenze, si afferma
una concezione più ampia di malattia psichica, su basi psicologiche e interpersonali e determinata
da alterazioni qualitative; non si richiede più un processo morboso organico dimostrato
scientificamente, ma un disturbo psicopatologico, che rappresenta un'evoluzione del concetto di
malattia mentale che comprende anomalie psichiche riconducibili alla psicopatologia clinica.
CAPITOLO I
L'imputabilità nel processo penale
Il concetto di responsabilità penale è un elemento comune, in particolare, ai sistemi penali
europei. E' un concetto che attiene alla capacità di discernimento e di libera autodeterminazione e
secondo il quale l'autore di un reato non può essere punito se incapace di rispondere dei suoi atti.
In generale nei sistemi europei la presunzione di responsabilità opera a partire da una età limite,
sarà la legge penale ad individuare poi i casi in cui la responsabilità è esclusa o per circostanze
attinenti all'autore del reato oppure per circostanze concernenti l'azione. Nel nostro Ordinamento
Giuridico il legislatore ha voluto distinguere tra responsabilità ed imputabilità; non così in altri
sistemi giuridici , infatti in Belgio e in Svezia non si pone alcun problema di responsabilità penale o
di imputabilità, non rileva stabilire se il delinquente sia normale o meno, il solo problema che si
pone è quale sia la sanzione adatta al caso concreto; in ragione delle esigenze del diritto penale in
questi Paesi è sufficiente che le sanzioni, le pene, le misure di trattamento o di sicurezza siano
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adeguate alle diverse categorie di delinquenti. Nelle legislazioni statunitensi, invece il concetto di
responsabilità non è presente come lo conosciamo noi, ma lo stato psichico del soggetto può
rilevare come circostanza attenuante o particolare. In questo capitolo vedremo invece le differenze
sostanziali che il nostro legislatore ha voluto porre tra responsabilità ed imputabilità e le relative
fonti normative e dottrinali nonché la letteratura psicologica e psichiatrica in materia.
1.1 Cenni storici
Il principio relativo alla esenzione da responsabilità per i propri atti del”folle”, dell'”alienato”, del
“malato di mente”, “affetto da disturbo” o “sofferente psichico”, oltre ad essere di quasi universale
accettazione, è di antica data. (Fornari 1989)
Nel diritto romano, in aderenza alla dottrina ippocratica, andavano esenti da punizioni “i furiosi” o i
“fatui” che si fossero resi responsabili di reati. La “fatuitas” era assimilabile al difetto di
intelligenza; Il “furor” ricomprendeva tutte le forme di follia (Ferrini,1987). Se però il delitto
veniva commesso in un periodo di lucido intervallo non vi era alcuna scriminante ed il “furor” con
lucido intervallo che commetteva reati in tale periodo veniva considerato del tutto sano di mente ai
fini della legge penale. (Fornari 1987, Marchetti, 1990) Le categorie nosografiche si arricchiscono
con la legislazione giustinianea e vengono alla luce termini come “dementia”, “insania”, “fatuitas”,
“mania”, “amentia”, situazioni che comportano tutte impunità per l'eventuale delitto, anche qui fatto
salvo il caso di lucido intervallo. Da notare che valevano ad escludere la responsabilità anche gli
intensi gradi delle passioni e l'ubriachezza derubricava il delitto da doloso a colposo( Merzagora
2002).
Successivamente nel periodo che vide in vigore il diritto penale germanico, si aveva riguardo solo
all'elemento oggettivo del danno, non ci si curava dell'elemento soggettivo e venivano considerati
responsabili anche i malati di mente.
La Chiesa invece tenne in estrema considerazione l'elemento soggettivo del reato e il diritto penale
canonico escludeva l'imputabilità per coloro a cui faceva difetto il discernimento e la libera volontà,
per i dementi e per i furiosi e non venivano trascurate neppure le situazioni di furore improvviso e
transitorio; si assimilavano alle malattie mentali anche la febbre violenta, il sonno, il
sonnambulismo, l'ira improvvisa, il dolore intenso, l'ubriachezza, in quanto suscettibili di incidere
sulla colpevolezza e sulla libertà di azione. (Merzagora, 2002). Va però rilevato che tutto ciò non
riguardò il periodo oscuro della Inquisizione, durante il quale la malattia mentale era considerata
effetto di stregoneria o di influenza diabolica e la conseguenza universale era il rogo. Solo dopo
l'anno mille tornò in vigore il principio della irresponsabilità del folle. (Calisse, 1987) e ci si rifece
ancora una volta al vizio dell'intelletto o della volontà. Nel XVI e XVII secolo anche le passioni
incidevano sulla imputabilità.
