7
INTRODUZIONE
Scopo di questo lavoro è prendere in esame l’andamento dei flussi di commercio
con l’estero delle Marche durante gli anni ’50, ’60 e ’70 del Novecento.
Dalle ricerche svolte nell’ambito della letteratura sull’economia regionale, non ri-
sultano esistere lavori che cristallizzino in un’unica opera lo studio di questo fenome-
no per tutto il dopoguerra.
L’indagine qui presentata è articolata in tre capitoli, ciascuno dedicato ad un de-
cennio: dopo un breve esame dello stato economico-occupazionale delle Marche e
brevi richiami alla situazione economica dell’Italia ed internazionale del periodo, si
passa ad un’analisi dei flussi di esportazione ed importazione della Regione e ad un
confronto, quando possibile, con i rispettivi dati di Italia e Centro Italia.
E’ bene sin da ora chiarire quali sono i limiti di questo lavoro, legati ai dati usati
per affrontare l’analisi.
In primis, va detto che un flusso continuo di dati sull’import-export marchigiano
ha inizio a partire dagli anni 1963-1966 con il dattiloscritto dell’ISSEM “Un’analisi
delle esportazioni e delle importazioni delle Marche – 1963-1966”, pubblicato nel
1968, e, sempre nel 1968, con la pubblicazione annuale da parte del Centro studi e
Ricerche Economico Sociali dell’Unione Regionale delle Camere di Commercio In-
dustria, Artigianato e Agricoltura delle Marche della “Relazione sulla Situazione
8
Economica delle Marche nel 1967”, contenente un capitolo dedicato al commercio
estero della Regione.
Non sono disponibili inoltre, salvo in rari casi, dati sul movimento quantitativo dei
traffici commerciali internazionali ma solo dati concernenti il movimento valutario
generato da questi scambi. Tali movimenti valutari sono poi espressi in lire correnti e
dunque suscettibili all’effetto dilatatorio dell’inflazione, particolarmente elevata spe-
cie negli anni ’70.
Relativamente ai dati sugli anni ’50, c’è da dire che questi sono scarsi, frammenta-
ri e provenienti da fonti eterogenee, in gran parte relativi solo agli ultimi anni del de-
cennio e per i quali, spesso, non vengono nemmeno specificate le direzioni dei flussi
(talvolta nemmeno se le merci sono dirette all’estero o in altre regioni italiane) ma so-
lo l’entità dei movimenti valutari o dei flussi quantitativi diretti fuori dalla Regione.
Altre volte ancora, invece, non viene nemmeno fornito direttamente alcun dato sul
commercio estero ma solo la percentuale di produzione, nazionale o regionale, diretta
all’estero. I valori sugli anni ’50 sono dunque difficilmente comparabili con quelli
degli altri decenni.
I dati sugli anni ’60 e ’70, invece, poiché provenienti tutti dalla stessa fonte
(l’Unione Italiana delle Camere di Commercio) sono accomunati dagli stessi limiti.
L’Unioncamere avverte che le rilevazioni da essa stessa effettuate non coprono la
globalità delle operazioni realmente avvenute. I valori riguardanti le importazioni e le
esportazioni “si riferiscono agli incassi e pagamenti soggetti a formalità valutarie e
non corrispondono esattamente al movimento di entrata e uscita delle merci nel e dal
9
territorio della Regione” poiché “colgono le transazioni commerciali nel momento del
trasferimento delle valute”. Tali transazioni risultano, quindi, “sfasate di un periodo
più o meno lungo a seconda del termine di pagamento rispetto al momento di arrivo o
spedizione delle merci”. I dati, inoltre, non sono comprensivi dei “valori delle merci
che non hanno dato luogo a movimento di valuta (compensazione privata, compensa-
zione globale, franco valuta),” nonché “i valori delle merci importate per ‘lavorazione
per conto di committenti esteri’ e la corrispondente riesportazione.” Non sono, infine,
“comprese le importazioni e le esportazioni di valore inferiore a 500.000 lire, non es-
sendo queste soggette a formalità valutarie.” “Altro aspetto da tenere presente”, av-
verte l’Unioncamere, “è che i dati delle esportazioni non si riferiscono alla provincia
di produzione delle merci inviate all’estero, ma alla provincia nella quale avviene
l’operazione commerciale, analogamente per le importazioni.” Si tratta, quindi, di li-
miti notevoli, che si frappongono alla conoscenza esatta dell’ammontare esatto delle
transazioni da e per l’estero. Tuttavia, alla luce di questo, tali dati “possono essere di
grande utilità per una valutazione dell’interscambio della Regione con il resto del
mondo”. Tali limiti, inoltre, “vengono in buona misura a ridursi allorché si stabilisco-
no rapporti temporali, allorché, cioè, si ha riguardo all’andamento del fenomeno visto
in chiave storica” [Centro Studi e Ricerche, 1970, 93-94].
