INTRODUZIONE
Questa tesi nasce dall'osservazione della diffusa tendenza negli studi accademici
e nella critica cinematografica di attribuire al regista tutti i meriti di un film, anche nel
caso di film evidentemente narrativi e nei quali la sceneggiatura non è scritta dal regista.
Se ci appare operazione giusta e condivisibile dedicare volumi, saggi e articoli a
Quentin Tarantino, Woody Allen, Sofia Coppola, Wes Anderson e tutti quei registi autori
completi che curano con la stessa attenzione la sceneggiatura quanto la messa in scena,
è altrettanto corretto allora continuare ad assegnare in maniera automatica la paternità al
regista anche quando ci troviamo dinanzi a film nei quali sceneggiatore e regista non
coincidono? E, soprattutto, come posizionare quest'ordine di discorso in un panorama
contemporaneo dominato dall'eccellenza dei seriali televisivi, i quali paiono aver
-secondo voci più che autorevoli -ormai superato il cinema stesso e nei quali sono,
invece, gli sceneggiatori ad avere l'egemonia assoluta?
Nel corso dei cinque capitoli che compongono la tesi proverò a rispondere a
queste ed altre domande, riportando esempi, teorie, contraddizioni e quant'altro possa
essere utile per ricostruire (ipotizzandone risposte e sviluppi futuri) il dibattito
sull'autorialità negli audiovisivi.
Questa indagine mi ha portato ad attraversare, anche se per sommi capi, l'intera
storia del cinema: nel primo capitolo parto dai lavori dei fratelli Lumière, passando per
gli esperimenti di Georges Méliès, alla ricerca di tracce autoriali e di una prima teoria
sistematica di autorialità intesa come regia che trova espressione nei primi anni
Cinquanta in Francia con la politique des auteurs sviluppata da François Truffaut nelle
pagine della rivista francese Cahiers du cinéma prendendo spunto dalle teorie formulate
qualche anno prima da Alexandre Asturc e Andrè Bazin. Seguendo i fortunati sviluppi
di questa teoria (dai contributi di Jean-Luc Godard per finire con le varianti anglofone
apparse negli anni Sessanta) proverò ad evidenziarne pregi e difetti, questi ultimi anche
attraverso le perplessità esposte già all'epoca da Bazin e Barthélémy Amengual.
Nel secondo capitolo sposto l'attenzione sugli sceneggiatori cercando di
metterne in evidenza l'essenziale lavoro svolto – spesso sotto traccia – nelle più
importanti filmografie mondiali: dal cinema hollywoodiano, al neorealismo (Cesare
Zavattini) e la grande commedia italiana (Age&Scarpelli), passando per
l'espressionismo tedesco e il cinema sovietico. Chiude il capitolo l'analisi di quella che,
ad oggi, è l'unica vera contro-teoria sistematica che prova a riabilitare la figura dello
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sceneggiatore rispetto al regista: la Schreiber Theory elaborata nel 2006 dal critico
cinematografico americano David Kipen.
Nel terzo capitolo farò un salto indietro nel tempo fino alla Poetica di Aristotele
ma solo per poter rafforzare la posizione della scrittura rispetto alla messa in scena,
proprio come teorizzato dal filosofo greco nella sua opera. Ripescare gli insegnamenti
di Aristotele mi dà anche la scusa per mostrare come il dibattito sull'autorialità sia stato
affrontato già nel corso della storia delle teorie teatrali e come questo ci consenta di
comprendere quanto certe problematiche siano affini e ben presenti in entrambi gli
ambienti artistici.
Il capitolo successivo è dedicato alla serialità televisiva contemporanea, luogo
nel quale, finalmente, dopo decenni di svalutazione, gli sceneggiatori hanno trovato il
loro personale paradiso. La prima parte del capitolo è costituita da una veloce
storiografia della serialità, suddivisa in base alle tre grandi trasformazioni occorse dagli
anni Quaranta ad oggi (le tre Golden Age) dopo le quali non è difficile sentir parlare
oggi di una serialità che ha superato, da quasi tutti i punti di vista, il cinema. La seconda
parte è incentrata sugli autori (i cosiddetti showrunners) che hanno caratterizzato con le
loro opere gli ultimi, incredibili, anni della televisione americana.
