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1. INTRODUZIONE.
L’introduzione è spesso una parte dello scritto nella quale vengono dette cose di poco conto
rispetto al tema centrale che viene poi sviluppato.
Questa “regola” qui non vale.
1.1 Pensare, dialogare.
Per rendere il presente scritto massimamente intelligibile è opportuno chiarire o evidenziare alcuni
punti che, non esplicitati, rischiano di lavorare alle spalle del lettore (e di chi scrive?) rendendo
difficile il dialogo.
Ecco dunque già un primo punto. Fra i fini che questo lavoro si pone vi è quello di dialogare sui
temi via via affrontati.
- «Socrate – Benissimo. Con il termine pensare, dunque, intendi ciò che intendo io?
- Teeteto – E tu cosa intendi?
- Socrate – Il discorso che l’anima svolge fra sØ e sØ, riguardo a ciò che prende in esame.
Certo, sono da ignorante le spiegazioni che ti do. Secondo me, questo suo [190a] pensare,
non assomiglia a nient’altro che a un dialogare, ponendo a se stessa domande e traendo
da sØ le risposte, affermando e negando»
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.
Davvero pensare è sempre interrogarsi e rispondere? Ridurre tutto il pensare a interrogativi e
risposte è negare alcuni aspetti dell’umano pensare?
Qual è la relazione fra pensiero e silenzio? Il silenzio è assenza di pensiero? E questa assenza è
assenza di qualsiasi consapevolezza?
Lasciamo per ora aperte queste domande. Una cosa però pare doversi concedere: se queste
domande ci interpellano – se sono cioè per noi domande –, sia che lasciamo perdere, sia che ci
mettiamo alla ricerca di risposte, il dialogo è avviato.
1.2 Breve dialogo sul dialogo.
- Stavo pensando al dialogo
- In che senso?
- Quali pensi siano le condizioni affinchØ il nostro sia un dialogo? ¨ sufficiente che parliamo,
intendendo, ciascuno dei due, ciò che diciamo?
- No. Potrebbe anche essere un dialogo fra sordi, cioØ un non-dialogo.
- Sono d'accordo. Di che cosa abbiamo bisogno?
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Platone, Teeteto, 189 e – 190 a.
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- Penso che dobbiamo parlare di qualcosa. Senza un oggetto di cui parliamo, credo non ci
possa essere dialogo.
- Concordo. Aggiungo che penso anche che dobbiamo partire da qualcosa di comune. Il
dialogo non c'è se non abbiamo di mira qualcosa di comune. Se tu parli di studiare e io
capisco nuotare, come potrà esserci dialogo?
- Giusto. Inoltre, mi devi volere dire qualcosa riguardo a quell'oggetto. Fosse anche
semplicemente dirmi che appare, o che non esiste.
- E tu, mi dovrai ascoltare, perchØ vi sia dialogo. E dovrai dirmi se sei d'accordo o meno o se
non sai che cosa dirmi a riguardo. In quest'ultimo caso, vi sarà una battuta d'arresto, che io
potrò cercare di superare affermando qualcos'altro. Altrimenti potrai dirmi che sei d'accordo
completamente, oppure che sei in completo disaccordo, o, infine, che sei d’accordo ma non
perfettamente (tema interessante, quest’ultimo, per tentare di comprendere l’analogia. Vi
torneremo piø avanti). In caso di accordo completo, il dialogo sul tema in senso stretto
terminerà. In caso di completo disaccordo o di accordo solo parziale, potrà essere che tu
mi dica perchØ non sei d'accordo. Se me lo dirai, toccherà a me fare quanto hai fatto.
- Sono…d’accordo! Vorrei capire una cosa. Che cosa significa che dovremo ascoltarci? Che
cosa significa ascoltare in un dialogo?
- Significa che ciascuno deve verificare se ciò che l'altro dice è vero. E controllare, alla luce
di ciò che l'altro dice, se ciò che egli stesso pensa riguardo all’oggetto del dialogo è vero.
- Penso tu abbia ragione. Quindi dobbiamo avere delle cose che consideriamo vere ed
essere disposti a vedere se davvero siano tali. Ma se sono cose che consideriamo vere,
come potremo metterle in discussione? E vedere se siano davvero cose vere non è una
cosa assurda?
- Non credo sia assurda. La verità non teme il confronto. Va bene che tu ritenga di
conoscere come sta una certa cosa, ma ciò non toglie che tu possa controllare se sia
davvero come pensi, alla luce di ciò che ti dico.
- Ma allora, se ogni verità che ritengo tale deve essere messa alla prova per vedere se sia
davvero tale, non possiederò mai una verità. ¨ così?