C’è da aggiungere, inoltre, che i valori originari per gli anni 1967, 1968, 1969 e
1970 erano espressi i Dollari USA ed ho provveduto a convertirli in Lire italiane sulla
base dei tassi di cambio calcolati dall’Ufficio Italiano Cambi, disponibili presso il sito
web http://www.uif.bancaditalia.it.
10
Sulla base dei dati disponibili, perciò, l’esame dei traffici commerciali si concen-
tra, per gli anni ’50, principalmente sugli ultimi anni del decennio. Lo studio degli
anni ’60 e ’70 è invece articolato, rispettivamente, in due sottoperiodi: 1963-1966 e
1967-1969 per gli anni ’60; 1970-1974 e 1975-1979 per i ’70.
Le analisi di ciascun decennio sono coadiuvate, a fine di ciascun capitolo, da una
completa rassegna di tabelle relative ai dati sul commercio estero regionale per gli
anni in questa sede considerati.
Nelle conclusioni, qualche osservazione sull’andamento degli scambi commerciali
durante tutto il trentennio, letti in un più ampio quadro di sviluppo economico della
Regione.
L’Appendice, infine, è suddivisa in due parti. La prima riassume le tappe che han-
no portato alla nascita della cosiddetta “Commissione Boldrini”, commissione di eco-
nomisti creata, tra fine anni ’50 e inizi ’60, dal Comitato regionale degli Amministra-
tori degli Enti Locali delle Marche, per procedere a uno studio dettagliato della situa-
zione economico-sociale delle Marche e delineare le linee guida per un efficace e ra-
pido sviluppo. Tra i membri di questa commissione, spiccano i nomi più illustri
dell’intellettualità marchigiana dell’epoca in campo economico (fra i quali
l’economista Giorgio Fuà) e di personaggi che avrebbero annunciato brillanti carriere
in ambito accademico (il professor Giacomo Becattini). Molto probabilmente, la
Commissione ha funto da “incubatrice” per la nascita di quell’approccio di studio alle
peculiarità di quella che sarà poi ribattezzata “Terza Italia” o “NEC”. Nella seconda
11
parte una sintesi storica e qualche mia osservazione sulla “storia della Terza Italia” e
sulla tesi che le Marche non siano mai state una regione arretrata.
12
Capitolo I
ANNI CINQUANTA
I.1. LE MARCHE PRIMA DEL “BOOM ECONOMICO” ITALIANO.
Nei primi anni ’50, una volta terminata la ricostruzione materiale dell’apparato
produttivo e sistemate le questioni istituzionali e costituzionali, l’Italia inizia una
“corsa” che la porterà ai primi posti nel mondo per livello di reddito e per importanza
industriale e commerciale.
In questo stesso frangente storico, le Marche possono sembrare, sulla base dei
principali indicatori statistici, una regione relativamente povera, un’area economica
1
“ferma a uno stadio preindustriale”, praticamente “avulsa dal processo di industrializ-
zazione che si sta affermando in molte regioni italiane”
[Bevolo, 1984, 54].
Analizzando la distribuzione della popolazione attiva fra i vari settori di attività
economica, risulta che l’elevato tasso di attività nelle Marche è dovuto alla persistente
e massiccia occupazione nel settore primario, ormai declinante nelle aree forti dello
sviluppo economico italiano [Bevolo, 1984, 52-54].
L’economia marchigiana degli anni ’50 può apparire nel suo complesso tutt’altro
che dinamica e mantiene un carattere fortemente rurale.
13
L’agricoltura occupa una posizione dominante: 60% degli attivi nel 1951, contro il
40% circa della media nazionale; prevalenza di aziende medio-piccole comprese tra i
5 e i 20 ettari di superficie (54% nella regione e 27% a livello nazionale) e della con-
duzione a mezzadria (pari, in termini di superficie coltivata, al 60-69% del totale [Be-
volo, 1984, 56] – peso più alto che in ogni altra regione italiana e rispetto ad una me-
dia nazionale del 15% [Fuà, 1960, 46]).