Il codice Napoleonico del 1810, all'art. 64 disponeva: “Non esiste né crimine, né delitto allorchè
l'imputato trovavasi in stato di demenza al momento della azione, ovvero vi fu costretto da una
forza alla quale non potè resistere”. E' demente, quindi, chi soffre di una privazione della ragione,
chi non conosce la verità, chi ignora se ciò che fa sia bene o male, chi non può adempiere i doveri
più ordinari della vita civile. Un uomo in questo stato è un corpo che ha soltanto figura e ombra di
uomo, il suo reato è tutto fisico, perchè in realtà non esiste nulla. Tutto questo si legge nei lavori
preparatori al predetto codice (Fornari, 1989). La dottrina francese dell'epoca chiarisce che la
demenza comprende la follia furiosa, l'idiozia, l'imbecillità, la monomania, l'allucinazione: in tutto
ciò influiscono gli orientamenti della psichiatria francese in particolare Esquirol e Georget (Fornari,
1989; Leautè, 1990)
Nei codici emanati in Italia sotto l'influsso napoleonico o in quelli successivi alla restaurazione, ( i
c.d. codici pre-unitari) rimasero sia il principio generale che le specificazioni del codice
napoleonico, e, pertanto, viene esclusa la responsabilità quando l'autore del reato è “totalmente
privo della ragione”(codice del Regno Lombardo Veneto); ci si riferisce alla “forza irresistibile”,
talvolta specificata come “esterna” (Regno Lombardo-Veneto, Regno delle Due Sicilie, Stati di
Parma e Piacenza, Stato di S.M. Il Re di Sardegna, Stato estense), alla “demenza” (Stati di Parma e
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Piacenza, Stati di S.M. il Re di Sardegna, Stato estense), alla ”pazzia” (Stati di Parma e Piacenza,
Stati di S.M. Il Re di Sardegna, Stato estense e Stato Pontificio) (Merzagora, 2002).
Con l'Unità d'Italia viene adottato il codice penale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna del 1859,
che all'art. 94 definisce l'imputabilità:”Non vi è reato se l'imputato trovavasi in stato di assoluta
imbecillità, di pazzia, o di morboso furore quando commise l'azione, ovvero vi fu tratto da una forza
alla quale non potè resistere”, “Art. 95 – Allorchè la pazzia, l'imbecillità, il furore o la forza non si
riconoscessero a tal grado da rendere non imputabile affatto l'azione, i Giudici applicheranno
all'imputato, secondo le circostanze dei casi, la pena del carcere estensibile anche ad anni dieci, o
quella della custodia, estensibile anche ad anni venti”. Questa normativa rimase in vigore in
Italia solo trenta anni, infatti il 30 giugno 1889, fu approvato il codice Zanardelli, che all'art. 46
stabiliva “– non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di
infermità di mente da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti ….-;”Art. 47” – Quando lo
stato di mente indicato nell'articolo precedente era tale da scemare grandemente l'imputabilità senza
escluderla, la pena stabilita per il reato commesso è diminuita.....-”; Art. 51 “– Colui che ha
commesso il fatto nell'impeto dell'ira o d'intenso dolore, determinato da intensa provocazione, è
punito con la reclusione non inferiore ai venti anni, se la pena stabilita per il reato commesso sia
l'ergastolo, e negli altri casi con la pena stabilita per il reato commesso diminuita di un terzo. Se la
provocazione sia grave, all'ergastolo è sostituita la detenzione da dieci a venti anni, e le altre pene
sono diminuite dalla metà ai due terzi, sostituita alla reclusione la detenzione.......- “. Compare
quindi la dizione “stato di infermità di mente” e scompaiono le specificazioni di “assoluta
imbecillità”, “pazzia”, “morboso furore”, “forza irresistibile”.
