3
CAPITOLO PRIMO
IL SILENZIO PRESSO L’UOMO CONTEMPORANEO
1.1 Il silenzio nella cultura di oggi
La realtà ed insieme il valore del silenzio sembrano divenuti in larga misura
estranei alla sensibilità e alla consapevolezza culturale dell’uomo contemporaneo.
Circondati dal frastuono, vittime di un attivismo frenetico e nevrotizzante, diventa
sempre più problematico sottrarsi anche solo per un attimo al dominio del
rumore e all’egemonia della chiacchiera: i luoghi di silenzio sono sempre più rari.
La vita dell’occidente è dominata dall’economia e spesso ogni cosa viene vista
solamente da quest’ottica. Parlare del silenzio oggi, anche se sentiamo l’esigenza,
non è economico, perché l’economia, che regge tutta la storia di questi ultimi
decenni è nemica del silenzio. La nostra è la civiltà del rumore, e dove arriva il
progresso, arriva il rumore, che è parte essenziale di quell’etica commerciale che
ormai fa da padrona. Si continua a costruire e gli spazi verdi, che sono il vuoto e
il silenzio della terra, vengono occupati in nome del boom edilizio: “Non possiamo
fermarci altrimenti l’economia si ferma” è il ritornello che spesso si sente dire da
molti economisti e politici. Nei programmi televisivi il “vuoto” è riempito dalla
pubblicità e nei dibattiti si richiedono risposte veloci: non c’è tempo per riflettere
e pensare a quello che l’altro ha detto, gli spazi sono preziosi e bisogna snellire
con tempi calcolati in favore della pubblicità. Mentre molti centri commerciali
dimenticano l’importanza del riposo settimanale, i telefoni cellulari riempiono
ormai tutti gli spazi di attesa e i luoghi che frequentiamo, inculcando in noi la
fretta, l’incapacità di aspettare e nello stesso tempo l’ansia.
Vivere intensamente, “aspirare alla massima eccitazione dei sensi”
1
è una
caratteristica dell’uomo di oggi che fugge per non correre il rischio di ritrovarsi
soli con se stessi, scoprire il vuoto interiore, arrivando a vivere il silenzio come un
qualcosa di mostruoso. Dice infatti Sartre: “L’uomo si trova solo girovagando per
questo silenzio mostruoso, libero e solo, senza assistenza e senza scusa,
condannato a decidere, senza appoggio di nessun genere, condannato per sempre
1
RICARD M., Il gusto di essere felici, Sperling, Parigi, 2008, 35.
4
ad essere libero”
2
. Nel silenzio possono spesso emergere cose che si credono
ormai morte e per questo motivo spesso l’uomo non ama ascoltarsi perché la
riflessione, la meditazione, la preghiera e la pace possono riportare alla luce
momenti dimenticati ricchi di angoscia e sofferenza.
Da un lato perciò negli esseri umani c’è un indubbio timore di fronte
all’esperienza del silenzio, il quale ricorda così da vicino la morte: “Tutta
l’infelicità degli uomini”, afferma Pascal, “viene da una sola cosa, non sapersene
stare in pace in una camera (…), ecco perché gli uomini amano tanto il rumore e
il trambusto (…). Obbediscono a un segreto istinto che li spinge a cercare fuori di
sé il divertimento e l’occupazione (…). La noia, con la consueta autorità, non
smetterebbe di uscire dal fondo del cuore, dove ha radici naturali, colmando lo
spirito di veleno”
3
. Egli ricorda come l’uomo sia in preda alla paura di fronte alla
noia, e come debba continuamente ricorrere al “divertissement” come uscita da
sé, come dispersione, per vincerla. La nostra energia interiore è sempre proiettata
verso l’esterno, di modo che se non c’è più un punto esterno a cui appoggiarsi,
cade, sente il vuoto, e le sembra di morire. Per questo c’è una difficoltà immensa
nel fare silenzio. Lo si può fare solo a patto di saper vincere la paura del vuoto,
così vicino al senso del nulla e della morte, e soprattutto solo a patto di avere un
punto fisso dentro di sé a cui legare saldamente il bisogno di relazione che noi
ospitiamo, che noi radicalmente siamo.