Nell'ultimo capitolo, in base agli elementi raccolti precedentemente e
segnalando le posizioni più recenti all'interno di questo grande dibattito, cercherò di
trarre alcune conclusioni, ipotizzando la possibilità di una nuova teoria dell'autorialità
audiovisiva che possa garantire i giusti meriti non solo al lavoro degli sceneggiatori ma
anche a quello di tutte le altre maestranze che lavorano nel cinema e in televisione.
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L'AUTORIALITA' CINEMATOGRAFICA COME REGIA:
LA POLITIQUE DES AUTEURS
Nonostante qualcuno come Roland Barthes ne abbia decretato la morte (cfr.
Barthes, 1984, trad. it. 1988, pp. 51-56), la storia (critica) del cinema è percorsa nella
sua interezza da un accanito dibattito sull'assegnazione dello status di Autore. I film li
fanno i registi o gli sceneggiatori? I produttori o gli attori? Sono alcune delle domande
alle quali si tenta di rispondere da più di mezzo secolo, per un «work in progress» (La
Polla, in Pescatore, 2006, p.9) che, nonostante i punti messi a segno dalle rispettive parti
nel corso del tempo, non sembra aver fine.
1.1. L'autore all'alba del cinema
Prima di capire come nasce e si sviluppa il dibattito sull'autorialità
cinematografica (ampliando, successivamente, il discorso ai seriali televisivi), è
necessario interrogarsi sulle origini del concetto stesso di autore all'interno della storia
del cinema.
Quando nel 1896 i primi film dei Lumière incominciarono a diffondersi a
macchia d'olio nel mondo, ci si poteva riferire ai due fratelli come ai primi autori del
cinema? La risposta potrebbe essere più difficile di quanto sembri in apparenza.
Secondo Guglielmo Pescatore, ci troviamo, in questo caso, dinanzi ad un'ambiguità di
fondo: infatti essi ci «appaiono contemporaneamente come inventori del cinema e come
autori dei primi film» (2006, p. 14). Il nodo centrale del problema è principalmente di
carattere estetico. Questi brevi film, composti da singole inquadrature, sono spesso a
carattere quasi giornalistico piuttosto che di finzione, ideati per inserirsi (con evidente
interesse verso il profitto economico) all'interno di un circuito di divertimenti in
continua espansione. Tra piccoli teatri e spettacoli itineranti, il cinematografo è, dunque,
l'elemento di novità con il quale attirare il nuovo pubblico alfabetizzato delle grandi
città (cfr. Bordwell e Thompson, 1994, trad. it. 1998, pp. 59-60). Ma in tutto ciò, è
possibile parlare di autorialità?
E' di nuovo Pescatore a cercare di fornire una risposta:
Se dunque le vedute Lumière sono certamente oggetti estetici, in quanto oggetti di spettacolo,
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essi lo sono in una logica merceologica […]. Siamo dunque in presenza di un'estetica commerciale,
nell'ambito della quale più che di autore è opportuno parlare di istanza produttrice (2006, p. 15).
Sarebbe però sbagliato ridurre il lavoro dei Lumière solo a questo: nonostante si
parli di prodotti puramente commerciali, questi piccoli film contengono al loro interno il
germe di quella particolare visione d'autore, quella «registrazione meccanica di una
percezione» (Pescatore, 2006, p.16) che finirà poi per essere l'elemento centrale nella
costruzione dell'autore cinematografico (inteso come regista).
Se i fratelli Lumière sbocciano come imprenditori del cinema nascente, sempre
in Francia comincia a farsi notare un vero e proprio artista di questo nuovo mezzo:
George Méliès.