Al codice Zanardelli, che ebbe vita breve, subentrò l'attuale Codice Penale che prende il nome del
Guardasigilli dell'epoca Arturo Rocco, esponente della scuola tecnico-giuridica, i cui principi
traspose nelle nuove norme, pur con qualche concessione alla Scuola Positiva. (Merzagora, 2002).
Nei prossimi paragrafi vedremo pertanto come è attualmente disciplinata l'imputabilità.
1.2 Responsabilità penale ed imputabilità.
Ai sensi dell'art. 42 del codice penale “nessuno può essere punito per un'azione preveduta dalla
legge come reato se non l'ha commesso con coscienza e con volontà ….”. Sulla base di questa
norma, la responsabilità penale dell'autore di un reato, si identifica con il possesso della generica
capacità di coscienza e volontà. La responsabilità in base a questa norma può essere pertanto
esclusa sulla base di circostanze inerenti l'autore dell'azione. Per quanto riguarda le cause esimenti
dalla responsabilità in base alle circostanze dell'azione vengono in esame gli articoli 52 c.p. e 54
c.p. in base ai quali la responsabilità penale presuppone l'aderenza del fatto concreto a quello tipico
e può essere esclusa quando un soggetto, perfettamente “normale” dal punto di vista psichico, abbia
commesso un illecito penale in condizione di legittima difesa (art. 52 cit.) o in stato di necessità (art.
54 cit.). La responsabilità penale è quindi l'obbligo di sottoporsi alle pene stabilite dal codice in
rapporto al compimento di un reato. (Giordano, 2002).
Per quanto attiene l'imputabilità, il nostro ordinamento la disciplina in modo apparentemente molto
chiaro. Essa va sempre riferita al momento in cui fu commesso il fatto di reato per il quale si
procede. L'art. 85 c.p. la definisce come la capacità di intendere e volere al momento del fatto.
Occorre pertanto definire, almeno in prima approssimazione, cosa si intende per capacità di
intendere e di volere.
La capacità di intendere è l'attitudine del soggetto a conoscere la realtà esterna, ciò che si svolge
intorno a lui e di cogliere il valore sociale positivo o negativo dei suoi atti; essa presuppone
l'idoneità psichica di comprendere o discernere le proprie azioni o omissioni (art. 40 c.p. -
Mantovani, 1992) e i motivi della propria condotta. Non bisogna confondere la capacità di
intendere con il sentire, il condividere, il vivere il valore normativo del fatto. Quest'ultima è una
cosa diversa dal non intendere un fatto negativo, illecito.
La capacità di intendere nulla ha a che vedere con la capacità di apprezzamento morale, talchè colui
il quale comprenda che un fatto è illecito ma non sappia partecipare affettivamente e moralmente
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alla proibizione, come nel caso delle personalità “disaffettive” o “amorali”, non vedrà diminuita la
propria imputabilità. (Cazzaniga, 1955; Mantovani, 1990)
La capacità di volere è l'attitudine del soggetto a determinarsi in modo autonomo, a scegliere tra i
motivi coscienti in vista di uno scopo, di volere ciò che l'intelletto ha reputato doversi fare, di
comportarsi coerentemente con tale scelta, di optare per la condotta che appare più ragionevole e
resistere agli stimoli di avvenimenti esterni. (Mantovani, 1992)
Al volere partecipano un insieme di elementi concorrenti, quali le facoltà volitive e le decisioni.
Esse si determinano nell'ambito di contenuti di coscienza, di rappresentazioni, di giudizi ed anche di
sentimenti. La prospettazione di un atto è il processo intellettivo implicante una valutazione dei
dati posti dall'osservazione della realtà; con tale osservazione si programma l'atto volitivo, di cui
costituisce il suo motore logico. Oltre agli elementi intellettivi, nell'agire intervengono anche
componenti affettive come il desiderio, il timore, la simpatia, l'interesse, l'ostilità, che ne sono il
motore timico. Alla luce di queste considerazioni la capacità di volere richiede sia l'integrità
dell'intelletto che l'assenza di turbamenti della affettività dovuti a cause morbose. (Ponti, 1990).
