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Introduzione
Il presente elaborato nasce dall’intenzione di approfondire alcuni aspetti
dell’area di studi nota come Language and Gender.
In particolare, si propone di indagare le relazioni esistenti tra la lingua,
l’identità e il genere, di rivelare come questi elementi siano strettamente
correlati tra loro e di come si condizionino reciprocamente.
Con l’intenzione di produrre una trattazione che sia il più scevra possibile
da eventuali fraintendimenti, è bene fare un chiarimento preliminare su ciò
che oggi si intende col termine genere, distinto da ciò che è inteso dal
termine sesso.
Il termine sesso è da riferire a una distinzione di natura biologica: riguarda,
cioè, il corredo genetico, i caratteri biologici, fisici e anatomici che
producono il binarismo fisico definito maschio/femmina.
Diversamente, il termine genere è da intendere come una costruzione
sociale: un prodotto storico, culturalmente specifico e dinamico,
condizionato cioè dai contesti storici e geografici in cui viene concepito;
una rappresentazione socialmente indotta di comportamenti che vengono
applicati esteriormente al concetto di sesso e danno vita allo status di uomo
o donna.
E in un’ottica internazionale, si può far riferimento alla definizione di
genere data dal Consiglio d’Europa:
Genere è la definizione socialmente costruita di donne e uomini.
E’ l’immagine sociale della diversità di sesso biologica,
determinata dalla concezione dei compiti, delle funzioni e dei
ruoli attribuiti a donne e uomini nella società e nella sfera
pubblica e privata. E’ una definizione di femminilità e
mascolinità culturalmente specifica, che come tale varia nello
spazio e nel tempo. [...]
È anche una definizione culturalmente costruita della relazione
tra i sessi. In questa definizione è implicita una relazione
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ineguale di potere, col dominio del maschile e la subordinazione
del femminile nella maggioranza delle sfere della vita.
(Consiglio d’Europa, 1998)
È innegabile che la maggioranza delle società funzioni in termini di due
generi, femminile e maschile, concepiti come fortemente distinti.
Tra le distinzioni più marcate c’è quella che riguarda la lingua, da intendere
sia nelle modalità con cui viene usata per comunicare con gli altri, sia nelle
modalità con cui è utilizzata per comunicare a proposito degli altri.
Obiettivo di questa tesi è mostrare come essa rivesta una funzione
essenziale nel produrre e mantenere le asimmetrie presenti nella società, nel
riflettere e perpetuare i ruoli sociali e nel costruire le identità sociali.
La prima parte dell’elaborato prende avvio dall’analisi delle relazioni
esistenti tra lingua, ideologia, istituzioni e potere. Si attinge, in particolare,
al lavoro di Norman Fairclough (1995) e alle sue ipotesi su come ci sia un
fortissimo legame tra l’assetto gerarchico della società così come la
conosciamo e gli ordini del discorso che ne sono alla base.
Secondo Fairclough, l’organizzazione sociale tutta, con le sue istituzioni
politiche, sociali ed economiche, è il prodotto di pratiche egemonico-
discorsive imposte dal gruppo dominante per perpetuare il sistema sociale
che maggiormente si confà alla persecuzione e al conseguimento dei suoi
interessi. Le pratiche discorsive rivestono, in questo impianto, un ruolo
essenziale in quanto è tramite esse che vengono costruiti, riprodotti,
trasmessi e inculcati gli ordini del discorso che servono a naturalizzare le
pratiche sociali imposte dai gruppi dominanti e a presentarle come normali,
logiche portatrici di un ordine naturale.
Tali pratiche e tali ordini del discorso sono utilizzati, naturalmente, anche
per modellare le relazioni tra gli individui, il modo in cui si devono
comportare in determinati contesti e il modo in cui si devono rapportare coi
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loro interlocutori a seconda del loro status.
È questo particolare aspetto che è di primaria importanza per la nostra
trattazione, in quanto le relazioni di genere, tra donne e uomini, ne risultano
essere profondamente condizionate.
La seconda parte della tesi verte più specificatamente verso le varie
modalità di comunicazione adottate da donne e uomini.
L’attenzione nei confronti dei vari stili linguistici con cui soggetti maschili
e femminili comunicano ha iniziato a essere sviluppata in maniera rilevante
negli anni ’70.
Numerose e variegate sono state le ricerche e gli studi condotti che,
progressivamente, hanno messo in luce aspetti prima sconosciuti e rivelato
la falsità di tutti quei luoghi comuni e stereotipi che, comunemente definiti
dagli accademici folklinguistics, erano e continuano ad essere, tuttavia,
molto diffusi e considerati quasi dei dogmi nella nostra società.