Il silenzio attrae e insieme respinge, esattamente come il sacro, “mysterium
fascinans e mysterium tremendum”, secondo la nota tesi di Rudolf Otto esposta
in “Das Heilige” del 1917. Se il silenzio ricorda la morte alla coscienza comune, è
perché effettivamente vi è uno stretto legame tra esso e il grande silenzio che è la
morte. Imparare a fare silenzio significa quindi imparare a morire: “Taci
imponendo silenzio alla bocca e al cuore. Non parlare se non sei interrogato e non
è necessario. Non richiamare alla mente nulla di quel che hai visto o udito di
futile. Sta nella quiete, aderendo a Dio solo con l’affetto. Impara a morire. Come
un morto non vede, non parla, non sente, non ode, non si insuperbisce non si
adira, ecc.; così anche tu non parlare, non ascoltare, non pensare, non desiderare
ciò che è mondano, poiché tu sei morto al mondo. In te vive ciò che ti sollecita il
2
SARTRE J. P., L’essere e il nulla, Il saggiatore, Milano, 1964, 506.
3
PASCAL B., I Pensieri, Newton, Roma, 1993, 57.
5
cuore, attrae l’affetto, ciò che aneli, ciò che brami. Muoia il mondo affinché in te
viva Cristo!”
4
.
Mentre nel Cantico delle creature San Francesco d’Assisi parla della morte
come sorella e per essa loda il Signore: “Laudato si, mio Signore, per sora nostra
Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ scappare”
5
, Giovanni della
Croce insegna nel “Cantico spirituale” che “all’anima che ama la morte non può
essere amara (…). La tiene per amica e sposa e si rallegra al ricordo come se si
trattasse del giorno delle nozze (…). Infatti la morte le darà il compimento
dell’amore che desidera”
6
. Che altro dice il Maestro quando invita a rinnegare se
stessi e a morire come il seme per dare frutto? Imparare a morire non significa
tuttavia fare di ogni giorno un funerale, ma, proprio al contrario significa
sconfiggere ogni paura e quindi fare ogni giorno l’esperienza più pura della gioia,
intesa come semplicità, distacco, leggerezza del cuore.
La perdita del silenzio porta come conseguenza la perdita dell’autenticità
dell’uomo, e quindi di un mondo malato nella sua essenza: Kierkegaard affermava
che se fosse stato un medico avrebbe consigliato per guarire di procurare silenzio:
“introduci il silenzio. Non si riesce più a sentire la parola di Dio: se la si annunzia
con mezzi rumorosi, gridandola a squarciagola per coprire il silenzio, non sarà più
la parola di Dio. Procura il silenzio.”
7
Il silenzio è però qualcosa di più di una
terapia per un malessere contingente, appartiene alla struttura fondamentale
dell’uomo, e ignorarlo è ignorare l’uomo: “L’uomo che ha perduto il silenzio non
solo ha perduto col silenzio una sua proprietà ma è stato modificato in tutta la
sua struttura”
8
.
1.2 Il silenzio e la parola
Il silenzio non si limita ad essere qualcosa di banalmente negativo: esso non
consiste soltanto in una semplice negazione del discorso ma, come afferma
4
ANCILLI E., Dal silenzio della certosa, Città Nuova, Roma, 1977, 128.
5
SAN FRANCESCO, Cantico di frate sole, in CAROLI E. (a cura di), Fonti francescane, ediz.
Francescane, Padova, 2004, 181.
6
GIOVANNI DELLA CROCE, Cantico spirituale, (strofa 11, spiegazione 10), a cura del R. P. Nazareno
dell’addolorata, Utet, Torino, 1947, 110-111.
7
AA.VV., Silenzio, in Servitium, Quaderni di ricerca spirituale, Viator, Milano, marzo/aprile 2010,
130.
8
PICARD M., Il mondo del silenzio, Edizioni di Comunità, Milano, 1951, 267.
