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Introduzione
Nel mio percorso di studi, mi sono spesso trovata di fronte a scritti
su come dover sostenere donne vittime di violenza, gli approcci da utilizzare
e quelli assolutamente sconsigliati.
Ho provato a mettere in pratica, con le mie esperienze di volontariato
nei Centri Antiviolenza, tutte le nozioni che avevo acquisito con corsi e stu-
di. Ho visto da vicino donne maltrattate, bambini terrorizzati, mamme e figli
che non avevano da un giorno all’altro, dopo l’ennesimo episodio di violen-
za subito dal loro partner, un posto dove andare e che si adattavano, non
sempre con facilità, a vivere nei Centri Antiviolenza. Posti estranei alle loro
abitudini ma che costituivano dei veri e propri rifugi sicuri per queste donne.
Rifugi, dove stare nell’attesa di ricostruire e ricominciare una vita “norma-
le” fuori dalla violenza che le ha circondate per un periodo della loro vita.
La società e le associazioni di volontariato del settore, si adoperano
per aiutare chi è stato vittima di violenza spendendo così tante energie e
molto denaro pubblico e privato ma non affrontando, molto spesso il pro-
blema che ne è la causa: il comportamento violento di uomini maltrattanti.
Gli uomini autori di violenza, a seguito di una denuncia o atti gravi sono
giudicati e condannati. Ma una volta condannati? Qual è il loro percorso?
Affrontano una rieducazione per rientrare in società oppure durante la loro
condanna oppure sono lasciati a se stessi e con i loro pensieri? Oltre a spen-
dere energie per aiutare le donne maltrattare c’è un percorso che si può fare
anche con gli autori perché con o senza condanna non maltrattino più donne
e bambini?
«E’ acquisizione sempre più diffusa che la violenza di genere non può
essere rubricata semplicemente come un “problema delle donne”. Né si può
ridurre in maniera semplificata il fenomeno alla coppia oppositiva donne
vittime/uomini devianti. Essa richiama una serie di questioni che afferiscono
7
alla sfera privata e pubblica tra cui ineluttabilmente la questione maschile,
in primis in termini di responsabilità. La mia tesi, quindi, assumendo la pro-
spettiva gender oriented ha inteso puntare lo sguardo sulla variabile maschi-
le all’interno del fenomeno della violenza che si esercita a partire dalle rela-
zioni di intimità, senza perdere di vista la centralità femminile dell’intera
tematica. D’altro canto lo stesso autore è di norma persona che vive e agisce
in uno stato di disagio e sofferenza, non di rado a sua volta vittima di passa-
te violenze. Una condizione, quella che concerne gli autori della violenza
contro le donne, che deve essere affrontata con urgenza poiché se da un lato
il permanere della figura di un abusante costituisce una costante minaccia,
nei fatti, per le vittime e quindi un ostacolo per uscire definitivamente da
una condizione di violenza, dall’altro lasciare immutato uno stato di disagio
e di sofferenza, che si manifesta in comportamenti violenti, diviene una mi-
naccia al benessere non solo di singole/i e dei nuclei familiari ma dell’intera
società.
Nel 1991, a seguito di un inquietante fatto di cronaca che ha visto la
strage di quattordici studentesse dell’École Polytechnique di Montreal per
mano di Marc Lepine, un gruppo di uomini in Canada ha deciso che aveva-
no la responsabilità di esortare gli uomini a parlare di violenza contro le
donne a prendere le proprie iniziative e a muoversi in maniera attiva. Hanno
deciso che portare un nastro bianco sarebbe stato un simbolo dell'opposizio-
ne degli uomini alla violenza contro donne. Dopo solo sei settimane di pre-
parazione, più di centomila uomini in tutto il Canada hanno portato un na-
stro bianco.»* Ora più che mai, il silenzio ci rende complici.
In occasione del 25 Novembre 2006 (Giornata internazionale contro
la violenza alle donne) l’Associazione Artemisia di Firenze in collaborazio-
ne con gli enti locali e con altre associazioni attive a tutela dei diritti umani,
ha promosso per la prima volta in Italia la “Campagna Nazionale del fiocco
* tratto da BOZZOLI, A., MANCINI, M., MERELLI, M., RUGGERINI, M.G., Uomini abusanti ,
http://www.lenove.org/wp-content/uploads/2013/01/Lenove-Uomini-abusanti_20-dic012.pdf,
consultato il 3 Gennaio 2013.