Agli albori di questi studi, che possiamo far risalire agli anni ’60, le ricerche
sul rapporto tra lingua e genere si basavano principalmente su un modello
che classificava i parlanti essenzialmente in base alla loro appartenenza al
sesso biologico.
Con l’avanzare dell’interesse verso questo campo di studi e con l’affinarsi
delle metodologie applicate, assistiamo, tra gli anni ’70, ’80 e ’90, al
nascere delle prime speculazioni intellettuali che si basavano sulla categoria
del genere. Durante questo periodo predominarono gli approcci di natura
etnografica.
Negli anni successivi, invece, sono emersi metodi dinamico-sociali che
hanno reso possibile la combinazione di ricerche quantitative e qualitative.
Nel presente elaborato, si è ritenuto pertanto opportuno iniziare con una
panoramica, necessariamente sintetica e selettiva, delle numerose ricerche
che sono state condotte per trattare la particolare area di studio di language
and gender.
Nel voler delineare brevemente i diversi approcci teorici e metodologici di
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indagine che si sono succeduti e, a volte, sovrapposti, possiamo avviare il
discorso col sottolineare che, tradizionalmente, in quest’area di studi, si
attribuisce un ruolo pionieristico al popolare saggio di Robin Lakoff,
Language and Woman's Place (1975).
In quest’opera, l’autrice porta avanti un’indagine sociolinguistica che,
sebbene sia stata tacciata di mancanza di rigore metodologico, tuttavia
detiene il merito di porre le basi della questione.
Lakoff si era concentrata, in particolare, sulle differenze linguistiche tra
uomini e donne nelle interazioni, dandone una spiegazione in termini
culturali: donne e uomini, a suo avviso, differiscono nel parlare a causa
dell’educazione ricevuta, che è da considerare come parte di una
socializzazione che prepara gli uomini alla vita pubblica e le donne alla vita
casalinga.
Successivamente a Lakoff, sono principalmente due gli approcci teorici e
metodologici che si è deciso di prendere in considerazione, the difference
approach e the dominance approach.
Le ricerche che assunsero una prospettiva dominance tendevano a
interpretare le differenze tra parlanti maschili e parlanti femminili come un
riflesso delle relazioni di dominio/subordinazione esistenti tra i due gruppi.
In quest’ottica, le interazioni discorsive e gli stili linguistici adottati non
facevano altro che perpetuare le relazioni asimmetriche di potere esistenti
tra individui femminili e individui maschili.
Al contrario, le indagini che partivano da una difference perspective
ritenevano le differenze di stile linguistico come il prodotto di differenti
sub-culture in cui donne e uomini venivano socialmente inseriti.
Le prime analisi sembrano potersi ricondurre alla prima corrente.
Tra i suoi numerosi rappresentanti si è fatto cenno a studiosi quali
Zimmerman & West (1975) e Pamela Fishman (1983).
The difference approach, invece, si sviluppò in seguito non tanto per negare
la presenza di elementi di dominio e oppressione nelle relazioni tra uomini
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e donne, quanto per sottolineare che non fosse soltanto quello l’unico
fattore ad essere operativo in tali interazioni. E, in particolare, si cercava di
evidenziare il fatto che parlare di differenze linguistiche non doveva
necessariamente condurre a considerare lo stile maschile come la norma e
quello femminile come la deviazione da essa.
La prospettiva difference si focalizzò, poi, sulla natura educativa delle
differenze linguistiche. Tali differenze vennero imputate, così, a motivi di
natura culturale: la teoria proposta era che gli uomini e le donne siano
individui che ricevono diversi tipi di educazione fin dalla nascita; essi
vengono socializzati in due distinte maniere fin da piccoli e, pertanto,
appartengono a due sub-culture separate con norme diseguali.
Di conseguenza, sviluppano comportamenti, in gran parte linguistici,
diversi tra di loro, che vengono perpetuati, supportati e intensificati anche
durante l’età adulta.
Questo impianto teorico fu portato alle sue estreme conseguenze
nell’ambito del cultural difference approach, nel corso degli anni 80’ e ’90
da autrici come Deborah Tannen (1990; 1996), che ottenne anche un certo
successo, se non altro di natura popolar-commerciale.
Le ipotesi di Tannen sono anch’esse tra quelle prese in considerazione nel
corso di questa trattazione e messe a confronto con le teorie di altri studiosi
che hanno invece fortemente criticato le sue basi teoriche.
A Tannen è stato, infatti, rimproverato da molti studiosi di essersi spinta
troppo oltre nell’applicazione della prospettiva difference.
