CAPITOLO 1
REPUBBLICA PARLAMENTARE ITALIANA
E
MONARCHIA PARLAMENTARE SPAGNOLA
3
Premessa
“Tutti li Stati, […] che hanno avuto et hanno imperio
sopra gli uomini, sono stati e sono repubbliche o
principati”. Così Niccolò Machiavelli iniziava il suo
Principe, con la più semplice delle distinzioni relative
alle forme di governo, suddividendole in forme
monarchiche e forme repubblicane.
Pur costituendo monarchia e repubblica di per sé dei
modelli teorici, è evidente come qualunque regime
politico sia chiamato a compiere un’iniziale opzione a
vantaggio di uno dei due.
Tuttavia alla nettezza manichea dell’analisi del Segretario
Fiorentino, non corrisponde nella realtà politica una
altrettanta semplice individuazione di elementi
identificatori tali, da differenziare gli Stati che si
considerano come monarchie o come repubbliche: se
adottassimo come criterio principale di collegamento
l’elettività del Capo dello Stato, che mancherebbe nei
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regimi monarchici e caratterizzerebbe invece quelli
repubblicani, saremmo smentiti da monarchie elettive
ancor’ oggi esistenti (come quella che regge la Santa
Sede) o da repubbliche autoritarie, nelle quali il Capo
dello Stato ricopre il vertice senza aver vinto alcuna
elezione, sibbene in virtù di un colpo di mano spesso
contando sull’appoggio delle truppe militari (sono
numerosi gli esempi che in tal senso ci offrono talune
“repubbliche” del Centroamerica e dell’Africa); se
viceversa ci ispirassimo al criterio della durata in carica,
affermando che i Monarchi restano in carica a vita,
mentre il Presidente della Repubblica ha un mandato
limitato nel tempo, vedremmo come in realtà nei regimi
monarchici non manchi mai l’istituto della reggenza, per
definizione limitata nel tempo, mentre nei regimi
repubblicani può accadere che un dittatore mantenga a
vita la qualifica di Capo dello Stato, magari trasferendola
in punto di morte al primogenito, quasi in forza di uno ius
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sanguinis, che meglio si adatterebbe alla corte di un
imperatore.
È perciò all’interno di ogni ordinamento, che si
autodefinisce monarchico o repubblicano, che vanno
indagati i tratti salienti e tracciati i confini di questi che
altrimenti non rimarrebbero che vuoti aggettivi.
Per ciò che attiene alla presente trattazione è evidente
come, per inquadrare le forme di governo vigenti in Italia
ed in Spagna, sia opportuno stabilire attraverso quali
sviluppi e con quali condizionamenti di carattere storico
si sia giunti agli attuali ordinamenti.
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SEZIONE I
LA REPUBBLICA PARLAMENTARE
ITALIANA
1.1.1 La nascita dello Stato italiano
Il 17 marzo 1861 il Parlamento subalpino proclamò
Vittorio Emanuele II non già Re degli Italiani, ma “Re
d’Italia per grazia di Dio e volontà della Nazione”;
Secondo, non Primo, quasi a sottolineare la continuità
dinastica col passato, vale a dire il carattere
annessionistico della formazione del nuovo Stato.
Se da un punto di vista giuridico il Regno d’Italia fosse
una continuazione del Regno di Sardegna o consistesse in
uno Stato del tutto nuovo rispetto al precedente, ha
costituito un tema che ha appassionato e diviso la cultura
giuridica italiana: pare più rispondente al corso storico
degli eventi l’opinione di quella dottrina – capeggiata da
Santi Romano – secondo la quale lo Stato italiano
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giuridicamente altro non sarebbe che la prosecuzione del
Regno di Sardegna, estesosi per successive annessioni,
fino a ricomprendere tutte le altre regioni italiane1
(nient’altro che un allargamento degli antichi confini,
“una conquista regia” come polemicamente si disse); alla
“teoria delle annessioni” si contrappose la “teoria della
fusione”, che ebbe in Dionisio Anzilotti2 il suo più
strenuo propugnatore, il quale riteneva che il Regno
d’Italia sarebbe stato in realtà il frutto di una serie di
fusioni realizzatesi tra il Regno di Sardegna e gli altri
Stati preunitari, legittimate dai plebisciti con cui le
popolazioni di quegli ordinamenti espressero la volontà di
unirsi al nuovo Stato italiano.
A far propendere per la “tesi delle annessioni” pare
decisiva la constatazione di come lo Statuto albertino
(1848) non avesse subito modifiche, avendo esteso
semplicemente il suo ambito applicativo a tutta l’Italia;
1
S. ROMANO, I caratteri giuridici della formazione del Regno d’Italia [1912],
in Scritti minori, Milano, Giuffrè, 1950, I, pp.327 ss.
