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Introduzione
Chi, almeno in Europa, non ha mai sentito nominare l’Arena di Verona? Quanti
cittadini italiani non hanno impressa nei loro ricordi l’atmosfera sognante dell’anfiteatro
durante un concerto o un’opera lirica? Quanti, almeno tra le nuove generazioni, non vi
hanno visitato almeno una volta i presepi esposti nel periodo natalizio? Siamo sicuri che la
risposta del lettore a questi quesiti è: “pochi”. Ma “pochi”, con ogni probabilità, è la riposta
anche a quest’interrogativo: quanti hanno visitato il monumento con grandi aspettative e se
lo sono lasciato alle spalle completamente appagati? In questo lavoro proveremo a decifrare i
motivi di un’offerta sicuramente migliorabile, e proveremo ad analizzare quali possano essere
le soluzioni plausibili che facciano lievitare il numero di questi “pochi” e il loro grado di
soddisfazione. Crediamo, infatti, che sia possibile migliorare la fruibilità dell’anfiteatro,
simbolo del patrimonio culturale italiano e apprezzato in tutto il mondo, fornendo ulteriori
servizi al visitatore. Oltre ad un ricerca che analizzi il contesto culturale, amministrativo e
gestionale, formuleremo anche proposte d’innovazione basate sulle ultime tecnologie.
In quanto dipendente di Fondazione Arena da anni, e quindi trascorrendo ogni estate
a stretto contatto con la vita dell’anfiteatro, il quesito che mi ha spinto nella scelta di questa
ricerca è il seguente: perché l’Arena di Verona, una struttura meravigliosa e dalle numerose e
molteplici potenzialità, viene valorizzata solo parzialmente? La sensazione, poi confermata, è
che si dia molto più peso all’utilizzo dell’anfiteatro come tribuna di spettacoli, seppure
suggestivi e unici, e meno all’aspetto monumentale, all’edificio da visitare in quanto
testimonianza vivente di duemila anni di storia ed identità culturale. Come analizzeremo in
seguito, la situazione amministrativa e gestionale dell’Arena, e più in generale del patrimonio
culturale italiano, è il risultato di un’evoluzione piuttosto complessa. In questi decenni si sta
attraversando una fase di transizione, dall’antica conduzione istituzionale verso un’apertura al
mercato, grazie alla sempre più concreta possibilità di partecipazione di soggetti ed enti
privati. Il vasto dibattito sull’eticità storico culturale e le modalità di realizzazione di questo
processo non è certo prerogativa di questi ultimi anni, ma accompagna il patrimonio
culturale italiano da diversi decenni. Non avendo naturalmente facoltà di intervento in
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questo dibattito, abbiamo preso atto di questa tendenza ed abbiamo provato di analizzarla in
tutti i suoi aspetti. Essendo, inoltre, convinti che “il bicchiere va visto mezzo pieno”,
riteniamo che questo processo di apertura ai soggetti privati, seppur con i suoi rovesci della
medaglia, debba essere visto come una possibilità di sviluppo culturale, economico e turistico
per la valorizzazione dei beni culturali. In particolare nel caso dell’Arena di Verona siamo
convinti che si possano apportare migliorie significative, positive non solo per i visitatori ma
anche per gli enti preposti alla sua gestione e per la comunità.
Sia chiaro: l’Arena di Verona non è assolutamente una struttura che versa in uno stato
di decadimento e neppure viene trascurata dalle istituzioni per quanto riguarda la sua
valorizzazione. Al contrario, se paragonata a certe epoche passate di semiabbandono, e le
cifre che analizzeremo parlano chiaro, sta vivendo una stagione di relativo fervore.
Ciononostante, crediamo che ci siano ampi margini di miglioramento della fruizione, e che il
fitto e complesso “sistema Arena” lasci degli spiragli nei quali provare a inserirsi per
migliorarla ulteriormente. Infatti, se da un lato è evidente che la programmazione e
l’organizzazione della stagione lirica, e degli altri eventi, funzionano già come una macchina
oliata, dall’altro riteniamo che l’offerta al visitatore “semplice” è spesso inferiore alle attese.
Va da sè, quindi, che questa ricerca non pretende di rivoluzionare una struttura che, come
vedremo nel dettaglio, da secoli è soggetta a meccanismi ben precisi. Per questi motivi
abbiamo valutato, quindi, fosse necessario studiare l’anfiteatro in tutti i suoi aspetti: storico,
costituzionale, politico, normativo, amministrativo, gestionale, economico e turistico.