- Anche l'evidenza, la consapevolezza, dei principi primi è qualcosa di raggiunto. Frutto di un
movimento che è stato il metterli in dubbio. E qualche volta sembra che abbiamo l’esigenza
di ripercorre questo movimento.
- La difesa del principio di contraddizione da parte di Aristotele forse è difesa anche rispetto
a una parte di Aristotele stesso, in un dialogo dell'anima di Aristotele con se stessa.
- Ora, guardando indietro, vedo che abbiamo parlato. ¨ stato un dialogo? Tutte queste cose
ci sono state?
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1.3 Perchè dialogo.
La tradizione del dialogo è, all’interno del pensiero filosofico, antica e coltivata. Basti pensare ai
dialoghi di Platone o Leibniz.
Il dialogo, inoltre, sembra essere ancor piø diffuso rispetto ai casi in cui è esplicito. Si pensi al
metodo delle quaestiones disputae («questioni » e «dispute» non sono dialogo?) o ai
«Respondeo» dI Tommaso d’Aquino.
Proprio il dialogo, poi, sembra strumento di dialogo. Non è (solo) un gioco di parole. Attraverso la
struttura dialogica dell’esposizione pare piø agevole coinvolgere il lettore, renderlo partecipe dello
svolgersi del pensiero.
Infine: non è la domanda il primo passo nel tentativo di capire come stiano le cose? Non è, quindi,
il dialogo (la domanda attende una risposta) la forma originaria del pensare teso al vero? Mettere
in discussione non è un passo necessario nel ricercare? E la discussione non è un modo del
dialogo? E, se è così, perchØ è così? Vi è qualche relazione fra questo dialogare e la coscienza
umana? La coscienza di sØ e la coscienza di altro da sØ sono legate, sono “in dialogo”?
Per questi motivi – di cui forse sarebbe da ricercare l’analogato principale – si troveranno, nel
corso del lavoro, numerosi dialoghi.
1.4 Esperienza.
- Dialogheremo su cose diverse. Ma ora domando: abbiamo un oggetto principale, che in
qualche modo delimiti – sia pure con una certa elasticità – l’ambito del nostro domandare?
- Sì. Possiamo dire, in modo per ora un po’ vago, che ci occuperemo della coscienza.
- E con chi dialogheremo? Ho letto molti lavori su questo tema. Quanti pareri discordanti!
Inoltre, ci sono prospettive che viaggiano senza mai confrontarsi. Gli scienziati, quelli che
fanno esperimenti, percorrono spesso una strada che mai incrocia quella di chi sta a
pensare fuori dai laboratori. E anche fra questi ultimi si trovano opinioni diverse e
contrastanti. Molti sono i libri pubblicati, molti i punti di vista, molti i punti sui quali non c’è
accordo. D’altra parte, non ho incontrato spesso dialoghi aperti fra persone in disaccordo
fra loro: sembra quasi che si eviti il dibattito, spesso si ritrovano fra loro persone che
condividono, in linea di massima, un medesimo pensiero.
- Il tema è difficile. E, a guardar bene, forse qualsiasi tema è difficile. Propongo però di
provare a rendere il cammino piø agevole possibile e aperto a persone con retroterra
culturali diversi – pur non concedendo nulla alle cosiddette “semplificazioni”, che spesso
non sono altro che mistificherie piø o meno volontarie. Vi sarà chi frequenta il laboratorio ed
effettua analisi empiriche, chi frequenta l’ermeneutica, chi si dice filosofo analitico e così
via.
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- E come faremo?
- Cercheremo di mantenerci ancorati a ciò che sperimentiamo. In questo senso è
un’esperienza sia vedere un gatto che corre, sia accorgersi che non si può negare di
pensare. L’esperienza, così intesa, accompagna anche chi entra in laboratorio, e il
laboratorio non la può sconfessare. Ti faccio un esempio. Stai leggendo ciò che qui è
scritto?
- Sì.
- Qualche esperimento in laboratorio potrebbe mostrare che ciò non è vero?
- Non saprei. Io pensavo ad esempio che, quando una persona legge una frase, tutte le
informazioni gli provenissero da ciò che legge. Mi hanno spiegato che, invece, spesso
completiamo il testo con informazioni che non sono contenute nel testo stesso. Se
togliessimo qualche vocale qui e là, forse non te ne accorgeresti. Inoltre, io credevo di
leggere nel presente! Non è ovvio? Invece le informazioni non arrivano immediatamente al
cervello. Devono percorrere lo spazio che va dalla pagina agli occhi, poi quello che va dagli
occhi al cervello.
- Bene, ma questo implica che le persone non leggano? Che il termine ‘leggere’ non abbia
piø nulla a che fare col significato che per te aveva prima?
