5
CAPITOLO I
DALLA PENA CORPORALE ALLA PENA RIABILITATIVA
Il carattere delle pene è collegato e dipendente dai valori culturali dello Stato che
le emana.
Ciò perché quello che è rilevante per la decisione da intraprendere non è il reato
in sé, ma piuttosto come la problematica della criminalità viene percepita e
affrontata dagli organi competenti.
1
“Quando il sistema penale affronta tale problema, lo fa in maniera fortemente
mediata da considerazioni indipendenti dal fenomeno, quali convenzioni
culturali, valutazioni di carattere economico, dinamiche istituzionali e ragioni di
politica generale”
2
La pena nasce sicuramente come fenomeno giuridico, ma ciò non rifiuta l’idea
che essa si basi su modelli di conoscenza e su elementi emotivi più complessi, e
si unisca alle basi dei valori sociali per la sua legittimazione e per il suo operato
concreto.
3
Proprio per questo carattere strettamente collegato all’evolversi della società e
alla mutazione di valori e principi, la pena e la funzione di essa, incluso il
trattamento del reo, sono andate modificandosi nel corso dei secoli.
1
A tal proposito si veda,T. BURACCHI, Origine ed evoluzione del carcere moderno,in
www.altrodiritto.unifi.it, Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità.
2
D. GARLAND,Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale, 2006, pag. 59
3
A tal proposito si veda, T. BURACCHI, Origine ed evoluzione del carcere moderno, op.cit.
6
1.1 Dall’antichità all’Illuminismo
L’antichità vide, come pena maggiormente usata per i delitti, quella capitale,
accompagnata da sevizie e crudeltà al fine di rendere ancora più prolungata
l’agonia e dolorosa la morte.
Anche nel periodo medievale la pena corporale sembrò l’unica in grado di
ottenere una certa difesa contro la criminalità: la flagellazione, la mutilazione e
la pena di morte erano le uniche pene applicate.
Vigeva la regola del taglione, riassumibile nell’assunto “occhio per occhio,
dente per dente”, per la quale al colpevole veniva inflitta una pena proporzionale
al male provocato alla vittima, così da soddisfare la richiesta di giustizia.
Il fatto criminoso veniva visto come aspetto privato ed in sostanza, dunque, la
giustizia medievale vedeva la sua applicazione concreta nella vendetta personale.
Fu con l’avvento degli stati assoluti, XV-XVII secolo, che la giustizia penale
divenne aspetto del settore pubblico.
L’esecuzione della pena diventò uno spettacolo teatrale, un mezzo utile per
mostrare ai sudditi l’autorità statale e la pena, che rimase quella corporale,
veniva intensificata per numero e per malvagità,
Il carcere non era ancora visto come luogo ove espiare la pena ma solo quale
mezzo per sorvegliare il reo ed avere la certezza che lo stesso si presentasse al
processo e al successivo verdetto.
4
4
A tal proposito si veda, G. PONTI, Compendio di criminologia, Cortina Editore, 1999
7
Abuso della pena capitale, crudeltà delle pene corporali, assenza di certezza del
diritto e mancanza della possibilità di difesa, furono alcuni degli aspetti
caratterizzanti il periodo assolutistico. Aspetti che però nel secolo XVIII
vennero messi in discussione dalle istanze riformatrici di intellettuali e borghesi.
Nacque in quel periodo in Francia, da filosofi quali Voltaire, Diderot e
Montesquieu, per poi diffondersi nel resto d’Europa, la corrente di pensiero
definita Illuminismo.
5
“Il movimento illuminista si presentò in quel contesto storico come un’ideologia
rivoluzionaria che contro l’arbitrio e la corruzione propose nuovi valori
alternativi: la ragione come sostituto di una tradizione sottomessa agli interessi
conservatori delle classi potenti, la libertà per tutti i cittadini, non più definiti
sudditi, la loro uguaglianza come fatto e legge naturale a fronte dei privilegi di
casta.”