Le è stata contestata, in particolar modo, l’assoluta mancanza di attenzione
nei confronti di aspetti di fondamentale importanza quali le dinamiche di
dominio che sono alla base delle interazioni tra donne e uomini: fattori
come il dominio e il potere erano completamente scomparsi dalla sua
analisi.
Gli effetti di tale mancanza di attenzione verso la dimensione determinante
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del dominio hanno fatto sì che la difference perspective fosse fortemente
ridimensionata, senza che ciò però si risolvesse totalmente a favore della
dominance perspective. Vedremo anzi come elementi di entrambi gli
approcci siano stati assimilati e/o superati dagli studiosi che si sono
occupati della questione in seguito.
La tesi attinge anche ad indagini di natura più prettamente sociolinguistica,
come quelle condotte da Jennifer Coates (1993; 1998). In quanto studio
delle lingue nel loro contesto sociale, la sociolinguistica ha applicato
all’analisi delle differenze comunicative tra donne e uomini il criterio di
linguistic variation, ovvero la nozione secondo cui il modo in cui parliamo
non differisca soltanto in funzione di caratteristiche del parlante come età,
genere, classe sociale o origine geografica (si parla in questo caso di social
variation), ma possa variare anche a seconda del contesto sociale in cui ci
troviamo (in questo caso parliamo di stylistic variation).
Molti analisti erano, infatti, già giunti alla conclusione che non si potesse
considerare il genere in maniera avulsa da altri fattori che influenzano la
nostra vita sociale.
La analisi sociolinguistiche giungono così a fare un’ulteriore tipo di
distinzione, quella tra majority e minority, riferendosi con questi due
termini rispettivamente ai gruppi dominanti che detengono il potere in una
società e a quelli che vi sono soggetti.
Le differenze linguistiche diventano così un’ulteriore espressione delle
relazioni di dominio/subordinazione tra i due gruppi.
Sembra quasi superfluo aggiungere che col termine minority ci si riferiva
nella maggioranza dei casi alle donne.
Nella terza parte della trattazione, l’attenzione è stata rivolta ad alcune
teorie emerse in anni più recenti, a nuovi metodi e basi teoriche avanzate
per affrontare il tema e a studiosi che ne hanno esaminato altri aspetti
adottando una prospettiva del tutto inedita.
E, in particolare, nuovi orientamenti ritengono che il genere non sia
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nemmeno un elemento la cui esistenza sia da considerare reale, in quanto
non si tratterebbe altro che di una costruzione sociale, prodotta attraverso
atti anche linguistici.
La convinzione che il concetto di genere sia una produzione discorsivo-
culturale utilizzata per supportare un sistema sociale gerarchizzato basato
sul binarismo uomo/donna è stata avanzata da studiosi quali Judith Butler,
di cui si esaminerà, nello specifico, la posizione assunta nella sua opera
Gender Trouble (1999). Si prenderà in esame la teoria della performativity,
ovvero l’ipotesi secondo cui l’identità sociale e, in primis, di genere sia il
frutto di una serie di atti performativi stilizzati, la cui ripetizione nel tempo
e nello spazio conferisce loro legittimità e lo status di elementi innati
realmente esistenti, mentre in realtà si tratta di atti artefatti che non
producono nulla più che la mera illusione dell’identità.
Nel corso della trattazione, si avrà anche l’occasione di presentare
un’analisi lessicale che dimostri come la lingua sia stata spesso utilizzata
per deformare la realtà ontologica dell’identità femminile. Più chiaramente,
si mostrerà come la rappresentazione della donna abbia, nel corso della
storia, sistematicamente subito una degradazione semantica in modo tale
che l’identità sociale femminile ne fosse condizionata, ridimensionata,
schernita e limitata, quando non proprio oltraggiata e vilipesa.
La trattazione, infine, propone alcune strategie che possano essere d’aiuto
nell’esposizione e nello smascheramento del falso concetto di identità di
genere, per come è inteso nella cultura occidentale. Verranno analizzate le
ipotesi che ne rivelano la natura frammentaria e che suggeriscono le
modalità ritenute più efficaci per sfidare la legittimità di cui gode nella
nostra società.
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CAPITOLO 1
LINGUA E IDEOLOGIA
La relazione tra lingua e ideologia è una questione discussa a lungo,
soprattutto per quanto riguarda il tema della collocazione dell’ideologia: a
seconda dei diversi punti di vista assunti dagli studiosi, essa è presente nelle
strutture della lingua o negli eventi discorsivi.
Fairclough
1
si inserisce nel dibattito per suggerire l’idea che l’ideologia sia
presente in entrambe. Essa investe la lingua in vari modi e a vari livelli.
