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1.1 Il concetto di Biodiversità
La diversità biologica è il risultato di quattro miliardi di anni di evoluzione,
periodo in cui si sono sviluppate sulla terra circa 30 milioni di specie viventi,
ancora oggi non tutte classificate.
La prima manifestazione di attenzione pubblica alla diversità delle forme di vita
esistenti sul nostro pianeta si può far risalire al 1988, quando l’United Nations
Environmental Programme (UNEP), nominò una commissione costituita da un
gruppo di esperti a cui fu affidato l’incarico di valutare lo stato della biodiversità e
di definire le linee guida per la messa a punto di una convenzione internazionale
per la difesa.
Il 5 maggio 1992 venne stilata la “Convenzione sulla Biodiversità” che venne
firmata dagli stati membri durante la Conferenza delle Nazioni Unite, oggi
conosciuta come “Earth Summit di Rio de Janeiro”. Venne definito, con il termine
Biodiversità «la variabilità degli organismi viventi di ogni origine, compresi gli
ecosistemi terrestri, marini ed altri ecosistemi acquatici e i complessi ecologici di
cui fanno parte; ciò include la diversità nell’ambito delle specie, tra le specie e la
diversità degli ecosistemi» (Fig.1).
Figura1: Rappresentazione della Biodiversità
La Convenzione ha previsto l’identificazione ed il monitoraggio dei tre livelli:
- Genomi e geni di particolare interesse scientifico, economico o sociale;
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- Specie coltivate di interesse per la medicina, l’agricoltura e l’allevamento;
- Ecosistemi contenenti elevata diversità biologica, elevato numero di endemismi
e/o specie a rischio di estinzione, specie di interesse sociale, economico o
scientifico.
La conformazione delle terre emerse, in combinazione con le differenti situazioni
climatiche del pianeta, ha permesso la formazione di sacche dove la biodiversità è
maggiore (Sechrest et al., 2002).
Il bacino del Mediterraneo è una sacca “hot spot” di biodiversità, con più di
25.000 piante vascolari, 13000 endemismi e un rapporto di 10,8 specie/1000km
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(Mèdail, 1999).
L’estinzione di una specie comporta, oltre alla scomparsa di un patrimonio
genetico, la perdita del ruolo svolto da quella specie nell'ecosistema. In sostanza,
un ecosistema è in continua modificazione all’ interno del quale, ad una maggiore
diversità di specie, corrisponde un maggior numero di processi funzionali.
I possibili inteventi di conservazione delle risorse genetiche vegetali possono
svolgersi sia in situ, in cui la conservazione comporta il mantenimento della
specie, delle comunità di cui fa parte e degli ambienti nei quali si è adattata,
oppure ex situ, finalizzata alla conservazione del germoplasma in ambienti
artificiali: banche genetiche, collezioni, orti botanici, ecc. (Wang et al., 1993).
In Italia la Convezione di Rio è stata ratificata nel 1994 con la legge n.124 del 14
Febbraio mentre, due anni dopo, 150 Paesi nell’ambito della IV Conferenza
Tecnica Internazionale sulle risorse genetiche vegetali, svoltasi a Lipsia nel 1996,
hanno formalmente adottato il Piano di azione mondiale per la conservazione e
l’uso sostenibile delle risorse genetiche vegetali per l’alimentazione e l’agricoltura
(RGVAA), il cui principale obiettivo è la realizzazione di un efficiente piano
nazionale sulla conservazione e uso sostenibile della RGVAA.
È solo nel 1998, con la Direttiva Comunitaria 98/95/CE recepita in Italia con D.L.
n. 212 del 24 aprile 2001, che si introduce nella regolamentazione sementiera
comunitaria il concetto di “varietà da conservazione” nell’ambito della
conservazione in situ e uso sostenibile delle risorse filogenetiche. Per varietà da
conservazione si intedendono: ecotipi e varietà tradizionalmente coltivati in
località e regioni particolari minacciate da erosione genetica.
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A questo segue, nel 2004, la nascita del Comitato di coordinamento Nazionale per
la Biodiversità, finalizzato a coordinare e definire la posizione comune italiana
sulle tematiche inerenti la Biodiversità.
Gli ecotipi sono stati maggiormente tutelati nella programmazione 2007-2013 del
Programma di Sviluppo Rurale, in cui sono stati previsti aiuti a favore degli
imprenditori agricoli per il loro impegno a coltivare e conservare in situ gli ecotipi
locali e alle Università ed Enti di Ricerca, pubblici e privati, per le loro attività di
conservazione di materiale genetico “in situ” ed “ex situ”.
In Campania con il PSR 2007-2013 misura 214 azione F2, nasce il progetto
AgriGenet.
Il progetto prevede la realizzazione di una rete di ricerca-servizio per la
salvaguardia e gestione delle risorse genetiche vegetali campane, prendendo in
considerazione varietà locali ed ecotipi. Il progetto ha lo scopo di caratterizzare, a
più livelli (morfologico, agronomico, biochimico, nutrizionale molecolare) le
risorse genetiche orticole, frutticole e viticole individuate in Regione Campania
puntando, tra l’altro, anche all’implementazione di una piattaforma per
l’identificazione molecolare rapida degli ecotipi e la creazione e il mantenimento
di una banca dei semi e del DNA.
1.2 Origine e diffusione delle leguminose
Con più di 650 generi e 18000 specie le Fabaceae, o leguminose, rappresentano la
terza famiglia più vasta di piante superiori (Young et al., 2003).
Sono una famiglia di piante dicotiledoni la cui caratteristica è la presenza del
legume o baccello, formato da un carpello che racchiude i semi.