La pesca marchigiana, sulla base dei pochi studi del settore, è caratterizzata sotto
molti aspetti da una situazione migliore rispetto a quella media nazionale, specie ri-
guardo: la frazione della popolazione attiva (0,44% contro 0,36%) [Fuà, 1959, 12];
l’età media degli scafi, la potenza degli apparati motore e le attrezzature di bordo
[Boldrini et al., 1961, 415]; la flotta da pesca a motore [Fuà, 1959, 12]; la dotazione
media di capitali per addetto navigante; la quantità di pesce pescato per addetto. Non
tutti gli aspetti sono però positivi. In seguito alla guerra, la koinè commerciale, marit-
tima e culturale dell’Adriatico viene divisa dalla cortina di ferro [Sori, 1999, 21], pre-
cludendo all’Italia (e dunque anche alle Marche) l’accesso alla parte più pescosa
dell’Adriatico.
Riguardo l’industria, vi sono 21-22 addetti ogni cento attivi (media nazionale del
31,6%) [Diotallevi, 1959, 20] e la struttura industriale è rappresentata da imprese di
piccole e piccolissime dimensioni: il 90% di esse è dato da impianti in cui trovano
impiego da 1 a massimo 5 addetti e il 30% degli occupati opera in unità locali con
appena 1 o 2 addetti [Bevolo, 1984, 58]. L’industria marchigiana rappresenta nel
complesso, secondo i Censimenti del ’51, il 2% circa di quella nazionale in termini di
14
addetti, l’1,1% in termini di potenza installata [Fuà, 1959, 12-13]. Sono presenti quasi
esclusivamente settori “tradizionali”, a tecnologia matura, a prevalente struttura arti-
gianale e a bassa intensità di capitale e alto contenuto di lavoro
2
(strumenti musicali,
lavorazione del tabacco, molitura dei cereali, settore delle pelli e cuoio, calzaturiero,
tessile e abbigliamento), mentre i settori più avanzati dell’industria (chimico, metal-
meccanico – ritenuti i settori trainanti del processo di sviluppo italiano) pesano nelle
Marche meno dell’1% in termini occupazionali [Bevolo, 1984, 59-60].
I.2. IL COMMERCIO INTERNAZIONALE DELLE MARCHE NEGLI ANNI
’50.
I.2.1. Le esportazioni.
Nell’espansione generale che ha caratterizzato il commercio italiano di esportazio-
ne, la parte delle Marche, tenendo conto delle risorse economiche, dell’estensione ter-
ritoriale e del numero degli abitanti di allora e al contempo della laboriosità, dello spi-
rito d’iniziativa e dell’ingegnosità degli operatori marchigiani,
3
non è stata certo infe-
riore a quella delle regioni economicamente più favorevoli del Paese [Fuà, 1959, 19].
Nonostante le ridotte dimensioni territoriali della Regione, va anzitutto rilevata la
netta predominanza dei prodotti ortofrutticoli, che rappresentano un'elevata percen-
tuale delle esportazioni nazionali.
15
Nel 1957, il settore ortofrutticolo marchigiano [tab. I.1] ha partecipato
all’esportazione nazionale con quasi 870.000 quintali, occupando così un posto di
particolare rilievo sul totale dell’export italiano per questa categoria [Amaduzzi et
al.,1961, 121].
Tra gli ortaggi, i primi posti sono occupati dal cavolfiore (ben affermato all’estero,
la cui produzione nel 1957-58 è stata di circa 800.000 quintali e di questo è stato
esportato circa il 50% – 20% dell’esportazione nazionale), dal pomodoro (esportato
soprattutto nella varietà “tondo liscio”, la cui produzione è stata nello stesso periodo
di circa 350.000 quintali di cui il 70% circa destinata all’esportazione – 30%
dell’esportazione italiana), dalle insalate (produzione aggiratasi attorno ai 180-
190.000 quintali, dei quali esportati il 45% circa), dai finocchi (180-200.000 quintali
prodotti, dei quali solo una piccola parte è destinata ai mercati esteri, specie svizzeri)
e dai piselli (mangiatutto o “taccole”, tipici della zona di Pedaso – Ascoli Piceno – da
dove erano esportati ancora prima del 1900) [Amaduzzi et al., 1961, 119-121].