Egli fa notare come, se fosse presente nelle sole strutture, gli eventi
verrebbero messi in secondo piano, considerati come semplici
manifestazioni delle strutture; questo privilegerebbe la prospettiva secondo
cui gli eventi si riprodurrebbero sempre uguali senza cambiamenti, in una
logica della ripetitività. Ipotizzando, invece, la presenza dell’ideologia
all’interno dei soli eventi discorsivi, si potrebbe rischiare di considerare la
formazione del discorso come un processo libero da costrizioni esterne.
Entrambe le possibili collocazioni risultano, dunque, essere limitative. Le
ideologie, in realtà, vanno al di là dei confini delle situazioni discorsive e
delle istituzioni. Bisogna essere in grado di analizzare come esse
trascendano i particolari tipi di discorso e di eventi discorsivi e come si
rapportino ad essi nella loro strutturazione e ristrutturazione. Bisogna
andare a indagare anche elementi di scala minore come i sistemi di scambio
dei turni o i lessici utilizzati, per esempio. I discorsi, poi, secondo
Fairclough, possono essere così estesi ed eterogenei da essere in grado di
comprendere sia entità compatibili e complementari tra loro che entità
contraddittorie.
L’ideologia si colloca dunque sia nelle strutture, che sono il risultato di
eventi passati e la condizione per gli eventi presenti, sia negli eventi stessi
1
N. Fairclough, Critical Discourse Analysis. The Critical Study of Language. London, New York,
Longman, 1995, pp. 71-72.
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che riproducono e trasformano allo stesso tempo le strutture che li
determinano.
Il discorso è implicato in processi e relazioni sociali che determinano
sistematicamente variazioni delle sue caratteristiche. Esso, da un alto, è
modellato dalle strutture, ma contribuisce a sua volta a modellarle e a
rimodellarle, a riprodurle e a trasformarle. Queste strutture hanno una
natura essenzialmente discorsivo-ideologica, ma riguardano anche
componenti economiche, politiche, le relazioni di genere e tutte le altre
relazioni all’interno della società civile. E il rapporto del discorso con
queste strutture è di natura organica: l’ideologia, cioè, ha effetti materiali,
contribuisce alla creazione e alla costante ri-creazione delle relazioni e dei
soggetti che popolano il mondo sociale. La relazione genitori-figli, per
esempio, o l’idea stessa di famiglia, sono tutte modellate dai processi
ideologici del discorso.
Il discorso è, per Fairclough, composto di tre elementi: pratica sociale,
pratica discorsiva (composta a sua volta da produzione, distribuzione e
ricezione dei testi) e testo. L’analisi del discorso dovrebbe soffermarsi su
ognuna di queste componenti e sulle relazioni tra di esse. L’ipotesi avanzata
è che esisterebbero delle significative connessioni nei modi in cui i testi
sono messi insieme e interpretati.
L’ideologia si inserisce in questo quadro innanzitutto tramite l’impiego
ideologico degli elementi utilizzati per produrre o interpretare i testi, dei
modi con cui sono articolati in ordini del discorso
2
e poi tramite il modo
con cui questi ordini del discorso sono ri-articolati negli eventi discorsivi.
Tutti gli aspetti della lingua sono implicati. E non è solo una questione di
contenuti e di scelte lessicali.
La scelta del lessico è certamente importante, ma lo sono anche i
2
L’espressione order of discourse è utilizzata da Fairclough nell’accezione attribuitagli da M.
Foucault in L’ordre du discours, Paris, Gallimard, 1971. Traduzione italiana: L’ordine del
discorso, Torino, Einaudi, 1972.
L’ordine del discorso, in senso foucaultiano, è da riferirsi alla totalità delle pratiche discorsive
di un’istituzione e alle relazioni tra di esse.
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presupposti su cui si basa una conversazione, le implicazioni, le metafore,
la coerenza e tutti gli aspetti formali della lingua.
L’opposizione tra forma e contenuto, per esempio, è, per Fairclough,
fuorviante, anche perché non c’è contenuto che non giunga al suo pubblico
tramite una veste formale. Anche le caratteristiche formali di un testo,
quindi, sono investite ideologicamente a vari livelli.
Le convenzioni di scambio dei turni nel parlare in classe tra professori e
alunni, per esempio, implicano una determinata rappresentazione ideologica
della loro relazione.
Anche lo stile di un testo può assumere valenze ideologiche. La scelta di
uno stile piuttosto che un altro da parte di un soggetto sociale, per esempio,
può essere indice della sua volontà di costruirsi un’identità sociale tramite
la lingua.
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3
Fairclough (1995), op. cit., pp. 73-75.