6
Picard, “qualcosa di positivo, un mondo compiuto in se stesso”
9
. Il silenzio è
qualcosa di più del non parlare, è pienezza e fa sì che la pienezza possa esistere: è
per la vita dell’uomo ciò che è la cassa armonica per una corda che vibra. Molti
uomini hanno dimenticato la pienezza della vita umana tanto che Thomas Merton
ricorda che quando gli uomini non odono la segreta voce del loro più vero essere,
“quando uno non raggiunge quella pace spirituale che viene dalla perfetta
identificazione con quel che uno davvero è, la vita rimane misera, faticosa”
10
. Il
silenzio deve condurre il contemplativo ad una specie di trasparenza, di castità
dell’anima, ad uno svuotamento e ad una dimenticanza di sé, “che non è semplice
vuoto o mancanza di altre cose, ma piuttosto pienezza e intensità di vita,
presenza di Dio e capacità di attendere alle sue cose”
11
.
Il silenzio non è disamore per la parola, non è una fuga fuori dal linguaggio:
chi ama il silenzio ama anche la parola essenziale che non spezza il silenzio ma lo
rende più sensibile e che deve riposare su un fondo di silenzio come l’iceberg sulle
acque.
Il silenzio è dentro la parola come il suo colore, il suo sapore, il suo timbro, il
suo calore, la sua luce, il suo mistero, la sua bellezza, la sua dolcezza, la sua
profondità. Il silenzio è quella realtà che rende bella la parola, che la rende viva,
toccante, penetrante, capace di comunicare l’essere. Siccome la parola è il
linguaggio per parlare agli uomini, così il silenzio è il linguaggio dell’anima per
parlare a Dio. Dio ha messo il silenzio, se stesso, nella parola, perciò non
possiamo dire che il silenzio è assenza di parola. Bonhoffer afferma infatti: “La
giusta parola nasce dal silenzio, ed il giusto silenzio nasce dalla parola”
12
.
Proprio dal silenzio nasce l’autentica parola e il discorso che non implica
relazione con il silenzio diventa chiacchiera. Anna Maria Canopi afferma infatti:
“Il silenzio è la qualità della parola. Se la parola non è carica di silenzio, è vuota;
anzi, è un rumore, è un suono disarticolato, un suono superficiale che ha
perduto il suo contatto con la profondità dell’essere, con la fonte dell’armonia;
come una nota che, in una bella sinfonia, non risuona limpida e produce una
stonatura. Il rumore è una stonatura nella sinfonia dell’amore che è il silenzio.
9
PICARD M., op. cit., 9.
10
MERTON T., Vita nel silenzio, Morcelliana, Brescia, 1957, 77.
11
ANCILLI E., Dal silenzio della certosa, Città Nuova, Roma, 1977, 13.
12
BONHOEFFER D., La vita comune, Queriniana, Brescia, 1983, 102.
7
Invece le parole gravide di amore e di silenzio sono piene, intense, calde, hanno
un contenuto: sono rivelatrici”
13
.
L’uomo nasce silenzioso e pian piano impara a parlare, a comunicare.
L’esercizio del silenzio viene dunque dopo quello della parola: dopo che l’essere
vivente ha imparato a comunicare con la parola, dovrà anche comunicare in un
altro modo con il silenzio. Il sentiero che porta ad un silenzio pieno è faticoso da
percorrere, infatti, come ci ricordano anche i maestri hassidici “ci vogliono tre
anni per imparare a parlare (…) e settanta per imparare a tacere”
14
. Per questo
motivo “se parlare è un’arte sovrana, tacere non lo è di meno”
15
.
Il silenzio non è mutismo: mentre il muto ci isola e ci esclude da ogni
comunicazione, il silenzio si mostra come una forma di comunicazione. Esso
infatti non è <<tacito>>: “Si è taciturni per tristezza, per temperamento, per
malattia, ecc.; si è silenziosi per attenzione, concentrazione, raccoglimento,
meditazione
16
, preghiera: il silenzio indica sempre un grado di profondità”
17
.
Il vero silenzio non è quello in cui non si ha più nulla da dirsi, un arresto
della parola, ma quello in cui si è giunti al limite del dicibile, l’entrata in un
mondo, quello della comunione con Dio al cui fine l’anima deve prepararsi ed
esercitarsi attraverso una lunga purificazione.
Tra silenzio e parola vi è lo stesso legame interiore e la stessa distinzione che
esiste tra solitudine e comunione tanto che l’una non può esistere senza l’altra:
come la caratteristica del silenzio è la solitudine, così caratteristica della parola è
la comunione.