6
Particolarmente significativo fu il contributo dell’illuminista lombardo Cesare
Beccaria che nella sua opera “Dei delitti e delle pene”, datata 1764, criticava
fortemente qualsiasi pratica disumana perché non garantiva l’emergere della
verità, giacchè davanti al dolore fisico chiunque sarebbe stato disposto a
confessare un delitto.
Secondo l’autore, una pena corporale assai dolorosa, ma limitata nel tempo,
poteva essere dimenticata e il condannato, una volta conclusa, poteva godere dei
frutti del suo reato, cosa che non sarebbe potuta accadere se la pena si fosse
protratta nel tempo.
5
A tal proposito si veda, G. PONTI, Compendio di criminologia, op.cit.
6
Ibidem, pag.79
8
Tra le tesi che egli avanzò contro la disumanità delle pene corporali, vi fu il fatto
che lo Stato volendo punire un crimine, ne avrebbe commesso a sua volta un
altro; mentre lo Stato che altro non sarebbe che la somma dei diritti dei cittadini,
non poteva avere tale potere, infatti nessuna persona, asseriva l’autore, darebbe il
permesso ad altri di ucciderla.
Beccaria auspicava l’abbandono di qualsiasi pena disumana, e dunque anche
della pena capitale, a favore della detenzione dei criminali in apposite strutture
carcerarie.
7
Il passaggio dal supplizio al carcere fu analizzato in modo magistrale nell’opera
di Foucault “Sorvegliare e punire” (1975).
Secondo l’autore questa evoluzione si ebbe per un complesso di cause e
concomitanze, riassumibili in tre momenti.
Innanzitutto nacque da un’esigenza interna del potere che pose in essere “una
nuova strategia per il riassetto del potere di punire, secondo modalità che lo
rendessero più regolare, più efficace, più costante, ovvero che ne aumentasse gli
effetti, diminuendo il costo economico e il costo politico”.
8
Fu determinato, poi, dalla tensione morale dei riformatori del tempo, dai tecnici
del diritto dell’epoca, per i quali “improvvisamente il supplizio divenne
intollerabile. Rivoltante quando si guardava dal lato del principe, la tirannia,
l’eccesso, la sete di vendetta, il crudele piacere di punire. Vergognoso anche
quando si guardava dal lato della vittima per la quale questa necessità di castigo
7
A tal proposito si veda, C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Einaudi, 1997
8
M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, Einaudi, 1975, pag. 88
9
senza supplizio veniva da principio formulata come un grido del cuore o della
natura indignata”.
9
Le esigenze del nuovo potere del tempo e la tensione morale dei riformatori,
infine, ebbero modo di svilupparsi in concreto per una concomitanza: quella fra
il maturare di queste tendenze ed un calo quantitativo e qualitativo della
criminalità, riscontrabile, stando a Foucault, sin dalla fine del XVII secolo, per
cui si ebbe prima l’addolcirsi del crimine e conseguenzialmente quella della
pena.
La pena , da episodica e smisurata che era, divenne regolare e ineluttabile.
Non si volle più punire un singolo crimine con l’eccesso e l’esemplarità del
supplizio, bensì si ambiva a punire tutti i crimini commessi in una società data e
a punirli con pene conformi a ragione.
Ogni pena che non derivava da assoluta necessità era tirannica e la pena
necessaria era quella che voleva scoraggiare il delitto con il minimo di
sofferenza per il condannato.
Ed ecco che il carcere, da luogo di costrizione del reo in attesa del supplizio,
divenne esso stesso una pena.
Era perfettamente adeguato a questo nuovo ruolo in quanto la permanenza del
reo nel carcere poteva essere fissata in un tempo ritenuto proporzionale alla
gravità del delitto.
Tutto, per lo spirito del tempo, doveva essere calcolato secondo ragione.
9
Idibem, pag. 79
10
La pena detentiva consisteva dunque nel privare il reo di una quota del suo
tempo di vita commisurato alla colpa.