Illusionista e mago degli effetti speciali, raggiunge una grandissima notorietà in
Francia (ed in breve anche nel resto del mondo) con una serie di film di genere
fantastico di cui l'esempio più famoso è Viaggio nella luna (Le voyage dans la lune,
1902). Méliès, sebbene «criticato da alcuni studiosi per aver preferito l'uso di messe in
scene teatrali statiche agli esperimenti del montaggio» (Bordwell e Thompson, 1994,
trad. it. 1998, p.63), riesce ad elaborare uno stile unico tramite i suoi brillanti trucchi
realizzati direttamente in fase di ripresa, il tutto con una potenza iconografica tutt'ora
riconosciuta ed apprezzata. Possiamo dunque definire George Méliès il primo vero
autore del cinema? Se Bordwell e Thompson non fanno fatica a definirlo «uno dei più
importanti registi delle origini [del cinema]» (1994, trad. it. 1998, p.57), al contrario
Pescatore, non ravvisando la presenza di «una volontà autoriale che attraverso l'opera
trovi forma ed espressione», afferma che «l'artista Méliès va accostato piuttosto alla
figura dell'artigiano che non a quella dell'autore» e che «il [suo] contributo […]
nell'ambito della storia dell'autore è quello di situare il cinema, già nella sua fase
aurorale, nel campo dell'arte» (2006, p. 17).
E' il 1912 quando Méliès, inseguito dai creditori, è costretto a ritirarsi dopo aver
realizzato centinaia di film, ma per rintracciare una forte linea teorica che sancisca la
nascita e l'affermazione dell'autore cinematografico non è sufficiente neppure fare un
balzo in avanti di trent'anni. La motivazione di questo ritardo risiede nella
contraddizione secondo la quale
a un oggetto chiaramente individuato, il film, non corrisponde un soggetto altrettanto facilmente
individuabile, l'autore, e questo proprio a causa del processo di differenziazione dei ruoli professionali
della produzione cinematografica […] e se la contrapposizione regista-sceneggiatore rimane la più
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evidente […] durante tutti gli anni Dieci accade che ad essere indicati come possibili autori siano anche lo
scenografo, l'operatore, l'attore e soprattutto le case di produzione che nel frattempo si erano dotate di
marchi riconoscibili e di apparati pubblicitari che avevano anche lo scopo di imporre il nome della casa
presso il grande pubblico (Pescatore, 2006, p. 27).
Le cose cominciano a cambiare nel secondo dopoguerra in seguito alla
«accettazione ormai diffusa del cinema in quanto fatto di cultura» (Casetti, 1993, p.9) e
soprattutto in Francia, con l'uscita nel 1948 del celebre saggio sulla caméra-stylo nel
quale Alexandre Astruc paragona il lavoro del regista con la macchina da presa a quello
dello scrittore con la penna (cfr. Astruc, 1948, trad.it. 1984) e soprattutto con la nascita,
nel 1951, della rivista Cahiers du cinéma e gli scritti di un giovane critico: François
Truffaut.
1.2. François Truffaut ed una particolare tendenza del cinema
Nell'ambiente intellettuale francese dei primi anni cinquanta il clima è
caratterizzato da forti polemiche e tensioni (cfr. de Baecque, 1991, trad. it. 1993, pp. 63-
64) che toccano profondamente anche il cinema transalpino dell'epoca.
All'interno della redazione dei Cahiers du cinéma, infatti, si combatte contro la
mediocrità della produzione francese; ed in prima linea, contro quella che viene
(ironicamente) definita la «qualità francese», c'è François Truffaut, il quale cerca di
compattare l'intera rivista verso una linea critica il cui scopo finale è spiegare i motivi di
tale piattezza e al contempo «sapere chi ne deve essere salvato» (ivi, p. 65). Il tutto a
partire dal celebre articolo Une certaine tendence du cinèma française, pubblicato nel
gennaio del 1954 sul numero 31 dei Cahiers, con il quale Truffaut inizia la sua crociata
contro i vertici del cinema francese ed in particolare – ma non solo - gli sceneggiatori e
i loro adattamenti letterari. Il bersaglio principale è Jean Aurenche, accusato da Truffaut
di aver agito male non solo sul piano tecnico ma anche su quello morale: infatti,
prendendo in esame l'adattamento tentato da Aurenche sul Diario di un curato di
campagna (Journal d'un curé de campagne) di Bernanos (portato infine al cinema da
Robert Bresson nel 1951), Truffaut nota come lo sceneggiatore «ha tradito la morale del
cinema, mettendo in moto la sua tecnica di sceneggiatore, riscrivendo la scena,
reinventandola, anche, truccandola» facendo apparire così la sua tecnica come «una
sorta di assicurazione per la futura realizzazione, una maniera di offrire un conforto di
scrittura a un'arte che ha bisogno piuttosto ''di rischi, d'audacia e di libertà'' per essere
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veramente se stessa». Il tutto, ovviamente, rimarcando il ruolo del regista Bresson, il
quale, invece, di fronte alle difficoltà nel realizzare una difficile scena del romanzo «ha
reagito da uomo di cinema […] confrontandosi con essa attraverso la messa in scena dei
gesti, della luce» (ivi, p.75).
