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INTRODUZIONE
La seguente trattazione ha lo scopo d’illustrare i molteplici e variegati aspetti che può
incarnare la comicità in una delle più riuscite commedie di Plauto, ovvero l’Aulularia.
All’interno del nostro percorso entreremo in contatto con svariate realtà, a partire da una
rapida panoramica sull’Avare di Molière (a cui ci allacceremo al termine del progetto, forgiando in
tal modo una ring-komposition) sino ai “nodi” mentali che permeano l’omonima opera di Laing e
che, come vedremo, richiamano facilmente alla memoria il vecchio avaro Euclione, protagonista
dell’opera da noi presa in esame.
Ulteriori legami con altri autori verranno delineati spaziando attraverso millenni di storia
letteraria, inanellando parallelismi tra l’Aulularia e i suoi modelli greci quanto tra la medesima
commedia del sarsinate e gli studi di Freud sui motti di spirito, nonché i meccanismi comici
sagacemente pennellati da Marina Mizzau nel suo saggio sulla barzelletta.
Non mancheranno, naturalmente, i legami tra il nostro testo e quello d’altre opere del
medesimo autore, quali l’Epidicus, lo Stichus e il Miles gloriosus.
Per quanto riguarda i meccanismi della comicità contenuti nell’Aulularia stessa,
esploreremo sia l’ambito delle figure retoriche (analizzando in particolare gustose iperboli e curiosi
witz) che quello prettamente stilistico. Ci destreggeremo così tra colloquialismi e neoformazioni
plautine, passando attraverso riferimenti a personaggi storici e mitologici, invocazioni a divinità,
accumulazioni e rapidi quanto esilaranti “botta e risposta” tra i protagonisti, per giungere infine ad
allusioni a cariche pubbliche e proverbi.
Queste, al pari del dipingere i personaggi coi tratti fissi (pertanto facilmente riconoscibili da
parte del pubblico), assolvono la funzione d’avvicinare al testo il lettore/spettatore, intrecciando un
legame che verrà saldato e rafforzato tramite gli usuali meccanismi dell’“a parte”, i rovesciamenti
di ruolo appartenenti alla realtà del cosiddetto “carnevalesco” e l’utilizzo di tematiche quali, ad
esempio, la misoginia.
A questo proposito, non mancheremo d’occuparci delle caratteristiche d’ogni, esilarante,
tipologia di personaggio fisso: muovendoci dal callidus servus ai cuochi, dall’anus vinosa ai parenti
in conflitto per l’unione con la concupita puella di turno, approderemo infine allo spilorcio
Euclione, figura centrale dell’intera opera.
Meravigliosa creazione plautina, l’ossessivo avaro appare perennemente mantenuto sul filo
del rasoio dal terrore che la pentola ricolma d’oro, reperita nel proprio giardino, possa finire per
venigli sottratta. E sarà proprio questo timore a far scaturire la cosiddetta “profezia che
s’autodetermina”, rendendolo vittima del destino da lui stesso preventivato e scaraventandolo in un
vortice di follia. Follia che lo convoglierà verso l’assunzione di comportamenti allucinanti e
allucinati, a tal punto da renderne le azioni incomprensibili persino agli altri protagonisti della
vicenda.
Così, spaziando tra divertenti malintesi e finte gaffe, esplicite e scurrili oscenità, fughe di
scena iterate e improvvise, non ci limiteremo soltanto a delineare ogni forma che la comicità insita
nell’Aulularia assume, ma scopriremo a poco a poco lati sempre più nuovi, ugualmente affascinanti
d’uno dei più riusciti personaggi che l’incredibile vena creativa di Plauto sia mai stata in grado di
tratteggiare.
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L’ASPETTO COMICO NELL’AULULARIA PLAUTINA: TECNICHE
E
STRATEGIE
Jennifer Bertasini
Harpagon (Il crie au voleur dès jardin, et vient sans chapeau): Au voleur! au voleur! à l’assasin!
au meurtrier! Justice, juste ciel! je suis perdu, je suis assassiné! on m’a coupé la gorge: on m’a
dérobé mon argent! Qui peut-ce etre? Qu’est-il devenu? Où est-il? Où se cache-t-il? Que farai-je
pour le trouver? Où courir? Où ne pas courir? N’est-il point là? N’est-il point ici? Qui est –ce?