8
bianco”
1
. In Italia stanno nascendo negli ultimi decenni delle associazioni,
dei programmi e dei Centri per affrontare la questione degli uomini violenti.
A volte questi programmi hanno una durata limitata causata o dalla
mancanza di fondi e finanziamenti o dalla mancanza di un’adeguata forma-
zione degli operatori.
Questo mio lavoro vuole rendere evidente in termini di paragone,
come è affrontato il fenomeno sociale della violenza maschile Italia e nel
territorio della Comunità di Nizza - Sophia Antipolis del territorio francese a
pochi chilometri dal confine con il nostro Paese.
In Italia ho agganciato contatti con diverse associazioni. Alcune non
hanno ancora abbastanza materiale da poter stilare una relazione sul lavoro
che stanno svolgendo, altre non hanno ancora trovato operatori con la giusta
formazione.
E’ proprio attraverso questa tesi che tenterò di farvi conoscere come
è affrontato il problema dai “nostri cugini francesi” con i quali spesso ci
sentiamo in competizione cominciando a porci delle domande: chi o che co-
sa fa scatenare la violenza? Che cosa si può fare per prevenire la violenza tra
le mura domestiche? Esistono dei programmi di prevenzione? Per gli uomi-
ni maltrattanti e violenti, dopo essere stati giudicati in sede processuale, c’è
un percorso di rieducazione e presa di coscienza che possono seguire? E’
meglio un percorso all’interno di gruppo oppure un percorso individuale?
Nel primo capitolo analizzerò l’importante ruolo che ha la famiglia
nella vita di ogni individuo, l’importanza di certi atteggiamenti e comporta-
menti di una struttura famigliare problematica, all’interno della quale i le-
gami di affetto e reciprocità sono venuti a mancare, creando un vuoto, una
carenza nella personalità del soggetto in crescita.
1
http://www.fioccobianco.it/
9
Il secondo capitolo mirerà a percorrere quella fase di vita un po’ par-
ticolare e irta di problemi qual è l’adolescenza che era impostata su modelli
patriarcali all’insegna della virilità come unica regola per essere rispettati.
Nel terzo capitolo includo in questo percorso l’importanza del ruolo
del genitore, in questo caso del padre, ruolo abbastanza impegnativo e diffi-
coltoso da affrontare, partendo dal presupposto che ogni genitore prima di
educare, ha bisogno egli stesso di essere educato.
Nel quarto e quinto capitolo vorrei far notare quanto influisca il pen-
siero delle persone partendo dal fatto che genere maschile e femminile siano
molto diversi. Fin dall’infanzia, infatti, stereotipi socialmente condivisi,
fanno sì che bambini e bambine siano educati in modo diverso, offrendo lo-
ro differenti modelli di pensiero dai giocattoli, dall’abbigliamento, ecc...
Il sesto e il settimo capitolo evidenziano come il trattamento di grup-
po sia un espediente per la responsabilizzazione dell’uomo violento, il quale
in un rapporto uno ad uno con gli operatori l’uomo non riesce ad avere un
termine di confronto con gli altri autori violenti e questo rende più facile in-
nescare una serie di giustificazioni chiamate tecniche di neutralizzazione,
secondo cui, l’autore violento non è mai il solo ad essere colpevolizzato per
ciò che ha fatto.
Nel nono capitolo ho descritto come in Francia viene messo in atto il
trattamento degli autori violenti e le diverse tecniche che sono utilizzate
Il decimo capitolo ha come obiettivo descrivere, in base ai dati rac-
colti, il trattamento degli uomini in alcune associazioni italiane.
Nell’undicesimo e dodicesimo capitolo sono raccolti la maggior par-
te dei miei sforzi. Recandomi personalmente alla Prefettura di Nizza e in
un’associazione di Antibes, grazioso comune tra Cannes e Nizza, ho potuto
raccogliere dati, informazioni d’inchieste, bilanci e rapporti utili su come
viene affrontato da loro il fenomeno degli uomini violenti, il numero di au-
tori di cui un gruppo è composto e la durata della loro presa in carico.