Per realizzare ciò abbiamo effettuato un’indagine ad ampio raggio e, speriamo,
sufficientemente approfondita, di tutto ciò che si muove attorno all’anfiteatro e ne influenza
la vita e la gestione, al fine di individuare, se presenti, quegli spiragli nei quali poter
intervenire per valorizzare al meglio il lato monumentale dell’edificio. Nella convinzione che
l’Arena di Verona possa creare ulteriore valore, culturale ed economico, a vantaggio dei
soggetti direttamente o indirettamente coinvolti nella sua attività, cercheremo anche, se e
dove possibile, di ipotizzare e proporre interventi mirati che ne aumentino il prestigio e ne
migliorino la fruizione in maniera consapevole, equilibrata e non invasiva.
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Capitolo I
Il contesto storico e normativo del patrimonio culturale italiano
1.1 La svendita del patrimonio culturale
Negli ultimi anni appare chiara la propensione dello Stato italiano verso la svendita
del proprio patrimonio culturale. Farlo però, è come mettere all’asta i “gioielli di famiglia”
1
,
nel senso di svendere ciò che di più caro abbiamo come succede nei momenti di estrema
difficoltà. Insomma, perché l’Italia, che si è tenuta ben stretta il suo patrimonio culturale
quando era un paese ricco, dovrebbe sottovalutarlo proprio ora che ne ha più bisogno? Così
facendo si lascia intuire, neanche troppo velatamente, che l’unica cosa che conta del
patrimonio culturale è il suo valore monetario. La tendenza è dunque quella di spostare ogni
considerazione solo sull’aspetto economico, trascurando così la natura e il carattere del
patrimonio culturale, il suo significato storico, istituzionale e civile.
Come analizzeremo tra poco, il patrimonio culturale si sta trasformando, negli ultimi
vent’anni, senza troppi ostacoli o dibattiti, in un deposito bancario, un valore aggiuntivo
pronto per essere investito, venduto o addirittura svenduto. Ma non è certo con questa
intenzione e con questi fini che il patrimonio culturale dell’Italia quale Stato di persone si è
formato nel corso dei secoli. Non solo, questa visione del nostro patrimonio culturale quale
deposito di risparmi di cui ci si può disfare, non coincide con l’idea, spesso ripetuta, che esso
1
Settis S., Italia S.pa. 2007, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 7.
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sia un grande fattore di attrazione e di promozione del paese: perché se è così, e lo dice il
Documento di programmazione economico-finanaziaria approvato dal consiglio dei Ministri
il 5 Luglio 2002, allora quello stesso patrimonio non dev’essere trascurato, alienato o
semplicemente lasciato al suo destino come spesso accade, ma necessita di considerazione,
tutela e soprattutto investimenti, in risorse e persone. Perché, non dimentichiamo,
l’immagine dell’Italia come terra straordinariamente ricca di patrimonio culturale è un
concetto forte e avvertito, che attira sul nostro Paese una particolare attenzione e un flusso
imponente di visitatori da tutto il mondo, di ogni strato sociale, e per svariati motivi. Ad
onor del vero nel nostro paese si era formata nel corso dei secoli una cultura della
conservazione molto attenta e molto sofisticata che ha valorizzato i singoli monume nti,
grandi e piccoli come parte di un insieme incardinato nel territorio.
Anche all’interno della Comunità europea, è infatti l’Italia ad avere (insieme alla
Grecia, almeno per quanto riguarda il patrimonio archeologico) la legislazione più protettiva
dei propri beni culturali. Solo una parte di questo patrimonio è di proprietà pubblica, e la
maggior parte, anche in Italia è invece di proprietà privata, o di enti ecclesiastici; ma in linea
di principio tutto, anche ciò che è dei privati, è protetto e tutelato. Quindi per quanto
possiamo lamentarci che ville venete, toscane, napoletane vertano in stato di
semiabbandono, in Italia tradizioni e leggi, pur salvaguardando naturalmente la proprietà
privata, non danno ai proprietari diritto di vita e di morte sui propri possedimenti. Certo
abbiamo casi di noncuranza in Italia, e in abbondanza, ma la cultura e la struttura legislativa
italiana di tutela fanno sì che lo Stato abbia anche il dovere di porvi rimedio, cosa che non
succede nella stragrande maggioranza dei paesi del mondo. Inoltre in Italia, c’è un premio di
rinvenimento per quanto riguarda la scoperta di beni culturali di proprietà pubblica. Cosa
che non succede per esempio negli Stati Uniti dove c’è totale liberà di costruzione anche su
siti archeologici rilevanti.