Arrete! (Il se prend lui-meme par le bras). Rends-moi mon argent, coquin... Ah! c’est moi! Mon
esprit est troublé, et j’ignore où je suis, qui je suis, et ce que je fais. Hélas! mon pouvre argent! mon
pouvre argent! mon cher ami! on m’a privé de toi; et, puisque tu m’es enlevé, j’ai perdu mon
support, ma consolation, ma joie: tout est fini pour moi, et je n’ai plus que faire au monde. Sans toi,
il m’est impossible de vivre. C’en est fait; je n’en puis plus; je me meurs; je suis mort; je suis
enterré. N’y a-t-il personne qui veuille me ressusciter, en me rendant mon cher argent, ou en
m’apprenant qui l’a pris? Euh! que dites-vous? Ce n’est personne. Il faut, qui que ce soit qui ait fait
le coup, qu’avec beaucoup de soin on ait épié l’heure; et l’on a choisi justement le temps que je
parlais à mon traite de fils. Sortons. Je veux aller quérir la justice, et faire donner la question à toute
ma maison: à servantes, à valets, à fils, à fille, et à moi aussi. Que de gens assemblés! Je ne jette
mes regards sur personne qui ne me donne des soupcons, et tout me semble mon voleur. He! de
quoi est-ce qu’on parle là? de celui qui m’à dérobé? Quel bruit fait-on là-haut? Est-ce mon voleur
qui y est? De grace, si l’on sait, des nouvelles de mon voleur, je supplie que l’on m’en dise. N’est-il
point caché là parmi vous? Ils me regardent tous, et se mettent à rire. Vous verrez qu’ils ont part,
sans doute, au vol que l’on m’a fait. Allons vite, des commissaires, des archers, des prévots, des
juges, des genes, des potences et des bourreaux. Je veux faire pendre tout le monde; et, si je ne
retrouve mon argent, je me pendrai moi-meme après.
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1
Molière, Touchard 1962 pagg. 455-456.
Per la traduzione, vedesi: T. M. Plauto 1971 pagg. 66-67.
Arpagone: (solo, gridando “al ladro” dal giardino; arriva in scena senza cappello): “Al ladro! Al ladro!
All’assassino! All’omicida! Giustizia, cielo! Sono rovinato, sono assassinato! Mi hanno scannato: m’hanno rubato i
denari. Chi è stato? Dov’è andato? Dov’è? Dove sta nascosto? Come faccio a trovarlo? Da che parte correre? Da che
parte non correre? Sarà di là? Sarà di qua? Chi è? Ferma! (a se stesso, afferrandosi un braccio) restituiscimi i miei
denari, carogna!… Ah son io! La testa si confonde, non so dove sono, chi sono, che cosa faccio. Ahi ahi, il mio povero
denaro, il mio povero denaro! Il mio caro! Ti hanno strappato a me, tu non ci sei più, e io non ho più il mio sostegno, il
mio conforto, la mia gioia: tutto è finito per me, non ho più niente da fare al mondo. Senza te, non posso vivere. È fatta:
non ne posso più: muoio: sono morto: sono sotterrato. Non c’è più nessuno che voglia resuscitarmi restituendomi il mio
caro denaro, insegnandomi chi me l’ha preso? Chi me l’ha preso? Eh? Che dite? (Si volge a uno del pubblico e così
poco più oltre a tutto il pubblico: “quanta gente!”… “stanno a ridere”) Niente. Chiunque è stato, bisogna che abbia
spiato il momento molto bene; ha preso giusto il minuto che stavo parlando a quel traditore di mio figlio. Usciamo.
Voglio andare a chiamare la giustizia: voglio far dar la corda a tutta la casa: servi, serve, figlio, figlia, anche a me.
Quanta gente! Non ne vedo uno, che non mi dia sospetto. Tutto mi pare il mio ladro. Eh di che cosa parlate là? Di
quello che mi ha rubato? Che baccano laggiù. C’è il mio ladro? Vi scongiuro, se si hanno notizie del mio ladro, vi
supplico, ditemele. È nascosto in mezzo a voi? Mi guardano tutti, stanno a ridere, vedrai che ci han preso parte, sicuro,
al mio furto: presto presto, dei delegati, delle guardie, delle autorità, dei giudici, delle torture, delle forche, dei boia!