10
L’obiettivo del trattamento di uomini violenti e maltrattanti è quello
di far prendere coscienza agli autori di violenze, che le vittime sono dei
soggetti, sono delle persone che hanno un’identità. Gli uomini maltrattanti
definiscono le donne provocatrici per trovare una giustificazione al loro atto
violento ma la colpa non è delle donne che hanno fatto in modo che si sca-
tenasse la violenza. Il problema è la violenza, è chi, perché e con quali mez-
zi la violenza si scatena: dagli spintoni agli schiaffi, ai pugni, alle armi, dalle
lesioni fino all’omicidio
2
.
Il documento finale che ne è scaturito è un testo che si vuole rivolge-
re sia ai soggetti istituzionali sia a quelli del privato sociale per far conosce-
re quanto già si sta realizzando in Italia e a livello internazionale in tema di
violenza di genere sul versante dell’intervento verso gli uomini maltrattanti.
Un quadro informativo che può contribuire – mi auguro – a sollecitare ini-
ziative di riflessione, di formazione, d’intervento per il trattamento degli of-
fender a livello nazionale e locale, così da arricchire, ampliare, mettere a si-
stema le azioni di contrasto alla violenza già delineate nel Piano nazionale
contro la violenza sulle donne e lo Stalking
3
, varato dal Governo italiano nel
2010.
2
Baldry, A.C., Dai maltrattamenti all'omicidio. La valutazione del rischio di recidiva e dell'uxorici-
dio, Franco Angeli , Milano, 2011.
3
Atti persecutori’, (minacce, molestie) caratterizzate da azioni dirette e indirette come telefonate con-
tinue, sms, mail, appostamenti, inseguimenti, inviare regali indesiderati. Art. 612 c.p., Art. 612 bis
c.p.
11
1. La violenza e le sue radici: le origini.
Nel corso della storia, e soprattutto nell’ultimo secolo, si è cercato di
dare una definizione che possa racchiudere il giusto valore da attribuire a
questa parola. Definire il termine «violenza» è difficile poiché bisogna tener
conto della sua natura, le ripercussioni su chi la subisce e sulla società inte-
ra. Esistono dei luoghi comuni che rendono difficile qualsiasi definizione
assoluta e condivisa di questo termine. La definizione che ne fornisce
l’antropologa francese Françoise Héritie
4
, nel 1997, sembra essere, a tal
proposito un buon punto di partenza.
Chiameremo violenza ogni costrizione di natura
fisica o psichica, che ne porti con sé il terrore, la fuga,
la disgrazia, la sofferenza o la morte di un essere ani-
mato; o ancora, qualunque atto intrusivo che ha come
effetto volontario o involontario l’espropriazione
dell’altro, il danno, o la distruzione di oggetti inanima-
ti.
Si tratta di una definizione che cerca di mostrare la violenza nella
sua reale complessità e differenziazione di espressioni: come costrizione
non solo fisica ma anche psichica; come atto intrusivo.
Sempre nell’ambito dell’analisi del fenomeno in generale, molta im-
portanza riveste assunzione, ormai quasi da tutti condivisa, secondo cui non
esistono cause genetiche, biologicamente determinate e quindi inevitabili,
della violenza umana; quest’ultima non ha origine genetica, istintuale, ma
“la si acquisisce con l’educazione” ossia con la storia della nostra vita.
4
Héritier F., (a cura di), Sulla violenza, Meltemi, Roma, 1997.
12
Si scrive molto più delle vittime che dei carnefici; esistono quindi, e
per fortuna, molti libri, centri, associazioni e psicoterapeuti che si occupano
delle persone violentate, ma pochi che pensino agli stupratori come a perso-
ne degne di attenzione e di cura.
Gli stupratori interessano, invece, e tanto, i mezzi di comunicazione
e, nel corso del tempo, mi sono resa conto della disonestà intellettuale di
buona parte della stampa e della televisione su questo argomento, che risve-
glia nell’opinione pubblica una curiosità morbosa orientandola all’odio per i
“mostri”
5
. L’identità maschile che conosciamo è ben più recente, legata alla
società e alla storia.
Nella scala evolutiva, giunti ai mammiferi, le femmine evolvono
verso una cura e un’educazione dei piccoli sempre più complessa; i maschi,
invece, si limitano a competere fra loro per l’accoppiamento e la protezione
del territorio
6
. Nella donna l’identità femminile e quella materna hanno un
rapporto dialettico e in buona parte armonioso. Invece, nell’uomo il padre e
il maschio (animale) sono due polarità che stanno in equilibrio precario, una
sopra l’altra.