La vita dell’uomo è una trama intessuta di silenzi e di parole, si svolge fra il
silenzio e la parola, fra il tacere e il parlare. “L’uomo incontra e raggiunge nel
silenzio se stesso, la propria unicità e singolarità, la propria irripetibile singolarità
per aprirsi alla totalità, rinuncia almeno in parte alla propria originalità per
esprimersi e comunicare seguendo le regole ed i paradigmi di una lingua”
18
.
13
CANOPI A. M., Silenzio, esperienza mistica della presenza di Dio, EDB, Bologna, 2008, 12.
14
WIESEL E., Rabbi Mendel di Worke ovvero il silenzio hassidico, in Id., Contro la malinconia,
Spirali, Milano, 1984, 169.
15
F. DE LA ROCHEFOUCAULD, Massime, Rizzoli, Milano, 1978, 337.
16
Il silenzio permette la meditazione: “Il silenzio senza la meditazione è la morte e quasi la tomba
di un sepolto vivo; la meditazione senza il silenzio non viene a capo di nulla ed è come lo smaniare
di un infelice chiuso in un sepolcro. Uniti in spirituale connubio sono gran quiete dell’anima e
culmine di contemplazione”. (MERTON T., Vita nel silenzio, Morcelliana Brescia, 1957, 170).
17
SCIACCA M. F., Come si vince a Waterloo, Marzorati, Milano, 1961, 183.
18
ZUCAL S., Romano Guardini, filosofo del silenzio, Borla, Roma, 1992, 104.
8
Mentre la parola si forma già ben prima della formazione del suono vocale nella
profondità silenziosa del cuore e dello spirito dell’uomo, il silenzio è l’ambiente in
cui germoglia, sviluppa e fruttifica la parola e può ottenere solo dalla parola e
attraverso questa la propria effettualità.
Il silenzio può stare senza la parola, ma la parola non può stare senza il
silenzio: “la parola non avrebbe profondità se le mancasse lo sfondo del
silenzio”
19
. Se il silenzio è più originario della parola e può stare senza di essa,
non ne è tuttavia superiore: se infatti il primo custodisce la verità del mondo, solo
nella parola essa “si fa immagine” permettendo al silenzio-verità di raggiungere la
sua “pienezza”. Non è però il parlare che rompe il silenzio: il silenzio è la sede
della Parola di Dio, e se, quando parliamo, ci limitiamo a ripetere quelle parole,
non cessiamo di tacere. L’uomo vive in un mondo in cui la parola è già istituita e
che per tutte queste parole banali possediamo in noi stessi significati già formati
che suscitano in noi solo pensieri secondi; la nostra visione dell’uomo rimarrà
superficiale finché non ritroveremo sotto il brusio delle parole, il silenzio
primordiale. Merleau-Ponty afferma che “ogni filosofia è linguaggio e consiste
tuttavia nel ritrovare il silenzio”
20
. Nonostante il filosofo parli, questo suo parlare
è una debolezza inspiegabile: “egli dovrebbe tacere, coincidere in silenzio, e
raggiungere nell’Essere una filosofia che vi è già fatta. Viceversa tutto avviene
come se egli volesse tradurre in parole un certo silenzio che è in lui e che egli
ascolta. La sua intera <<opera>> è questo sforzo assurdo”
21
.
La lettura contemplativa delle Sacre Scritture e il silenzio alla presenza di
Dio appartengono l’uno all’altra: la parola di Dio ci attira verso il silenzio e il
silenzio ci rende attenti alla parola di Dio. Mentre la parola penetra al centro
silenzioso del cuore, il silenzio apre lo spazio dove la parola di Dio potrà essere
udita. “Senza leggere la parola, il silenzio ammuffisce, senza il silenzio la parola
perde il suo potere di creare nuovamente. La parola conduce al silenzio e il
silenzio conduce alla parola. La parola nasce nel silenzio e il silenzio è la risposta
più profonda alla parola”
22
.
19
PICARD M., Il mondo del silenzio, Edizioni di Comunità, Milano, 1951, 23.
20
MERLEAU-PONTY M., Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano, 1969, 167.
21
MERLEAU-PONTY M., op. cit., 148.
22
NOUWEN H. J. M., Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Queriniana, Brescia, 1980, 126.