Voglio fare impiccare tutti: e se non ritrovo i miei denari, mi impiccherò anche io, poi”.
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Eccolo qui. Paranoico, agitato, vittima della perdita d’un’obiettiva visione della realtà, nonché –
situazione, ahimè, ancor più grottesca- della lucida e consapevole coscienza di sé, tragicomicamente
tratteggiata: ci troviamo innanzi ad Arpagone, incredibile protagonista dell’Avare, personaggio tra i
fiori all’occhiello di Molière.
La commedia in cinque atti scivolata dalla penna dell’autore francese s’impernia sull’efficace
rappresentazione delle peripezie del facoltoso usuraio ossessionato dall’idea che qualcuno,
rovistando in giardino, possa reperire la cassetta con diecimila scudi da lui appena riscossi,
appropriandosene. Per ovviare a tale possibile delitto, egli tenterà in ogni modo di preservare il
tesoro –per evitare accuratamente d’intaccarlo, non se ne servirà nemmeno per finanziare il
banchetto matrimoniale della figlia- sino a, come precedentemente illustrato, smarrire persino la
coscienza di sé.
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L’avarizia, nel caso della pièce francese così come in quello della maschera di Pantalone, non
coincide con un marchio psicologico, né tantomeno con una patologia morale, bensì risulta piuttosto
una modalità di rappresentazione che s’attiva quasi solo nell’ambito del conflitto giovani/anziani-
padri/figli, che nell’Aulularia viene delineata parallelamente a quella tra senes.
A tali elementi, tipici della Commedia dell’Arte sviluppatasi essenzialmente tra XVI e XVIII
secolo, s’intersecano nell’Avare evidenti rimandi al teatro plautino.
Innanzitutto, infatti, la figura di Harpagon (nome “parlante”, derivante dal greco
“arpàzein”=afferrare) appare incontrovertibilmente plasmata sul solco dell’Euclione foggiato da
Plauto, sebbene il celebre autore sarsinate risultasse meno interessato all’approfondimento dei
caratteri, dei personaggi, dei tratti di vita umana rispetto al commediografo francese, e tendesse a
lasciar ampio agio all’istrionica freschezza verbale dipanatesi tra battute e rapidi dialoghi, creative
locuzioni e brillanti neologismi che, cristallizzati in un velo di sarcasmo, rendono assai godibili
ancor oggi i frutti della sua arte letteraria.
Qui di seguito procederemo ad analizzare alcuni meccanismi comici utilizzati da Plauto,
servendoci proprio de L’Aulularia.
Protagonista della piéce è il già citato Euclione, anziano padre di Fedria. La fanciulla si rivela
incinta (si tratta d’uno dei più classici intrecci della commedia greco-latina) a causa d’un atto di
violenza da parte d’un ubriaco: artefice del misfatto è in questo caso Liconide, figlio del vicino di
casa d’Euclione.
Sarà proprio il dialogo tra il giovane e l’ancor inconsapevole suocero –momento tra i più noti e
fortunati del testo plautino (ripreso anch’esso nell’opera di Molière)- a costituire il punto di
partenza della nostra analisi.
Atto quarto, decima scena. Liconide, scorto il vecchio avaro che si lamenta innanzi alla sua casa,
intuisce erroneamente che la gravidanza di Fedria sia stata scoperta; si reca pertanto da Euclione
determinato ad assumersi le proprie responsabilità. Lo spilorcio, però, preoccupato in realtà per il
furto della pentola ricolma d’oro trovata anzitempo in giardino, riconduce al tesoro ogni spassionata
dichiarazione di possesso, amore ed attrazione pronunciata dal giovane, innescando così
un’intrigante catena di accuse fulminee e pronte risposte destinata a scatenare l’ilarità dei
lettori/spettatori.
Lasciamoci dunque, per un istante, catturare dal testo plautino:
Ly: qvia istuc facinus quod tuom
sollicitat animum, id ego feci et fateor. […]
Deu’ mihi impulsor fuit, is me ad illam inlexit. […]
Ergo quia sum tangere ausus, hau causificor quin eam
ego habeam potissumum. Evc: Tun habeas me invito meam? [...]