10
10
A tal proposito si veda, Leonardo GRASSI, Riflessioni sulla funzione della pena
11
1.2 Dalla Scuola classica alla Scuola positiva
In Italia in pieno Illuminismo, nacque la Scuola classica che per quasi un secolo
caratterizzò il pensiero penalistico in tutta l’Europa.
Essa era fondata su una concezione retributiva del sistema sanzionatorio e pose
l’accento sull’evento-reato, ossia sul fatto violativo dell’ordine sociale.
L’autore-reo veniva concepito come una persona dotata di libero arbitrio che,
rompendo il contratto sociale, liberalmente sceglieva di delinquere.
Dunque, al fatto reato corrispondeva la sanzione della pena, afflittiva,
determinata, inderogabile e proporzionata alla gravità del reato.
In questo modo, nell’intenzione dei suoi fautori, la funzione della sanzione era
anche quella di conseguire un effetto deterrente sul comportamento criminale
futuro, orientando l’atteggiamento dei consociati.
Questo sistema penale avrebbe esercitato un’azione di prevenzione, sia generale
che speciale, in quanto gli individui, messi di fronte a codici scritti, essendo in
grado di scegliere liberamente, non avrebbero più compiuto azioni criminose.
Secondo questa scuola, retribuzione significava dunque colpire il reo nei suoi
diritti tanto quanto il delitto da lui commesso aveva colpito i diritti altrui.
Ma la concezione del reato quale astratta entità di diritto, tipica della Scuola
Classica, incominciò a essere messa in crisi verso la metà del XIX secolo, dai
primi studi statistici impiegati per l’approccio scientifico ai fenomeni criminosi.
Questi studi analizzarono non solo il delitto, ma anche l’ambiente sociale
all’interno del quale l’individuo si muoveva.
12
Il reato venne così ad assumere anche un significato correlato alla società e non
era più visto solamente come espressione della colpevole volontà del singolo
individuo.
Fu per la prima volta studiata l’incidenza dei reati in relazione al sesso,alla
razza, all’età, al grado di istruzione, alle professioni, alle condizioni economiche,
al ceto.
Fu rilevata una relativa uniformità nel tempo, del totale dei fatti delittuosi e la
costanza della loro diversa distribuzione fra le varie classi della popolazione:
questo consentì di aprire la strada per la comprensione del delitto anche come
fenomeno sociale.
In sostanza, con la presenza di costanti e di regolarità statistiche dei delitti, si
affermò anche una loro prevedibilità, seppur a livello di grandi numeri e solo
nell’ambito di limitati spazi temporali.
Si aprì, così, la strada ad una percezione del crimine di tipo deterministico, o per
lo meno pluricausata, assente in precedenza: se, cioè, era possibile stabilire in
anticipo il numero di soggetti che avrebbero commesso un reato; se vi era la
possibilità di tratteggiare statisticamente le caratteristiche sociali di questi
soggetti; se, infine, le condizioni dell’ambiente sociale influenzavano il crimine,
ben si poteva pensare che la condotta delittuosa fosse determinata da altri fattori,
oltre all’immoralità dei rei, come invece era stato asserito dall’ideologia
illuministico-liberale.
13
Da quel momento il delitto cominciò ad essere inteso quale fatto sociale:
fenomeno generale di ogni società, una sua parte integrante e non più
occasionale deviazione di certi individui.
Si riteneva che erano comprese nella società delle cause per le quali le azioni dei
delinquenti venivano ad essere necessariamente e fatalmente condizionate in
senso delittuoso.
Mentre si ammetteva ancora il principio del libero arbitrio di alcuni delinquenti,
il fenomeno delittuoso nel suo complesso, doveva essere ritenuto la diretta
conseguenza di fattori legati all’ambiente, che trascendevano dall’individuo e
che erano necessariamente provocati dalle caratteristiche della società.
Con il primo approccio sociologico della criminologia, nacque la visione
deterministica della condotta criminosa e si passò da una percezione liberale del
delitto ad una percezione positivistica, che fu l’ideologia tipica di tutto il
pensiero scientifico del secolo XIX.
