1
Introduzione
Il fatto è che sono una scrittrice: una donna scrittrice non è
una donna di casa che scrive, ma qualcuno la cui intera
esistenza è condizionata dallo scrivere.
SIMONE DE BEAUVOIR, La forza della cose
Il ventesimo secolo vide la nascita di un nuovo termine nel mondo
letterario giapponese, 女 流 作 家 joryū sakka: i critici, detentori del
linguaggio e dunque del potere della cultura, sentirono il bisogno di creare
una definizione per le donne che scrivevano che sottolineasse il loro essere
non romanziere o saggiste, ma donne romanziere e saggiste. Scelsero un
termine che, più che alludere, affermava con forza le differenze della
scrittura femminile rispetto a quella maschile (che in quanto tale era da
considerare la scrittura, e per la quale non erano necessario alcun
aggettivo). In quello stesso periodo lo stato giapponese si impegnava nelle
definizione del ruolo della donna all’interno della nuova società.
Mai risultato causale del sesso, il genere, culturalmente costruito, è
continuamente definito dalle strutture di potere
1
. Lo sforzo dello stato
giapponese nella creazione di tale definizione, sforzo continuo e mai
interrotto per il bisogno di riprodurre continuamente tale visione a livello
macroscopico e microscopico all’interno della società, ricevette un
eccezionale impulso dalla fine dell’Ottocento in poi, con tendenze
differenti a seconda delle necessità e degli obiettivi dello stato.
L’apporto dello stato alla definizione dell’essere “donna” e,
contemporaneamente, i continui tentativi di disegnare i confini per la
“scrittrice” “donna”, caratterizzano il mondo in cui Ōba Minako, Takahashi
Takako e Kurayashi Yumiko hanno vissuto, e sono dunque elementi
fondamentali per comprendere la loro scrittura. Pur non sperimentando di
1
J. Butler, Gender Trouble, Routledge, New York 1990, p. 8.
2
persona tutte le pratiche di produzione e riproduzione del dominio maschile
del Giappone “moderno”, le tre scrittrici qui in esame poggiano sulle spalle
di migliaia di “donne” e “scrittrici” e parlano per tutte loro. La voce, lo
sguardo e il corpo delle donne da loro disegnate portano ancora le cicatrici
di quel passato, cicatrici che si sommano al dolore e all’insofferenza del
presente.
Nel primo capitolo ho intenzione di disegnare sommariamente la
storia delle donne in Giappone, sottolineando gli elementi fondamentali di
permanenza e di cambiamento dall’epoca Tokugawa al dopoguerra: si tratta
degli anni in cui lo stato si impegnò in maniera attiva nella costruzione
della Donna
2
e durante i quali nacquero diverse forme organizzate di
opposizione al canone imposto. Uno spazio particolare sarà riservato alle
nuove ideologie di genere sviluppate e diffuse dagli anni Cinquanta in poi:
si tratta degli anni del boom economico, per il quale erano necessari nuovi
modelli di mascolinità e femminilità che sostenessero il processo di crescita
del paese, ma sono anche gli anni in cui il mondo letterario assistette alla
nascita di un discorso controegemonico che pose “le basi teoriche di una
filosofia femminista che sarebbe emersa successivamente come esplicito
movimento politico”.
3
Mentre lo stato giapponese si impegnava nella definizione
dell’onnarashisa, il canone di femminilità, anche il mondo letterario, nella
forma dell’establishment letterario (bundan), contribuiva alla formazione di
un modello astratto di donna scrittrice, lanciando violente critiche contro
chi osava non assecondare le aspettative del lettore (maschio): una donna,
anche se difficilmente presa sul serio da un punto di vista artistico e
intellettuale, era autorizzata a scrivere nella misura in cui rispettava i
canoni, mai realmente definiti, dello “stile femminile” (joryū). Joan Ericson
2
La lettera maiuscola indica qui la categoria monolitica, in cui sono inserite tutte le donne, intesa come
sessualmente Altro (e implicitamente inferiore) rispetto all’Uomo.
3
J.C. Bullock., The Other Women’s Lib. Gender and Body in Japanese Women’s Fiction, University of
Hawaii Press, Honolulu 2010, p. 152.
3
sottolinea come il termine joryū bungaku venisse utilizzato per indicare una
scuola letteraria, nonostante non si trattasse di un gruppo uniforme e
omogeneo:
“Letteratura femminile” non costituisce una scuola letteraria nel modo
in cui lo erano il gruppo Kenyūsha (1885-1903) con la loro rivista
Garakuta bunko, gli scrittori romantici, con la rivista Bungakkai, o la
scuola Shirakaba (1910-1920), che pubblicava sull’omonima rivista.
Le “donne” della “letteratura femminile” non formavano nemmeno un
gruppo informale come la cricca di Natsume Sōseki, in cui aspiranti
scrittori si riunivano attorno a un maestro affermato. Le scrittrici
raggruppate dai critici non condividevano una tradizione, una scuola o
una rivista unificata. Di conseguenza il termine non rende giustizia
alla diversità delle prospettive e degli approcci delle scrittrici così
etichettate. Definire qualcuno una “scrittrice donna” non diceva nulla
a proposito del rapporto dell’autore con le altre tendenze letterarie,
intellettuali, sociali e politiche. E l’apparente semplicità del termine
facilitò la fusione tra il sesso dell’autore e il suo stile.