Quod surripuisti meum,
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2
Delia Gambelli, Il vecchio avaro nella commedia dell’arte e nel teatro di Moliére, in Tontini, Raffaelli 2000
pag. 87.
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iam quidem hercle te ad praetorem rapiam et tibi scribam dicam.
Ly : Surrupio ego tuom? Unde? Aut quid id est? Evc: Ita te amabit Iuppiter,
ut tu nescis. Ly : Nisi quidem tu mihi quid quaeras dixeris.
Eu : Aulam auri [...]
2
In questo rapido estratto d’un dialogo assai più ampio –a tal punto da riuscire a sfruttare ogni
possibilità di doppie interpretazioni- viene pennellato lo scioglimento d’una “doppia tensione”
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: la
prima plasmata dall’incombente parto di Fedria, l’altra originata dal furto della pentola. Due
situazioni segrete, dunque, che, proprio in quanto tali, sono destinate a creare un malinteso, quando
ciò ch’è sinora stato faticosamente celato scivolerà direttamente dalle labbra d’un personaggio alle
orecchie dell’altro. Ed altrimenti non potrebbe essere, poiché le vicende della pentola non possono
esser scisse da quelle della fanciulla alla cui dote verrà destinato l’oro.
Il meccanismo comico utilizzato nel corso del dialogo è, a conti fatti, immediato: si tratta del
classico malinteso, immancabile tassello nel puzzle ironico della futura commedia degli equivoci,
assimilabile in questo ad alcune barzellette. Anche alla base di determinate freddure, infatti, v’è la
cosiddetta perseverazione del pensiero, ampiamente studiata in tale ambito dalla Mizzau
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: ogni
singolo neurone d’un personaggio è talmente impegnato a ruotare attorno a una data idea fissa da
incastonarsi in essa, facendo sì che ciascun evento, o parola, venga percepita in relazione alla
propria fissazione.
Riportiamo dunque un paio di barzellette perfettamente esemplificative:
-Il parrucchiere alla signora cui ha tagliato la lunga chioma: “Li vuole indietro, i capelli?”
“No, li tenga pure lei”
-Passa di qui il 18?
-No, il 18 sono in ferie.
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Ora, se nella prima battuta il fraintendimento fiorisce dal diverso punto di riferimento adottato
automaticamente da ciascuno dei due interlocutori, nel secondo caso delineato la causa può essere
imputata all’egocentrismo d’uno dei due.
Innanzi ad entrambe le storielle, però, non possiamo evitare di sorridere. Ciò avviene, talora,
anche grazie alla vicinanza, la sintonia che proviamo nei confronti dei protagonisti. In fondo, l’esser
preda di equivoci e fraintendimenti è situazione in cui chiunque di noi è capitato, almeno una volta.
Nel caso del protagonista d’un racconto, o d’una commedia, infatti, come a proposito appunta
Olbrechts-Tyteca
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, anche lo spettatore/ascoltatore finisce per immedesimarsi nel corto circuito
psichico d’un personaggio legato soltanto alle proprie preoccupazioni al punto tale da ritornar alla
realtà solo nell’istante in cui l’intenzione comunicativa dell’altro viene definitivamente esplicitata.
2
Plauto, Aul. vv. 733-763 in Lindsay 1968.
Liconide: L’azione che ti sconvolge il cuore, l’ho commessa io, lo confesso. […]
Un dio mi ha spinto, lui mi ha attratto verso di lei. […]
Dal momento che ho osato toccarla, non cerco dei pretesti ma voglio averla nel migliore dei modi.
Euclione: Tu vorresti tenerla contro la mia volontà? […]
Ormai per Ercole ti trascinerò dinanzi al pretore, e ti farò causa, se non me la restituisci…
Liconide: Che cosa dovrei restituirti?
Euclione: Quel che mi hai rubato.
Liconide:Io ho rubato a te? Dove? Cosa significa?
Euclione: Che Giove ti protegga, come se non lo sapessi!
Liconide: Ameno che tu non mi dica che cosa cerchi.
Euclione: La pentola dell’oro […]
4
Von Albrecht 1995-1996 pag. 550.
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5
Mizzau 2005 pag. 45
6
Olbrechts-Tyteca 2007 pag. 113.