Pertanto la capacità di intendere e quella di volere vanno intese come capacità di usare i propri
strumenti intellettivi e volitivi in modo adeguato al fine. La capacità di intendere è qualcosa di più
e di diverso dalla intelligenza misurata in termini psicometrici in sede di diagnosi clinica. Si deve
porre attenzione alla intelligenza delle situazioni di condotta nelle quali confluiscono fattori
emotivi, affettivi, istintivi e di esperienza. Pur essendo il quoziente di intelligenza un punto di
partenza, i postulati della condotta sono tanti che la capacità di intendere non si può desumere solo
da esso. Vanno considerati anche la situazione emotivo-affettiva,i rapporti esistenti tra il soggetto e
la realtà in cui è inserito, la realtà nei cui confronti il soggetto ha operato, intende operare o opererà,
le capacità ed energie operative di cui egli dispone al momento o ritiene di poter disporre in futuro
relativamente al piano ideativo della condotta che si prefigge, i fini che il soggetto si propone di
perseguire, le modificazioni che il suo operato ha indotto.(Introna, 1996).
Tutta la nostra impalcatura culturale, giuridica, morale si regge pertanto su di un paradigma ben
preciso: il principio di responsabilità che non può prescindere dalla libertà dell'autore del fatto
delittuoso. La sanzione, la riprovazione sociale, l'idea di colpa, il concetto di devianza, di giustizia
e di diritto non hanno senso senza la libertà di azione dell'autore del fatto. Se l'individuo è libero e
responsabile, deve rispondere dei propri atti; se si può presumere il libero arbitrio nell'uomo, ne
deve conseguire la responsabilità morale del reo e quindi quella giuridica: questo è il fulcro del
nostro contratto sociale. Nei termini appena esposti è chiaro che il concetto di responsabilità
penale investe in primis le scienze umane ed è costruito sulla base delle concezioni fondamentali
della filosofia, della teoretica, della morale. Anche se da più parti oggi si vuole sottoporre a
revisione il concetto di responsabilità penale, nessuno pensa però di rinunciarvi. A tale proposito va
sottolineato che in sede di proposte di riforma del codice penale, gli autori (Commissione Grosso,
1998) precisano, a fronte di alcune modifiche proposte in tema di non imputabilità, su cui in
seguito si tornerà, che non si intende “spostare la collocazione sistematica della imputabilità” nel
capitolo dedicato alla colpevolezza, in quanto questo significherebbe una precisa scelta legislativa,
mentre l'attuale collocazione della imputabilità lascia in realtà libero l'interprete di ricostruire gli
istituti nel modo che ritiene più opportuno. E' chiaramente una presa di posizione tesa a mantenere
con forza il concetto di responsabilità penale e di imputabilità senza apportarvi modifiche
sostanziali che ne stravolgerebbero l'interpretazione. Pur prendendo atto degli aspetti di crisi
dell'istituto della imputabilità, si rileva che “il mantenimento della distinzione fra soggetti
imputabili e non imputabili appare irrinunciabile per un diritto penale garantista.”(Commissione
Grosso, 1998) Va distinta comunque la responsabilità penale come concetto giuridico, alla cui
definizione contribuiscono il diritto, la filosofia e la morale, dalla responsabilizzazione intesa come
esigenza primaria per la formazione e la socializzazione dell'uomo, principio pulsore di ogni azione
finalizzata alla sua realizzazione in ogni campo.(Giordano, 2002).
L'art. 85 del c.p. individua il presupposto della responsabilità nella imputabilità. Non si intende
logicamente, con questo concetto, la capacità alla pena, ma la capacità alla colpevolezza e in
subordine alla pena come conseguenza della colpevolezza. “Nulla pena sine culpa”: senza
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imputabilità non vi è colpevolezza, senza colpevolezza non vi può essere pena. L'imputabilità è
quindi l'attribuibilità di un fatto ad un soggetto ed è condizione, se non ricorrono le altre esimenti
previste dalla legge, per l'irrogazione della pena propriamente detta. Si parla di pena propriamente
detta perchè al soggetto non imputabile non si applica la pena, ma può applicarsi una misura di
sicurezza se ne ricorrono i presupposti.