2
D. ANZILOTTI, La formazione del Regno d’Italia nei riguardi del diritto
internazionale, in Riv. dir. int., 1912, pp.4 ss.
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sintomo di tale continuità può considerarsi la circostanza
sopra accennata, consistente nell’immutata posizione del
Re, che continuò a reggere lo Stato col nome di Vittorio
Emanuele II, senza introdurre una nuova serie dinastica.
Tale continuum3 giuridico dello Stato italiano rispetto al
Regno di Sardegna, implicava per l’Italia oltre
all’automatica assunzione della titolarità dei diritti e
obblighi spettanti al Regno di Sardegna (sia nell’ambito
del diritto internazionale, sia in quello del diritto interno
nei rapporti con i privati), anche la completa accettazione
di tutto il sistema delle fonti del diritto vigente nel Regno
sabaudo, lasciando svolgere ai diritti in vigore negli Stati
annessi il ruolo di normativa transitoria, in attesa di una
regolamentazione diretta a disciplinare i rapporti sorti
anteriormente all’annessione, ma tuttavia pendenti.
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I segnali della continuità sono sottolineati anche in G. GALASSO, L’Italia
come problema storiografico, Torino, UTET, 1981, pp.151 ss; nell’opera
l’autore evidenzia come da un punto di vista storico e storiografico non fosse
accettabile la posizione estrema di Benedetto Croce, che giunse a negare
l’esistenza di una storia italiana anteriore al 1860, dovendosi, in realtà, porre
l’attenzione sulla sostanziale unità sociale, politica e culturale, che costituiva il
substrato di una nazione in nuce, sviluppatasi nonostante la fatalità storica dello
smembramento politico.
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Però se tale applicazione ultrattiva dei “diritti preunitari”
poteva andar bene per i rapporti di diritto privato, essa
mal si addiceva all’area del diritto pubblico, rispetto alla
quale l’opera di “piemontesizzazione” esigeva
un’immediata estensione dell’ordinamento del Regno di
Sardegna a tutto il territorio nazionale4.
1.1.2 Forma di Stato e forma di governo
“Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado,
sono uguali davanti alla legge. Tutti godono egualmente i
diritti civili e politici […]”. Così recitava l’articolo 24
dello Statuto albertino nell’affermare - in linea col
costituzionalismo ottocentesco - il principio di
uguaglianza, limitandolo alla sfera della “uguaglianza di
4
C. GHISALBERTI, Unità nazionale e unificazione giuridica in Italia, Bari,
Laterza, 1979, pp.88 ss.
Sullo stesso argomento si veda anche A. PIZZORUSSO, Lezioni di diritto
costituzionale, Roma, Il Foro italiano, 1984, pp.40 ss.
10
diritto”, collocandosi così nel solco tracciato dalla
dottrina dello Stato liberale.
E secondo i princìpi propri dello Stato liberale venne
affrontato uno dei più grandi problemi che il neonato
Stato unitario si trovò a dover fronteggiare, quello della
libertà religiosa: le idee condensate nella formula
cavouriana “libera Chiesa in libero Stato” erano quelle
della separazione della Chiesa dallo Stato, per effetto di
reciproche concessioni: la Chiesa avrebbe dovuto
abbandonare l’eccezionale posizione di privilegio che il
tradizionale regime concordatario le riconosceva (in
primis l’essere quella cattolica religione di Stato), in
cambio Cavour offriva alla Chiesa il graduale
smantellamento del vecchio armamentario
giurisdizionalista (i placet, gli exequatur gli strumenti
cioè con i quali lo Stato aveva sottoposto al proprio
controllo i decreti pontifici e le nomine dei Vescovi), in
sostanza proponeva il riconoscimento della libertà della
Chiesa. Il fermo rifiuto di scendere a trattative da parte di
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Papa Pio IX da un lato, alcuni tentativi di estremizzazione
liberalistica della proposta cavouriana dall’altro,
portarono alla rottura e alla nascita della “questione
romana”, che si trascinò per decenni, costituendo un
fattore di notevole debolezza per lo Stato italiano5.
Rispetto alla forma di governo lo Statuto albertino,
richiamandosi alle idee della Restaurazione, delineava i
caratteri di un sistema costituzionale puro di tipo
“dualista” (in cui cioè la funzione di indirizzo era ripartita
tra il potere esecutivo e quello legislativo), anche se
fortemente sbilanciato in favore del Monarca, unico
titolare del potere esecutivo (art. 5), di quello giudiziario
(artt. 68-69, la giustizia emana dal Re ed è amministrata
in suo nome da giudici che egli istituisce) e compartecipe
con le Camere del potere legislativo, grazie all’istituto
della sanzione regia6.