9
Nel silenzio sta l’essenza della mistica
23
: se seguiamo i mistici fino alle ultime
fasi dell’avventura spirituale da loro descritta, non è sul loro linguaggio che
metteremo l’accento ma sul loro silenzio. L’appello all’ineffabilità, lanciato dopo
tanti sforzi per spiegarsi, non è presso di loro enfasi o pigrizia. Sembrerebbe loro
inutile e menzognero esprimere con delle immagini ciò che li ha strappati ad ogni
immagine, l’esperienza del non-razionale, del numinoso. Il mistico sa in partenza
che ciò che dirà del totalmente Altro sarà “una piccola cosa come una punta d’ago
di fronte al grande cielo”
24
: le sue parole sono più un invito ad “inabissarsi in
Dio”
25
che un resoconto veramente informativo, perciò non vuole dirle perché
forse, in ultima analisi, le ritiene irrilevanti dato che è ben convinto sul fatto che,
cosa Dio sia, è meglio sperimentarlo che parlarne.
Nonostante ciò il mistico tenta di riportare con le parole la sua esperienza
consapevole che più cerca di comunicare meno si esprime. In una siffatta
situazione la sola scelta possibile che gli rimane è il silenzio. E di fatto è proprio il
mistico più di altri a subire il fastidio delle parole e il fascino del silenzio. Il
silenzio del mistico è perciò un silenzio che si presenta come l’orizzonte del dire, è
un silenzio che ci parla di ciò che non può essere detto, è un silenzio che apre a
nuove dimensioni della realtà.
Tra i molti tipi di silenzi possibili vi è un silenzio che è indice dell’impotenza
della parola ed un altro che ne è la vittoria. Questi due tipi di silenzi, che si
manifestano con maggiore frequenza alle frontiere del linguaggio, sono propri non
solo del mistico ma anche del poeta
26
. Essi nell’usare il linguaggio spesso
precipitano dalla piattaforma delle regole linguistiche in cui si trovano ma,
23
“Il silenzio è l’essenza della mistica;”, ricorda Leeuw, “nel fundus animae regna mutismo
assoluto. Ma questo silenzio si manifesta in parole, in discorsi estremamente prolissi e precipitosi.
Un’immagine ne trascina un'altra che a sua volta viene superata, sostituita da una terza. Sotto lo
splendore delle immagini sfavillanti si erge maestosa la potenza del silenzio”. Leeuw, G. V. D., in
AA.VV., Le dimensioni del silenzio, a cura di BALDINI M., Città nuova, Roma, 1988, 48.
24
TAULERO G., Prediche, in Opere, Ed. Paoline, Alba,1977, 544.
25
TAULERO G., op. cit., 297.
26
Massimo Baldini riporta una frase di Cocagnac: “Se si afferma che il silenzio dei poeti è l’essere
stesso delle cose percepite prima di ogni parola, il silenzio dei mistici è l’essere stesso di Dio colto
al di là di ogni parola” (BALDINI M., Il mistico tra silenzio e parola, in Istituto di Scienze Religiose in
Trento, Le forme del silenzio e della parola, Atti del convegno “Il silenzio e la parola” tenuto a
Trento il 15-17 ottobre 1987).
Baldini sottolinea il fatto che il silenzio apre nuove dimensioni alla realtà: “ci rende consapevoli
che il dicibile, ciò che può essere detto, non è poi tutto, ci rende cioè consapevoli del fatto che i
nostri problemi stanno al di là del linguaggio. La scelta del silenzio è indice del riconoscimento
della finitezza dell’uomo (…). Chi lascia uno spazio al silenzio automaticamente si riconosce
creatura, e riconosce i limiti propri dell’essere creatura” (BALDINI M., Le parole del silenzio,
Einaudi, Torino, 1986, 34).
10
talvolta, nel tenderlo sino al punto di rottura, riescono ad ampliarlo e a compiere
importanti scoperte, rischiando in ogni attimo il non senso. Il mistico è perciò un
uomo marginale, un personaggio che compie, all’interno della fede, una
operazione che è estremamente coraggiosa e rischiosa, come lo sapevano
Eckhart, Silesio,
27
Taulero, San Giovanni della Croce, e cerca di mettere una
tradizione millenaria di fede in un linguaggio nuovo.