La concezione deterministica consisteva nel convincimento che i fattori
determinanti la condotta criminosa dovevano essere ricercati prevalentemente
nella società.
Ciò comportava in definitiva, l’assenza di responsabilità morale dell’individuo,
governato com’era da leggi e fattori che prescindevano dalla sua volontà.
Veniva a formarsi così un determinismo sociale, che si contrapponeva con il
determinismo biologico di marca lombrosiana.
14
Nello stesso secolo XIX, che vide l’inizio del filone sociologico della
criminologia, si colloca Cesare Lombroso
11
,che può considerarsi invece il
precursore del nuovo indirizzo individualistico della criminologia, che
concentrava l’attenzione sulla personalità del delinquente.
A lui va l’indiscusso merito di aver stimolato un’ ingente massa di indagini sui
problemi della criminalità; di aver dato avvio ad un indirizzo organico e
sistematico nello studio della delinquenza e infine di aver per primo impiegato i
metodi della ricerca biologica per lo studio del singolo autore di reato.
Secondo Lombroso, sulla base del principio deterministico biologico, il delitto
rappresentava un evento strettamente collegato ad un carattere patologico
dell’individuo,un evento conseguenziale ad una specifica caratteristica degli
stessi.
Su questo filone di pensiero si formò la teoria del delinquente nato, secondo la
quale un’alta percentuale di criminali gravi e persistenti possiederebbero
predisposizioni congenite esistenti fin dalla nascita che, indipendentemente dai
fattori esterni e ambientali, li renderebbe antisociali.
Sempre di matrice lombrosiana fu la teoria dell’atavismo che tentava di spiegare
la condotta criminosa come una forma di regressione o fissazione da parte del
delinquente a livelli primordiali dello sviluppo dell’uomo; l’uomo era visto
come un selvaggio che sulla spinta dei propri istinti commetteva reati senza
inibizioni.
11
Cesare Lomborso (1835-1909) è stato antropologo, criminologo e giurista italiano. Ha fondato
“L’archivio di psichiatria”. E’ autore , tra gli altri, de “L’uomo delinquente”.
15
Nonostante l’ampia importanza riservata da Lombroso ai fattori biologici del
delinquente, egli riconobbe anche l’esistenza di un gran numero di delinquenti
occasionali.
Essi non erano diversi dagli uomini normali, ma venivano condizionati nel loro
agire, dall’ambiente e dalle circostanze.
La rilevanza delle componenti ambientali che Lombroso trascurava nella prima
fase dei suoi studi trovò maggior spazio successivamente, in particolar modo fra
i suoi successori.
12
Le teorie lombrosiane sul delitto costituirono la base di un nuovo orientamento
giuridico che si ispirava al pensiero positivistico dominante nelle scienze
naturali e sociali, in contrapposizione con l’ideologia che informava la Scuola
Classica del diritto penale.
I penalisti Enrico Ferri
13
e Raffaele Garofalo
14
, unitamente a Lombroso, furono i
teorici e divulgatori dei principi di quella che si sarebbe chiamata la Scuola
Positiva di diritto penale.
Secondo tale scuola, il delinquente doveva essere visto come persona
“anormale” ed il delitto era il risultato del combinarsi di un triplice ordine di
fattori antropologici, psichici e sociali.
La delinquenza non doveva esser vista come la conseguenza di scelte individuali
ma condizionata direttamente da questi fattori.
12
A tal proposito si veda, G. PONTI, Compendio di criminologia, op. cit. pagg. 92-95
13
Enrico Ferri (1856-1929)è stato avvocato e insegnante di Diritto penale in diversi atenei italiani.
Militante nel parito socialista, direttore per alcuni anni del giornale “Avanti!”. Autore di diverse opere
tra cui “I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale”
14
Raffaele Garofano (1851-1934)è stato magistrato,presidente di Cassazione, senatore nel 1909. Autore
di varie opere tra cui “Criminologia” e “I delinquenti abituali”