5
G. GALASSO, Storia d’Europa, vol. II, Bari, Laterza, 1975, pp. 363 ss.
6
A. PIZZORUSSO, Sistema istituzionale del diritto pubblico italiano, II ed.,
Napoli, Jovene, 1992, p.77.
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Fu grazie all’opera di Cavour prima, di Depretis poi ed
infine di Giolitti, che lo Statuto divenne oggetto di
modificazioni più o meno tacite, che ridimensionarono
notevolmente i poteri regi senza tuttavia alterare la
struttura dualista del sistema: fondamentali in tal senso
furono il trasferimento delle funzioni esecutive ad un
Governo guidato da un Presidente del Consiglio e la
previsione che tale Governo dovesse ricevere oltre alla
fiducia del Re anche quella del Parlamento.
Tuttavia il passaggio dalla forma costituzionale pura,
prevista dallo Statuto, al governo parlamentare,
evidenziava per il nuovo modello preoccupanti segnali di
debolezza (la mancata codificazione della nuova forma di
governo nell’ambito di un’esplicita riforma
costituzionale, il mantenimento di “prerogative” regie in
taluni settori); per questo il nuovo assetto prestava il
fianco a tendenze antiparlamentari, che raggiunsero il
loro culmine nell’invocazione di Sidney Sonnino
“Torniamo allo Statuto”, nella cui sostanza il
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parlamentare toscano sollecitava un colpo di Stato
legalitario da parte della Corona, che modificasse il
sistema politico e riportasse il Governo a rendere conto di
sé non più alle Camere ma al Re7.
1.1.3 Segue: il periodo fascista
Pur restando lo Statuto albertino formalmente in vigore
per tutta la durata del ventennio fascista, rimase
pressoché lettera morta, provvedendo il regime a
smantellarne progressivamente l’apparato.
Tuttavia per rispondere alla domanda se il passaggio
all’ordinamento fascista avesse comportato il venir meno
dello Stato italiano o invece si fosse realizzata una sorta
di continuità giuridica, pare persuasiva la posizione del
Paladin8, che ravvisa i segnali della sostanziale
7
C. GHISALBERTI, Storia costituzionale d’Italia 1848/1948, Bari, Laterza,
1981, pp.87 ss.
8
L. PALADIN, Diritto costituzionale, II ed., Padova, CEDAM, 1995, pp. 81 ss.
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continuità nella mancata alterazione dei tre elementi
costitutivi dello Stato: popolo, territorio e governo. Tale
frattura radicale non può riscontrarsi in quella che altro
non fu che la sovrapposizione dell’ordinamento fascista a
quello statutario: le leggi - tra queste lo Statuto - che
vigevano prima continuarono a vigere, pur venendo
gradualmente modificate e lo Stato continuò a conservare
il suo vertice nel Re. Anzi, almeno nella prima fase, la
forma di governo parlamentare non subì alterazioni di
rilievo, visto che Mussolini ottenne la legittimazione per
il proprio Governo, ricevendo la fiducia del Parlamento
all’indomani della marcia su Roma e delle dimissioni del
Presidente del Consiglio Facta, dopo il rifiuto del Re di
firmare lo stato d’assedio.
Fu, quindi, quello che Paladin chiama “regime
parlamentare” nel senso politico del termine, che venne
troncato dall’avvento del fascismo9.
9
L. PALADIN, Fascismo (diritto costituzionale) in Enciclopedia del diritto,
XVI, Milano, Giuffré, 1967, p.889.
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Come segnala Allegretti
10
la continuità con lo Stato
liberale, che venne praticata in maniera più accentuata
nella fase “legalitaria” della dittatura degli anni 1922-25,
fu, innanzitutto, di “idea”, nel senso che, per il fascismo
come per lo Stato liberale, punto di partenza venne intesa
la sovranità della persona statale.
La costruzione del regime autoritario doveva avvenire
gradualmente, attraverso, cioè, una serie di tappe
successive caratterizzate dal progressivo rafforzamento
del potere personale del Capo del Governo, dalla costante
ma fatale subordinazione di tutti i poteri e gli organi dello
Stato alla volontà del partito dominante e dalla
sostanziale modificazione della cornice costituzionale
delineata dallo Statuto
11
.
10
U. ALLEGRETTI, Profilo di storia costituzionale italiana, Bologna, il
Mulino, 1989, pp.565-575.
11
C. GHISALBERTI, op. ult. cit., p.343.