Sempre più spesso il parlare del poeta è un parlare contro le parole: egli ha
infatti a disposizione una lingua morta, fatta di parole usurate, perciò egli è
portato a desiderare che il linguaggio, attraverso un caduta rigeneratrice nel
silenzio, riacquisti un senso. Nella poesia il poeta percepisce a volte di non poter
esprimere compiutamente in parole umane adeguate un’esperienza
particolarmente unica e toccante che lambisce le soglie dell’umano e da cui si è
sentito invaso o solo sfiorato. Più una tale esperienza è profonda e più cresce nel
poeta e nello scrittore la coscienza di non poterla pienamente tradurre in parola e
in scrittura. Dice infatti Dante
28
nel primo canto del Paradiso:
“Nel ciel che più della sua luce prende
fu’io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di lassù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire”
29
.
27
Nucleo essenziale della spiritualità silesiana è, come in Eckhart, il rapporto amore-distacco.
L’amore che lega alle cose, al prossimo e a Dio, nasce grazie al distacco da se stesso e da tutti i
legami che ruotano intorno all’io. Questo distacco apre alla scoperta dell’io più vero non
psicologico ma spirituale che è in noi, al vero sé che conduce dall’anima allo spirito secondo le ben
note linee dell’antropologia paolina, portando a scoprire quel fondo dell’anima che è la nostra
essenza ed in cui è sempre gioia e pace.
28
C’è poi Holderlin che descrive Diotima quale figura del silenzio, Morike e il suo silenzio
“demoniaco” della natura attraverso il quale vive l’esperienza dell’ “Uno-Tutto” un silenzio della
natura che può dominare e sopraffare un’anima religiosa; Dostoevskij e Rilke in cui “l’animale, il
santo e il bambino ci rendono consci che il silenzio, meglio lo spazio <<aperto>> cui esso ci
introduce, è la testimonianza di una realtà numinosa e di un essere numinoso, ci trasferisce anzi
nella sfera del numinoso”
28
. Questo silenzio che apre la sfera al numinoso si declina in Rilke nel
silenzio collegato al mistero della vita che germina nel grembo, nel silenzio che avvolge gli amanti
e nel silenzio della morte. A questi silenzi il cuore deve attingere per trovare quella parola
autentica che la tecnica del modo moderno va perdendo.
29
ALIGHIERI D., Paradiso, Canto I, 4 – 9, in CAMERINI E. (a cura di), La divina commedia, Sonzogno,
Milano, 1958, 507. San Paolo, riferendosi a Cristo afferma che egli “fu rapito in Paradiso e udì
parole indicibili che non è lecito alcuno pronunciare” (2 Cor., 12, 4).
11
A mano a mano che il poeta ascende, le sue parole rimangono indietro,
finché nel verso 55 del Canto XXXIII, “il parlar nostro”, il discorso umano, viene
meno del tutto:
“Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
Che il parlar nostro ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio”
30
.
Mancando le parole, anche la memoria, che ne è il confine, viene meno.
Questo è un oltraggio ma è un oltraggio sacro, affermativo, una prova evidente
dell’esistenza di ciò che trascende ogni discorso umano. Da quella luce e quella
gloria letteralmente ineffabili, la lingua del poeta si sforza di riportare a noi
un’unica scintilla:
“e fa la lingua mia tanto possente
ch’una favilla sol della tua gloria
possa lasciare alla futura gente”
31
.
Dopo di che il discorso cede interamente al linguaggio inesprimibile della
luce e il poeta, al vertice assoluto delle sue forze, paragona sfavorevolmente la
propria arte ai balbettii disarticolati di un bimbo non ancora svezzato; il
linguaggio diventa inarticolato com’è quello dell’infante prima di saper usare le
parole:
“Ormai sarà più corta mia favella,
pure a quel che io ricordo, che di un fante
che bagni ancor la lingua alla mammella”
32
.
L’opera si conclude con Dante che sente di essere davanti all’intuizione
estrema ed al vertice della visione:
30
ALIGHIERI D., Paradiso, Canto XXXIII, 55-57, in CAMERINI E. (a cura di), op. cit., 672.
31
ALIGHIERI D., Paradiso, Canto XXXIII, 70-72, in CAMERINI E. (a cura di), op. cit., 672.
32
ALIGHIERI D., Paradiso, Canto XXXIII, 106-108, in CAMERINI E. (a cura di), op. cit., 673.