Il padre è prodotto dall’evoluzione recente, culturale più che zoolo-
gica. Il suo comportamento, più che essere il risultato di certi istinti, corri-
sponde a un loro controllo. L’identità maschile è costituita da due poli non
integrati reciprocamente né posti sullo stesso piano: il padre e il maschio
competitivo (che possiamo anche chiamare maschio animale prepaterno).
Il padre è, in rapporto all’evoluzione, una costruzione recente, so-
stanzialmente antistintuale, non necessaria né stabile. Nel mondo post mo-
derno, con lo sgretolarsi della famiglia e dei suoi valori tradizionali,
5
Valcarenghi, M., Ho paura di me, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2007, pp. 115-116.
6
Zoja, L., Centauri. Mito e violenza maschile, Editori Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 4-6.
13
l’equilibrio si altera e quando la convivenza civile si spezza, riemerge diret-
tamente un maschio animale
7
.
La storia ci ha insegnato che è la disumanizzazione dell’altro la qua-
le sta alle radici di tutta la violenza umana, è una disumanizzazione che fa
parte della differenziazione dei ruoli sessuali visti nelle culture patriarcali.
L’innamoramento del maschio per la violenza è confrontato rispetto
alla vulnerabile identità sessuale dell’uomo e al conseguente bisogno di
considerare le donne come “oggetti”, con tutte le conseguenze violente che
ciò comporta. Rendendo la madre “meno che umana”, i maschi diventano
uomini a spese dell’”altro”: questo tipo di sistema culturale ha come conse-
guenza sfruttamento, abuso, razzismo e violenza.
Oggi si parla molto di violenza. Se ne parla perché è viva in modo
visibile, ma anche in maniera camuffata tale da farla apparire sotto mentite
spoglie; essa devasta talmente tanto da caratterizzare l’epoca in cui viviamo.
Diviene un problema più drammatico e inquietante perché è sempre più pre-
sente anche nei luoghi dove non ci aspetteremo di incontrarlo, dove è con-
sumata per mano di persone assolutamente insospettabili per la loro posi-
zione sociale e culturale.
C’è violenza agita a livello individuale e a livello collettivo, violenza
di pochi e violenza di molti, violenza di gruppi che detengono il potere ai
danni di coloro che lo subiscono, violenza di giovani e violenza di adulti, e
tutto ciò avviene sia a livello politico-istituzionale sia a livello etico - socia-
le attraverso l’intera società globale in modo transnazionale, in alto e in bas-
so. Anche se pensiamo di non essere succubi tutti in qualche modo, risen-
tiamo dei suoi effetti: nessuno può dirsi del tutto immune.
7
Zoja, L., Centauri. Mito e violenza maschile, Editori Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 6.
14
E’ un problema antico ma anche moderno, che oggi risente della di-
somogeneità della percezione di sé del tempo presente che ha fatto registrare
una frattura con ogni tipo di passato.
Esiste una regola fondante, una forma archetipica della violenza?
C’è una componente biologica? Esiste un gene responsabile della violenza?
Sebbene sia stato individuato nel cervello un centro preposto a que-
sto tipo di azioni e reazioni, ciò non è sufficiente per comprendere adegua-
tamente matrici e significati di determinate condotte.
Una cosa è certa: la violenza non è una res, non ha una realtà concre-
ta come una cosa, è una forma simbolico-relazionale (che in parte si appog-
gia sul sentimento come processo filogenetico primario ed in parte si ap-
prende) che lascia effetti concreti sul corpo e sulla psiche dell’individuo che
la subisce; il corpo sul quale si riversa assume il carattere di luogo antropo-
logico
8
.
E’ un linguaggio che testimonia un disagio esistenziale derivato dal
disequilibrio delle componenti psico-fisiche individuali tra loro (per incapa-
cità personali o per strumentalizzazioni da parte di altri) e dal disequilibrio
tra queste e il mondo esterno indicate nella forma di norme biologiche e di
norme culturali. Tra le norme culturali e le norme biologiche esiste lo stesso
rapporto che c’è tra l’intelletto e sentimento, e se il primo rappresenta la
modalità operativa dell’adattamento al mondo esterno, il sentimento offre a
questo la motivazione all’azione e la sua continuità biologica nell’ambito
culturale. Non possiamo individuare un’origine biologica specifica della vi-
olenza, ma possiamo indicare alcuni ingredienti particolari della sua genesi
tra i quali i sentimenti di paura e odio, l’importanza all’obbedienza, la per-
cezione dell’altro come di un essere non del tutto umano, e segnalare gli ef-
8
Tortolici, C. B., Violenza e dintorni, Armando Editore, Roma, 2005, pp. 9-11
15
fetti che ne conseguono per indicare che tipo di accordo (o disaccordo) si at-
tua tra le norme biologiche e le norme culturali.