All’interno del seme non è presente l’albume, ma l’intero al di sotto dei tegumenti
è occupato dall’embrione, i cui cotiledoni fortemente ingrossati sono il sito di
accumulo delle sostanze di riserva: zuccheri, amido, grassi e proteine.
La caratteristica principale delle leguminose è la capacità di fissare l’azoto
atmosferico grazie ad una simbiosi che s’instaura tra l’apparato radicale e specifici
batteri del suolo, i rizobi (Su-Zhen Han et al., 2005).
La simbiosi è di tipo mutualistica: i batteri si riforniscono di carboidrati prodotti
dalla pianta mediante la fotosintesi, mentre le piante si riforniscono di azoto
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assimilabile prodotto dai batteri per la riduzione dell’azoto atmosferico operata
dall’enzima nitrogenasi. La simbiosi azotofissatrice è molto importante in natura e
in agricoltura perché rende disponibile, per le piante l’azoto atmosferico
diversamente non utilizzabile. Generalmente le quantità di azoto fissato si
aggirano intorno ai 100 Kg/ha per anno,
ma possono anche superare i
200 Kg/ha.
L'uso dei legumi come alimento di base risale a più di 20.000 anni fa: notizie sulla
coltivazione, preparazione e consumo sono presenti nell'Iliade di Omero e persino
nell'Antico Testamento.
Per trovare documenti attinenti alle pratiche riguardanti le successioni colturali,
bisogna attendere il sedicesimo secolo, quando in Italia compaiono gli scritti di
Agostino Gallo e Camillo Tarello, che evidenziano il ruolo svolto dalle
leguminose negli avvicendamenti colturali.
Salvo il fagiolo e l'arachide, provenienti dall'America e la soia, originaria
dell'estremo Oriente, sono tutte originarie del bacino del Mediterraneo e del vicino
Oriente, dove sono coltivate da migliaia di anni. L'elevato valore energetico e la
capacità di resistere, una volta essiccati, a lunghi periodi di conservazione, diedero
ai legumi fin dall'antichità un ruolo di assoluta centralità nell'alimentazione
umana.
Nei paesi occidentali l’utilizzo delle leguminose ha raggiunto i suoi picchi
massimi solo negli anni 40. Nel secondo dopoguerra, tuttavia, una serie di fattori
agronomici, economici e sociali hanno segnato il declino della loro coltivazione a
favore di colture più redditizie ed in grado di valorizzare elevati dosi di azoto di
provenienza industriale.
La messa a punto di un sistema industriale per la sintesi dell’azoto (Haber-Bosch),
il cambiamento delle abitudini alimentari della popolazione con spiccata
preferenza al consumo di proteine di origine animale, la spinta specializzazione
colturale delle singole aziende agricole supportate dagli incentivi della PAC
(politica agraria comunitaria), hanno determinato una riduzione della coltivazione
e della produzione delle leguminose a favore di altre colture, specialmente
cerealicole.
Tuttavia le statistiche rivelano che in Italia la superficie agricola destinata a
leguminose foraggere ha subito un incremento negli ultimi anni: da 73.000 ha nel
2006 a 80.000 ha nel 2010 (Istat 2010) dovuto, molto probabilmente, sia
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all’inserimento delle leguminose da granella tra le colture incentivate dall’UE, sia
all’adozione delle leguminose negli ordinamenti colturali biologici.
Tra le leguminose la Soia, (Glycine max L.) è tra le specie di più antica tradizione
ricordata nella letteratura cinese prima del 2838 a.C., ma si ritiene fosse coltivata
estensivamente in Cina (Manciura) già 5000 anni a.C., in cui era considerata uno
dei cinque grandi sacri sui quali si basava la civiltà cinese e, oggigiorno, l’Italia è
tra i primi 15 produttori al mondo.
Altre leguminose diffuse nel nostro paese e di maggior uso alimentare sono il
fagiolo (Phaseolus vulgaris L); il cece (Cicer arietinum L); la lenticchia (Lens
culinaris M.); il pisello (Pisum sativus L.); la fava (Vicia faba L.) e la cicerchia
(Lathyrus sativus L.).
1.3 Importanza economica e nutrizionale delle leguminose
Le leguminose comprendono un gran numero di generi e specie vegetali di
notevole importanza agroambientale ed alimentare, sia perché sono capaci di
fissare l’azoto atmosferico e sia perché forniscono foraggio e granella ricchi di
proteine.
Possono adattarsi a condizioni di aridità anche spinte, ponendosi spesso come
uniche colture alternative alla coltivazione dei cereali autunno-vernini.
Un particolare utilizzo è quello del recupero di aree inquinate, processo noto come
“Bioremediation”, impiegando cioè le leguminose per la decontaminazione del
suolo da specifici composti tossici (Adam & Duncan, 2002; Gudin & Syratt,
1975).
L’utilizzo di specie azotofissatrici nei sistemi colturali riduce la necessità di
fertilizzanti azotati, i quali sono ottenuti attraverso il metodo di Haber-Bosch, un
processo produttivo che ricorre all’utilizzo di fonti energetiche non rinnovabili
(petrolio, carbone e gas) per la sintesi di NH
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.
I concimi azotati di sintesi, inoltre, non essendo di tipo organico, sono
scarsamente trattenuti dal potere adsorbente del terreno e facilmente soggetti a
trasformazioni chimiche, con rilascio di composti volatili nell’ambiente quali:
NH
3
NO N
2
O NO
2
, oltre che al fenomeno di lisciviazione nelle falde, con
conseguente eutrofizzazione delle acque.