In quegli anni Andrè Bazin, uno dei fondatori della rivista, si sta sforzando di
garantire al cinema la propria autonomia artistica. In particolare, il teorico francese
cerca di vincere la diffidenza che vige in campo accademico nei confronti del mezzo
cinematografico, visto da una parte (Hollywood) come un semplice prodotto di una
macchina industriale e dall'altra (il cinema sovietico) come uno strumento di
propaganda politica. La soluzione è quella di individuare nel prodotto filmico una voce
autoriale: ovvero la mano del regista la cui messa in scena appare come un linguaggio
universale (cfr. Bazin, 1958-62, trad. it. 1973). Sfruttando questo terreno fertile, Truffaut
decide quindi di portare avanti una battaglia per rivendicare la fondamentale importanza
del regista per la riuscita artistica di un'opera cinematografica. Una battaglia che ha le
sembianze di una campagna politica: una politica degli autori.
Un'idea che «ha una sua storia e si pratica come politica, con i suoi difensori e i
suoi avversari, le sue regole e le sue circostanze» (de Baecque, 1991, trad.it. 1993, p.97)
e che nasce ufficialmente in un articolo del numero 44 dei Chaiers du cinèma del
febbraio 1955 dove François Truffaut difende l'Alì Babà (Ali Baba et les quarante
voleurs, 1954) di Jacques Becker. Dopo aver raccontato brevemente di essersene
innamorato solo alla terza visione (ed averlo disprezzato nelle due precedenti), Truffaut
spiega che, nonostante presenti numerosi difetti, il film di Becker è da apprezzare per il
lavoro svolto dal regista, il quale con pochi tocchi riesce a far dimenticare - almeno in
parte - i «tre elementi che impediscono la riuscita completa del film: la sceneggiatura
debole, poco rigorosa, la musica e Vilbert (uno degli attori protagonisti, nota mia)»
(Truffaut, 1955, in de Baecque, 2001, trad.it. 2003, p.37). Truffaut cita una scena in
particolare che esemplifica il lavoro di Becker:
C'è una scena in cui Fernandel, dopo aver recuperato il suo pappagallo fuggito nella caverna e
averlo rimesso in gabbia, riparte camminando prima molto in fretta e poi, bruscamente, in modo
maestoso, con passo leggero e felpato. Questa incrinatura di ritmo, questa rottura di movimento,
sottolineata abbastanza bene dall'interruzione nella musica e dalla sua ripresa su un tempo più lento,
inducono immancabilmente al riso senza che la sceneggiatura intervenga, senza che si possa parlare
propriamente di gag (ivi, p.36).