La legge opera secondo un meccanismo presuntivo riconoscendo il soggetto maggiorenne, che ha
compiuto i 18 anni, imputabile e quindi capace di intendere e volere. L'uomo, normalmente,
secondo “l'id quod plerumque accidit”, è capace di libere scelte e perciò imputabile. Si ritiene
pertanto che a questa età l'uomo raggiunge una adeguata maturità psichica, cioè un livello di
capacità di intendere e volere che risulta sufficiente a recepire correttamente il comando ingiuntivo
o interdittivo della norma penale e a conformarvi l'azione. I precetti penali, , di conseguenza, sono
concepiti avendo come destinatari tali soggetti e devono essere tarati sulle capacità psichiche di
soggetti che abbiano superato i 18 anni.
Definita quindi a livello formale l'imputabilità come assoggettabilità alla pena, i problemi di
disciplina attengono, innanzi tutto, alla individuazione delle categorie di soggetti alle quali nessun
rimprovero di colpevolezza può essere mosso a causa delle condizioni soggettive di incapacità, e
nei cui confronti non ha senso l'inflizione di una pena commisurata alla colpevolezza (Basso,1999).
Gli ordinamenti moderni, con soluzioni peraltro differenziate, danno forte rilievo alle situazioni
soggettive di incapacità di colpevolezza. E' da rilevare che negli anni '80 fu avanzata la proposta di
abolire la non imputabilità degli infermi di mente con l'intento di riconoscere la loro pari dignità
nello spirito della riforma avviata dalla legge 180/1978; ma anche tale proposta alla fine recuperò
momenti di rilevanza dell'infermità quale criterio di differenziazione nella esecuzione della pena,
che per l'infermo si voleva avesse un contenuto terapeutico. Come giustamente afferma Grosso,
l'idea di affermare in via generale l'imputabilità dell'infermo di mente si rivela in realtà una scelta
ideologica: la previsione di una differenziazione di situazione soggettive e di corrispondenti modelli
differenziati di risposta non può essere eliminata.(Grosso, 1998.)
1.2.1 Capacità di intendere.
Abbiamo già detto nel paragrafo precedente cosa è la capacità di intendere, qui vengono soltanto
aggiunte alcune considerazioni di carattere generale.
Cercando di analizzare gli articoli 85,88 e 89 c.p. da un punto di vista linguistico concettuale,
vediamo come il verbo intendere significa in latino “tendere verso” nel senso di dirigersi verso,
andare alla meta, dirigersi verso il traguardo, sia in ambito concreto che metaforico, riferito quindi
anche alla mente e alle sue decisioni, ai suoi atti di volizione, azione che implica che si sia
verificata a sua volta appunto l’azione di volere e, come azione agita implicitamente, anche di
capire. Qualcuno ha rilevato che il termine intendere comporta una confusione di significati, perché
intendere può anche essere usato nel senso di volere, ad esempio quando si dice ho inteso dire, la
frase non è sinonimica di ho compreso dire, ma di ho voluto dire, ho avuto l’intenzione di dire.
Pertanto “intendere” non è una espressione adeguata al significato della parola nel codice penale,
meglio sarebbe stato usare il termine “comprendere” che avrebbe comportato meno equivoci. La
formula presente nel codice penale può dar luogo ad una tautologia di significati per cui intendere è
sinonimo di volere, offrendo meno chiarezza là dove tutto dovrebbe essere chiaro in massimo
grado. Di fatto il termine intendere è usato dal codice nel senso di comprendere, capire.
(Mascialino, 2010). Alcuni autori spiegano il termine facendo riferimento alla maturità psichica,
ed è evidente che ciò lascia alla soggettiva discrezionalità del giudice o dello psicologo o di
chiunque altro debba definirla, il vaglio della maturità appunto come impressione personale
(Petrucci/Pezzano 2009). Sempre in tale contesto viene precisato che la norma impone, quale
presupposto per l’accertamento della responsabilità penale, la sussistenza, nel reo, di uno status
personale, di un modo di essere denominato imputabilità e qualificato come capacità di intendere
(cioè di rendersi conto del rilievo sociale delle proprie azioni) e di volere (cioè di autodeterminarsi
liberamente nel fare quanto si ritiene opportuno dover fare).
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