Il settore frutticolo ricopre meno importanza di quello orticolo. Le specie più im-
portanti, dal punto di vista del mercato, sono l’uva da tavola (esportati 73.019 quinta-
li), le pesche, le susine e le pere (per questi ultimi tre prodotti l’esportazione ammonta
nel complesso a 74.136 quintali). Gran parte dei prodotti ortofrutticoli marchigiani
(70% circa – percentuale riferita all’anno 1959) è diretta nei mercati dei Paesi del
MEC e dell’EFTA. All’interno del MEC, la Germania Occidentale occupa il primo
posto come mercato di destinazione, seguita dall’Austria, dalla Svizzera, dalla Gran
Bretagna e dalla Svezia [Amaduzzi et al.,1961, 121].
16
Anche il frumento, specie il grano, costituisce una voce molto importante per le
esportazioni: l’export di grano è stato pari nel 1951 al 31,42% della produzione totale
marchigiana e nel 1952 al 40,40% [tab. I.2].
Va detto però che le lavorazioni dei prodotti agricoli sono pochissimo sviluppate.
Infatti questi vengono esportati dalla Regione senza alcuna trasformazione [Fuà,
1960, 53]. Solo l’industria molitoria e delle paste alimentari hanno dimensioni tali da
produrre un eccedente esportabile fuori dalla Regione [Fuà, 1959, 13], specie verso i
mercati dell’Italia meridionale, di Roma e di Bologna per le farine e del Lazio e della
Calabria per le paste alimentari [Bevilacqua, 1961, 254; 261-262].
L’industria delle carni è anch’essa gravemente carente nelle Marche. Nonostante
un’elevata produzione zootecnica, una notevole parte della produzione è lavorata fuo-
ri dalla Regione: i bovini vengono avviati nelle regioni limitrofe e qui macellati [tab.
I.3]; i suini vengono trattati nei salumifici emiliani; il pollame dà luogo ad una cospi-
cua esportazione di carne viva verso tutte le regioni italiane (32.744 quintali nel 1952)
[Bevilacqua, 1961, 227-228; 262].
Considerazioni analoghe valgono anche per i prodotti della pesca [Fuà, 1960, 53].
I vini delle Marche hanno scarsa rinomanza fuori dalla Regione. Sono in genere
esportati anonimi, lavorati poi in qualche località di destinazione e rivenduti sotto al-
tri nomi [Bevilacqua, 1961, 223]. Le dimensioni dell’industria del vino, inoltre, sono
nel complesso inadeguate a valorizzare tutto il prodotto offerto dalla viticoltura locale
[Merli, 1984, 23]. E’ però da tener presente che anche le Marche producono vini pre-
17
giati tra cui il “Verdicchio dei castelli di Jesi”, esportato specie negli Stati Uniti (nel
1957 l’export negli USA è stato di circa 50.000 bottiglie) [Groja, 1959, 19].
Nell’ambito delle attività secondarie, sono pochi i settori industriali nelle Marche
con una produzione apprezzabilmente superiore alla domanda regionale ed
un’esportazione maggiore dell’importazione. Questi sono rappresentati da:
le attività estrattive, all’interno delle quali spicca la produzione (concentrata
nella miniera di Perticara, nel Pesarese) e l’esportazione dello zolfo, in questi anni pe-
rò in declino specie per via della concorrenza internazionale e delle miniere in via di
esaurimento [Fuà, 1959, 13]. Lo zolfo viene esportato in Germania, Inghilterra, Fin-
landia, Egitto, Grecia, Turchia e Sud Africa [Bevilacqua, 1961, 259];
il settore dell’abbigliamento, nell’ambito del quale troviamo la produzione di
cappelli e trecce di paglia (nei paesi del fermano) e l’industria delle calzature (note-
volmente importante, concentrata nelle due provincie di Ascoli Piceno e di Macerata).
Secondo una stima dell’I.C.E. [Groja, 1959, 20], la produzione di calzature delle
Marche ha raggiunto nel 1959 un volume di circa 6 milioni e mezzo di paia l’anno
(pari addirittura al 12% circa del totale medio italiano nello stesso periodo [tab. I.4].
Dati sull’export marchigiano di calzature per gli anni ’50 purtroppo non sono dispo-
nibili; potrebbe, però, essere ragionevole pensare che proprio le esportazioni abbiano
stimolato questo sviluppo, se consideriamo l’incremento che ha avuto l’esportazione
di calzature in Italia tra 1955 e 1960 [tab. I.5
4
] e ribadendo il peso assunto dalle Mar-
che sui dati italiani del settore: l’indice delle esportazioni è passato per l’Italia da 100
a 1.624 per quanto riguarda le quantità, da 100 a 1.291 per quanto riguarda il valore