Sono queste piccolezze che fan sì che un film non possa essere semplicemente
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bollato come brutto o bello. Ed è per questo motivo che anche se fosse stato un film
brutto, Truffaut avrebbe difeso Alì Babà, perché esso «a dispetto della sua sceneggiatura
[…] è il film di un autore, un autore giunto a una maestria eccezionale, un autore di
film. Così, la riuscita tecnica di Alì Babà conferma la fondatezza della nostra politica, la
'politica degli autori'» (ivi, p.39). Ecco nata ufficialmente quella che Antoine de
Baecque definisce senza alcun dubbio «l'idea critica più celebre della storia del cinema»
(2001, trad.it. 2003, p.5). Ciò che la rende tale è non tanto la sua rigorosità teorica
quanto il suo essere un vero e proprio atto d'amore verso il cinema, i film e i grandi
registi: la politica degli autori non vive di meticolose analisi dei lungometraggi ma,
anzi, i critici ammettono i propri limiti di fronte al genio di questi grandi autori (cfr. de
Baecque, 1991, trad.it. 1993, pp.100-102). Esemplare, a tal proposito, è quanto dice
Truffaut – sempre sulle pagine della rivista - a proposito del film La torre di Nesle (La
Tour de Nesle, 1955): «è, se vogliamo, il meno bello dei film di Abel Gance. Ma poiché
si da il caso che Abel Gance sia un genio, La torre di Nesle è un film geniale» (Truffaut,
1955, in de Baecque, 2001, trad.it. 2003, p.41). L'obiettivo di Truffaut è chiaro: un film
non può essere giudicato come universo a se stante, non può essere slegato dal proprio
autore. Un film potrà anche avere decine di difetti, ma se il regista che lo ha messo in
scena ha ottenuto con le sue precedenti produzioni la nomea di 'genio', questi non può
aver perso questa sua qualità e, di conseguenza, non è concesso disprezzare, anzi, non
amare ogni sua pellicola. «La politica degli autori è questa maniera di amare tutto
Renoir, tutto Becker, tutto Rossellini, tutto Lang, tutto Hitchcock» difendendoli
appassionatamente «in nome di una visione e di una comprensione del loro talento di
metteurs en scène» (de Baecque, 2001, trad.it. 2003, p.7). L'idea è che non importa chi
ha scritto la sceneggiatura del film perché, se la messa in scena è curata da un grande
regista, in fondo quei film racconteranno tutti la stessa storia. Concetto, questo,
appoggiato anche da Alexandre Astruc che, in uno speciale su Alfred Hitchcock sulle
pagine dei Cahiers, si pronuncia così sulle opere del grande maestro inglese:
Quando un uomo dopo trent'anni, e attraverso cinquanta film, racconta pressapoco sempre la
stessa storia […] mi sembra difficile non ammettere che ci troviamo una volta tanto di fronte a
un'autentica rarità […]:un autore di film. Aggiungerò che mi capita, vedendo e rivedendo le opere di
Alfred Hitchcock, di avvertire – a tratti – la stessa impressione che si prova leggendo autori come,
mettiamo, Dostoevskij o Faulkner (Astruc, 1954, in ivi., p. 49).
La politica degli autori incomincia allora a fare numerosi proseliti all'interno
della redazione dei Cahiers, nonostante lo stesso Truffaut sembri contraddirsi in più di
un'occasione: ad esempio, proprio nel 1955 in piena 'politica', firma un articolo nel
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quale esamina il film Vera Cruz (id., 1954), evidenziandone schematicamente la
sceneggiatura firmata da Roland Kibee - diventato famoso, ma non troppo, per alcuni
serial di discreto successo degli anni '60-'70 – su soggetto del premio Oscar James R.
Webb, per metterne in risalto «l'ingegnosità» (Truffaut, 1955, in 1975, trad. it. 1978, p.
112) e finendo per definire la regia di Robert Aldrich «un po' chiassosa, tutta effetti, a
volte eccellenti, a volte superflui, ma sempre al servizio del racconto» (ivi,p. 114).
Oppure ancora, due anni più tardi, elogiando Anthony Mann e il suo Uomini in guerra
(Men in war, 1957), Truffaut si sente in dovere di «precisare che la sceneggiatura è
firmata da Philip Yordan […] uno degli scrittori più dotati di Hollywood» (1957, in ivi,
p.134). Verrebbe da chiedersi il perché prendere in considerazione l'abilità e la presenza
dello sceneggiatore di turno se è il regista l'unico autore. Evidentemente era una
questione non troppo chiara neanche allo stesso Truffaut se nel 1958 arriva a reputare
«straordinario il fatto che» Ingmar Bergman «è generalmente l'autore completo:
sceneggiatura, dialoghi, regia» (ivi, p.193) finendo per sconfessare in buona parte la tesi
secondo la quale basta essere regista per definirsi autore di un film. E, come nota
Giuliana Muscio, Truffaut si ritrova a contraddire la sua invettiva contro la ''tradizione
di qualità'': colui il quale aveva incolpato i maestri del passato di essersi genuflessi alla
letteratura, finisce spesso e volentieri a dedicarsi «all'adattamento letterario,
mantenendo con la letteratura un rapporto complesso, una riflessione costante sulla
scrittura, sulla comunicazione letteraria» (Muscio, in Brunetta, 2001, p. 687).