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1.2 Beni culturali e società
In Italia la gestione e la tutela del patrimonio culturale ha elaborato nel corso dei
secoli alcune caratteristiche essenziali:
La concezione del patrimonio culturale come un insieme congenito di opere,
monumenti, musei, case, paesaggi, città strettamente legato al territorio.
La concezione che questo patrimonio nel suo insieme forma un elemento
essenziale della società e dell’identità della nazione.
La fondamentale importanza del patrimonio culturale nella gestione dello Stato, e
l’impegno dello Stato a proteggerlo tramite la proprietà o attraverso norme di
tutela applicabili anche ai beni di proprietà privata.
Definiamo dunque cos’è il patrimonio culturale. Innanzi tutto, è completamente
proprietà dello Stato? Certamente no. É previsto, infatti, che a qualsiasi bene artistico siano
associati, di chiunque sia la proprietà, dei valori che possono essere dichiarati, mediante
notifica, di interesse pubblico, e perciò soggetti al controllo pubblico. In altre parole, se ho
ereditato o comprato una villa del Settecento, posso farne ciò che preferisco, abitarla,
affittarla o venderla; ma non posso demolirla, non posso sopraelevare, non posso
suddividerla in minialloggi. La proprietà resta mia ma lo Stato si riserva un controllo che di
fatto limita la mia piena disponibilità del bene in nome di un interesse superiore, la
conservazione dei valori storici e artistici propri di quella villa per il contesto storico a cui
appartiene: appunto il patrimonio culturale del Paese. In ogni oggetto o monumento che
appartenga al patrimonio culturale coesistono quindi due distinte anime patrimoniali: una si
riferisce alla proprietà giuridica, e al valore monetario, del singolo bene, che può essere
privata o pubblica; l’altra ai valori storici, artistici e culturali, che sono sempre e comunque di
pertinenza pubblica.
Ma qual è, in questo contesto, il sottile confine fra proprietà pubblica e proprietà
privata dei ben culturali? É questo un punto che le nostre leggi, non hanno mai voluto
regolare. Il principio tuttavia è molto chiaro: lo Stato italiano possiede chiaramente, come
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ogni altro Stato al mondo, delle proprietà immobiliari e dei beni mobili, dei quali solo una
parte ricadono nella categoria di patrimonio culturale. Lo stesso vale per Regioni, Province,
Comuni e le altre amministrazioni pubbliche quali scuole e università. Per i beni culturali in
proprietà pubblica, proprio come per quelli di proprietà privata, lo Stato (o la Regione, la
Provincia, il Comune) ha la piena disponibilità d’uso ma è obbligato a rispettarne la tutela
tramite delle norme. Inoltre, e ciò è molto significativo, è lo Stato che emana le norme di
tutela e si assicura che vengano osservate, e poiché lo Stato si trova a possedere una parte
considerevole del patrimonio culturale, per la maggior parte proveniente dalle proprietà degli
antichi Stati preunitari, questo patrimonio culturale di proprietà pubblica è ovviamente
l’oggetto di maggiore attenzione della tutela. Quindi, anche per questa ragione, il patrimonio
culturale di proprietà pubblica è inalienabile, cioè non può, o meglio non potrebbe, essere
venduto.
Ciò comporta una conseguenza rilevante. Nella tradizione italiana, la gestione e la
tutela del patrimonio culturale non sono state mai considerate in senso strettamente
patrimoniale-proprietario. Si è sempre pensato che il valore di mercato dei monumenti e
degli oggetti d’arte fosse dipendente dalla funzione civile del patrimonio artistico stesso.
Questa funzione civile si è sempre esercitata in Italia attraverso un doppio meccanismo, il
controllo pubblico da un lato e l’identità civica dall’altro, entrambe connesse alla realtà
territoriale del patrimonio. Una sorta di eredità, carica di identità e memoria, che viene
tramandata da una generazione all’altra grazie naturalmente alle affinità culturali ma
soprattutto ad un sistema di norme che la tramanda, la conserva e la incoraggia. Per più di
quarant’anni nel Novecento, nelle aule del nostro parlamento, si è svolto un forte dibattito
sul contrasto tra l’utile pubblico e l’interesse privato del patrimonio culturale. Alla fine ne
derivò una visione fortemente pubblica e sociale del problema, la stessa che orientò la spinta
culturale, elaborata con straordinaria precisione nei primi dell’Ottocento. É da allora, infatti,
dal passaggio dagli Stati preunitari verso una normativa comune per il tutto il paese, che
nacquero le prime leggi di tutela dell’Italia unita, in seguito modificate e perfezionate fino alla
legge 1089 del 1939, che è stata, fino alla riforma del 2004, il principale punto di riferimento
per quanto riguarda il patrimonio culturale italiano.