- Dire così mi sembra eccessivo.
- Ti propongo questo modo di vedere la cosa. Un conto è sapere se leggiamo (an sit), un
altro conto è sapere che cosa sia la lettura, con tutte le sue cause (quid sit). Non è così
anche per la coscienza? Un conto è sapere se siamo coscienti, altra cosa è sapere che
cosa sia la coscienza. Una volta capito che leggiamo, possiamo cercare di capire che cosa
sia questo leggere, come si possa spiegare il fatto che leggiamo. Ecco, in questo senso
vorrei partire dall’esperienza comune di chi ha retroterra culturali diversi. Cercheremo di
mantenerci ancorati all’esperienza, a ciò che esperiremo nel corso del dialogo. In questo
senso, è chiaro, l’esperienza non è qualcosa che facciamo solo in laboratorio: là, come
qua, ci siamo noi-facenti-.esperienza-di-qualcosa, spesso anche del nostro riuscire, o
meno, a capire.
1.5 Con chi dialogheremo. Piano del lavoro.
Il tema di questo scritto – che per ora abbiamo definito, in modo vago, come “la coscienza” – sarà
studiato, innanzitutto, “attraverso” due linee di indagine in relazione reciproca: la verità e la
materia.
Ci proponiamo di mostrare, infatti, come coscienza, verità e immaterialità si richiamano a vicenda.
In funzione contraddittoria, ci accompagneranno i temi dell’interpretazione, del cosiddetto
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‘relativismo’ e del materialismo.
All’interno del lavoro si possono individuare, oltre all’introduzione, sei parti.
Nella prima parte ascolteremo criticamente alcuni passi di Carlo Sini. Ascoltare criticamente
significa ascoltare alla luce della domanda: in ciò che dice, ha ragione? Cercheremo quindi di
giudicare se Sini abbia, in ciò che dice, ragione o meno.
- Ecco, un altro che giudica!
- Ebbene, è così. Ma puoi tu fare altrimenti?
- Sì, osservo senza giudicare.
- ¨ questo ciò che hai fatto affermando «Ecco, un altro che giudica!». Non hai inteso
implicitamente affermare – giudicare – che non dovrei giudicare?
Abbiamo scelto di studiare il pensiero di Carlo Sini perchØ, almeno a un primo sguardo, eredita la
tradizione ermeneutica senza tuttavia giungere alla negazione della “possibilità di pensare” – e
anzi denunciando tale negazione come contraddittoria – e, d’altra parte, nega il senso di una
verità che non sia un (particolare) punto di vista.
Nella seconda parte esamineremo panoramicamente alcune posizioni contemporanee, che si
rifanno principalmente alla tradizione empirica del mondo anglosassone, relativamente alla
questione del punto di vista, dell’interpretazione e della coscienza.
Nella terza parte analizzeremo la posizione di John R. Searle. Abbiamo scelto Searle anche per le
relazioni e i contrasti rispetto al pensiero di Carlo Sini.
La quarta parte sarà un breve studio del pensiero di John R. Searle.
La quinta parte sarà dedicata allo studio di un’opera di F.-X. Putallaz dedicata alla riflessione
dell’intelletto in Tommaso d’Aquino.
La sesta e ultima parte sarà dedicata a un’analisi critica dell’autocoscienza, ricorrendo
principalmente al pensiero di Tommaso d’Aquino.
Le diverse parti del lavoro non sono compartimenti stagni. Ciascuna parte utilizzerà anche i
risultati, le scoperte (verità come λήθεια?) delle sezioni precedenti. Anche nelle parti dedicate, in
modo preferenziale, a un autore, lasceranno spazio all’intervento di pensieri di altri.
Di ciò che scriveremo, e di ciò che altri hanno scritto sul tema dell’autocoscienza non importa, in
sede teoretica, sapere chi ne sia l’autore. Importa, invece, sapere se sia vero o falso
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«Dicunt autem quidam quod isti poetae et philosophi, et praecipue Plato, non sic intellexerunt secundum quod
sonat secundum superficiem verborum; sed suam sapientiam volebant quibusdam fabulis et aenigmaticis
locutionibus occultare; et quod Aristotelis consuetudo fuit in pluribus non obiicere contra intellectum eorum, qui erat
sanus, sed contra verba eorum, ne aliquis ex tali modo loquendi errorem incurreret, sicut dicit Simplicius in
commento. Alexander tamen voluit quod Plato et alii antiqui philosophi hoc intellexerunt quod verba eorum exterius
sonant; et sic Aristoteles non solum contra verba, sed contra intellectum eorum conatus est argumentari. Quidquid