1.3. Jacques Rivette, Jean-Luc Godard e Eric Rohmer: gli
hitchcock-hawksiani
Come accennato nel paragrafo precedente, nel 1955 sono in molti a seguire la
nuova politica dettata da François Truffaut. Ma a mettersi in mostra sono soprattutto:
Jacques Rivette, Jean-Luc Godard e Eric Rohmer, tre giovani intellettuali amanti ed
instancabili fruitori di cinema ai quale il ruolo di critici sta incominciando a diventare
stretto.
Rivette è autore di una lunga lettera d'amore nei confronti di Roberto Rossellini
nella quale paragona la messa in scena del regista italiano alla poesia visiva dei migliori
pittori:
Lo sguardo instancabile della macchina da presa recita sempre la parte della matita, un disegno
temporale procede sotto i nostri occhi […] viviamo secondo la sua evoluzione fino alla sfumatura finale,
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fino a che l'immagine si perde nel tempo così come era spuntata dal biancore della tela (Rivette, 1955, in
de Baecque, 2001, trad.it. 2003, p.69).
Ma è anche il vero braccio destro di Truffaut nei primi atti di questa piccola
rivoluzione. In particolare si fa promotore di quella che de Baecque definisce la «pratica
della conversazione» (1991, trad.it. 1993, p. 104). Parallelamente agli articoli nei quali
si elogia la messa in scena, come ad esempio uno dedicato al regista giapponese
Mizoguchi, nel quale Rivette paragona il linguaggio universale della messa in scena a
quello della musica (cfr. Rivette, in de Baecque, 2001, trad.it. 2003, p.104), partono –
ovviamente sempre sulle pagine dei Cahiers du cinéma – una serie di interviste ai
grandi registi. Riuscendo a restituire un'immagine autoriale non tanto ai Renoir o i
Rossellini (i quali godevano già di profonda stima negli ambienti culturali) quanto a
personaggi profondamente legati al cinema d'intrattenimento americano come Hawks e
Hitchcock, invitati, dunque, sulle pagine della rivista a denudarsi e a presentarsi come
autori-artisti, svelando i segreti del loro lavoro dietro la macchina da presa (cfr. Daney,
1984, trad. it. 2000, pp. 11-12). Spicca, tra queste numerose conversazioni, l'intervista
ad Howard Hawks condotta da Rivette e Truffaut (con la collaborazione straordinaria di
Jacques Becker) nel 1956, dove il regista americano affronta direttamente la questione
del rapporto tra sceneggiatura e regia: si parla in particolare del film Regina delle
piramidi (Land of the Pharaohs, 1955) per il quale il contributo alla sceneggiatura dello
scrittore premio Nobel William Faulkner, già collaboratore di Hawks in quattro dei suoi
precedenti film, è definito «enorme» perché «è un grande scrittore; siamo vecchi amici e
lavoriamo insieme con facilità, ci comprendiamo molto bene ed ogni volta che ho
bisogno di un aiuto qualsiasi mi rivolgo [a lui]» (ivi., p.99). Hawks nel resto
dell'intervista, inoltre, confida di odiare il montaggio nonostante ne curi ogni passaggio
già durante le riprese e che la parte più difficile nella realizzazione di un
lungometraggio è la preparazione:
Trovare la storia, decidere in che modo raccontarla, cosa far vedere e cosa no. Una volta
cominciato a girare, è un vero piacere: si vede il film sotto il suo aspetto migliore, si sviluppano certi
dettagli, si migliore l'insieme. Io non seguo il copione scrupolosamente: se vedo la possibilità di fare
qualcosa di interessante, cambio tutto su due piedi. Per questo amo la fase delle riprese, così come amo il
lavoro di sceneggiatura (ivi., pp.104-105).
Ne viene fuori il ritratto di un regista attento ad ogni dettaglio della
realizzazione dei propri film; un regista che, al contempo, ammette l'importanza degli
sceneggiatori.
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