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1.3 La prima normativa
Il primo sistema uniforme di controllo territoriale, avviato dallo Stato unitario
italiano, fu decisamente all’avanguardia in Europa e non solo, ed ebbe il grande merito di
unire l’opera d’arte individuale al contesto geografico, storico e culturale da cui essa era nata,
costringendo chi di dovere a una visione organica del patrimonio culturale. Dalle antiche
collezioni private al patrimonio culturale della Repubblica Italiana, dai più antichi editti e
decreti degli Stati preunitari fino alla legge 1089 del 1939 c’è quindi una costante: il rispetto
dei principi ispiratori, tuttora attualissimi. Fra quei principi ne emergono tre, che da allora
hanno svolto la funzione di coordinate per la conservazione, la normativa giuridica,
l’amministrazione e la politica del patrimonio culturale italiano:
Primo: il patrimonio artistico pubblico è proprietà dei cittadini, in quanto titolari della
sovranità popolare.
Secondo: lo Stato ha il dovere di tutelare il patrimonio culturale, pubblico e privato,
nella sua totalità, promuovendone la conoscenza mediante la ricerca.
Terzo: il patrimonio culturale di proprietà pubblica, in quanto testimonianza
dell’identità nazionale, è inalienabile.
Le condizioni del mercato però, oltre alla sua estensione e vitalità, sono cambiate e
cambiano continuamente. Nel tempo, quindi, è aumentata la pressione verso una deregulation
che consenta di mettere sul mercato tutto il possibile, e ai prezzi più elevati, parallelamente
all’aumento di consapevolezza del valore, anche economico, del patrimonio culturale.
Naturalmente quadri, sculture, gioielli e monete hanno sempre avuto un prezzo e un
mercato, ma visto che per la normativa italiana tutto il patrimonio culturale che diventa di
proprietà pubblica è inalienabile, l’enorme quantità delle opere d’arte, ma anche degli
immobili storici, di proprietà dello Stato è per definizione fuori dal mercato. Ha un valore
ma non ha un prezzo, nel senso che non può essere venduto.
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1.4 Beni culturali e nuovi mercati
La prima definizione che fu data al patrimonio culturale nel secondo dopoguerra,
“Antichità e belle arti”, riguardava solo ciò che era soggetto a speciali norme di tutela, la
definizione odierna, “beni culturali”, al contrario, sottintende non solo il significato culturale
di ciò che va tutelato, ma anche, in quanto “bene”, il suo valore patrimoniale effettivo, in
termini economici. L’intenzione era chiara e pienamente giustificata: puntare sul valore
monetario del patrimonio culturale per ottenere più finanziamenti per la tutela. Da molti
anni infatti ci si lamentava che l’Italia spendeva troppo poco per valorizzare e tutelare il
proprio immenso patrimonio d’arte e di storia. D’altronde, ed è stato affermato più volte,
l’arte è “il petrolio d’Italia”
2
. A causa del crescente peso dell’economia nella vita pubblica, e
nel discorso politico, lentamente il lato economico prevalse su quello culturale. Ci si rese
conto allora che il patrimonio culturale dell’Italia ha un immenso valore, ma che veniva
trascurato, vi si destinavano pochi investimenti pubblici. Ci si è resi conto che andavano
aumentate le risorse per conservare e accrescere questo valore che, in caso contrario,
avrebbe cominciato a diminuire inesorabilmente. Quindi, ciò che prima veniva considerato
“antichità” e “belle arti” assunse il ruolo di “beni di natura patrimoniale”, da tutelare e
valorizzare, anche economicamente. Da qui l’idea di un Ministero dei beni culturali.
Le intenzioni erano quindi ottime, ma alla creazione del nuovo ministero non venne
associato un aumento degli investimenti sul patrimonio culturale, né una piena
consapevolezza dell’importanza del suo significato. Al contrario, il nuovo ministero fu da
subito visto come un compartimento di minore importanza rispetto agli altri distretti
istituzionali, e spesso venne affidato a figure inadatte a condurre il mutamento prospettato,
con un potere contrattuale debole rispetto al complesso ministeriale. Così facendo, la
creazione di un ministero nuovo e indipendente, invece di valorizzare i beni culturali, finì
con l’isolarli dal discorso politico. Non solo, altri ministeri pian piano iniziarono a interagire
in maniera invasiva con il nuovo ministero, con la conseguenza di frammentarne la gestione
del patrimonio culturale in più parti, appesantendone notevolmente la macchina
amministrativa.
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SettiS S. Italia S.p.a., Piccola Biblioteca Einaudi, 2007, 30.