Tra sentimento e intelletto c’è un continuum e un equilibrio che per-
mane fin tanto che l’ambito biologico e l’ambito culturale non si sovrap-
pongono, ma quando viene a mancare questa condizione le norme biologi-
che e quelle culturali entrano in conflitto tra loro e procurano dissidio e di-
sagio tra le persone. In questo caso l’intelletto, che è conduttore della norma
culturale, non è in sintonia con il sentimento ma è ad esso opposto e non ri-
conosce la norma naturale che questo rappresenta. C’è conflitto tra le norme
e, a complicare la questione, c’è che esiste anche un conflitto all’interno del-
le norme stesse.
Oggi la violenza, che imperversa sempre di più, che anima le guerre
e distrugge tutto ciò che incontra, rappresenta il disequilibrio tra le norme
culturali e quelle naturali, ma questo può essere superato recuperando il sen-
so umanitario che accomuna gli uomini e che consente la relazione fra op-
poste fazioni.
Quasi quotidianamente leggiamo sui giornali o sentiamo dai servizi
televisivi e dai telegiornali, notizie di persone che subiscono in vario modo,
fisicamente e/o psicologicamente, forme di violenza: violenza collettiva nei
luoghi di guerra con uccisioni di massa, contro nemici dichiarati (siano essi
civili, donne o bambini) e violenza individuale, mossa contro persone che
subiscono sequestri e abusi sessuali, uccisioni di donne per motivi personali
e per cosiddette applicazioni di regole divine (come nei casi delle uccisioni
per lapidazione), violenze perpetrate su persone e gruppi di persone che, per
un motivo o un altro, presentano diversità non accettate.
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1.1 Il Mito
All’orizzonte della nostra storia troviamo la Grecia. Nella sua società
e nel suo mito rimangono le radici del nostro pensare. La sua è la prima, ve-
ra civiltà occidentale: le sue arti sono così perfette che, più che un punto di
partenza, ci paiono un punto d’arrivo.
La sua famiglia è già la famiglia patriarcale dell’Occidente.
L’autorevolezza del padre raggiunge il suo vertice, luminoso ma breve.
L’opposto polo – il maschio animale e precivile – sembra superato. Invece è
appena represso. Possiamo risalire fino a Omero: poi lo sfondo storico è
piatto. Alle sue spalle non c’è scrittura, solo mito. Nel mito, gli artigli della
bestia sono ancora vicinissimi e minacciosi. Il maschio senza legge è ancora
lì, in un attimo può far crollare le apparenti fortezze della storia.
A questo ci rimandano i racconti dei centauri
9
.
La parola greca kentauros significa «colui che uccide – o trafigge
(kentèin) – il toro (tàuros)». A volte, viene anche riferita alla parola latina
centuria (gruppo di cento). È una conferma degli aspetti minacciosi sottinte-
si dal mito: etimologicamente, i centauri simboleggiano una regressione
della mascolinità al branco animale e alla forza fisica data dal numero.
I centauri vivevano in Tessaglia, estremo limite settentrionale della
Grecia, dove il mito cercava di esiliare – nello spazio – quel mondo senza
legge così vicino nel tempo. Erano raffigurati come esseri umani dalla testa
alla cintura; qui si innestava un corpo di cavallo, privo a sua volta di testa e
collo. Questa rappresentazione è sorprendentemente simile a quella dei
Gandharvas vedici
10
, per cui si è parlato di figura mitologica indoeuropea:
11
9
Zoja, L., Centauri. Mito e violenza maschile, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 7.
10
Nella mitologia induista, i Gandharva sono spiriti maschili della natura. Anticamente venivano
considerati spiriti maligni, mentre in seguito le loro caratteristiche sono divenute più indulgenti. Al-
cuni hanno aspetto parzialmente animalesco, selvaggio, peloso, generalmente di uccello o di cavallo.
Il termine sanscrito vedico veda indica il "sapere", la "conoscenza", la "saggezza".