4
La costruzione del corpo attraverso l’iscrizione su di esso di valori e
aspettative sociali è una pratica alla base delle dinamiche di dominio, ma è
necessario sottolineare che si tratta di pratiche che riguardano il corpo
femminile così come quello maschile: all’interno dell’ordine patriarcale gli
uomini non sono disciplinati meno delle donne a conformarsi ai ruoli
necessari per la sopravvivenza del sistema, sono semplicemente sottoposti
a un controllo differente.
5
Anche la pratica di costruzione del corpo
femminile attraverso lo sguardo maschile rientra in questo processo
disciplinatorio, per cui gli uomini, per interpretare il ruolo che è stato loro
assegnato, devono esercitare il loro potere sui dominati, attraverso la
4
J.E. Ericson, Be a Woman: Hayashi Fumiko and Modern Japanese Women's Literature, University of
Hawaii Press, Honolulu 1997, p. 27.
5
Cfr. E. Grosz, Volatile Bodies. Toward a Corporeal Feminism, Indiana University Press, Bloomington
1994, p. 144.
4
costruzione di immagini sovrapposte ai corpi femminili e a cui le donne
dovranno necessariamente adeguarsi.
Obiettivo di questa tesi è analizzare le dinamiche che governano il
mondo patriarcale attraverso la vita e le opere di Ōba Minako, Takahashi
Takako e Kurayashi Yumiko da tre differenti punti di vista. Il secondo
capitolo si concentra sulla vita delle tre autrici, cercando di sottolineare in
particolare l’intrusione dell’ordine patriarcale all’interno della vita
familiare, nel rapporto matrimoniale e nel mondo scolastico, anche
attraverso l’analisi di alcuni dei numerosi saggi in cui le tre scrittrici
descrivono dettagli delle loro vite private. L’analisi della vita delle tre
autrici si propone di individuare eventi che possano avere influenzato scelte
stilistiche e tematiche, se non la decisione vera e propria di diventare
scrittrice. È tuttavia necessario sottolineare fin d’ora che, nonostante nella
produzione narrativa di Ōba, Takahashi e Kurahashi sia a volte facile
ritrovare riferimenti alle loro vite personali, le tre autrici hanno sempre
sottolineato il carattere fittizio delle loro opere, rifiutando categoricamente
la definizione di shishōsetsu
6
.
Il terzo capitolo si propone di analizzare alcuni racconti brevi,
concentrandosi sulle dinamiche che regolano il linguaggio all’interno del
mondo patriarcale e ricercando eventuali strategie di contrapposizione al
dominio linguistico, che costringe le donne ad assecondare le aspettative
maschili o, in casi estremi, al silenzio. In particolare sarà evidenziato l’uso
di differenti strategie, anche all’interno della produzione di una stessa
autrice, che portino alla nascita di una lingua femminile, sottolineando il
modo in cui l’ordine patriarcale tenta di ostacolare la relazionalità tra donne
privandole di un linguaggio proprio.
6
Il termine shishōsetsu indica la forma letteraria predominante della narrativa giapponese moderna.
Spesso tradotto come “romanzo dell’io”, è oggi definito come “una narrativa autobiografica in cui si
ritiene che l’autore racconti fedelmente i dettagli della propria vita privata in una forma lievemente
fittizia”. Cfr. L. Bienati e P. Scrolavezza, La narrativa giapponese moderna e contemporanea, Marsilio,
Venezia 2009, pp. 55-59.
5
Il quarto capitolo è dedicato all’analisi della costruzione del corpo
femminile da parte dello sguardo maschile: l’obiettivo è nuovamente
l’individuazione di strategie di sovversione dell’ordine patriarcale nella
produzione narrativa delle tre autrici prese qui in esame. L’analisi di alcuni
racconti brevi rivelerà come lo sguardo e il corpo possano essere utilizzati
come strumenti di dominio, subito dalle donne o, viceversa, imposto agli
uomini, in un’alternanza di strategie che portino al collasso del sistema
patriarcale.
6
Capitolo 1: Introduzione storica
Le nozioni giuridiche del potere sembrano regolare la vita
politica esclusivamente in termini negativi – attraverso la
limitazione, la proibizione, i regolamenti, il controllo, o
addirittura la “protezione” degli individui legati a quella
struttura politica […]. Ma i soggetti regolati da tali strutture
sono, in quanto soggetti ad esse, definiti e riprodotti secondo
i requisiti di quelle strutture.
JUDITH BUTLER, Gender Trouble
L’istituzione dello shogunato Tokugawa nel 1600 pose le basi per
una pace assoluta, all’interno del Giappone e verso l’estero, destinata a
durare per più di due secoli. Il sistema Tokugawa, ispirandosi alla morale
neo-confuciana di Chu Hsi, accentuava la base morale dell’autorità politica
e basava la propria stabilità sulla fedeltà assoluta; la società, divisa e
organizzata in quattro classi, distingueva, da un punto di vista economico e
giuridico, samurai, contadini, artigiani e mercanti
7
, una concezione
gerarchizzata che si rifletteva anche nell’ordine familiare.
Per preservare gli interessi del bakufu 幕 府 e quelli privati di
ciascuna famiglia era necessario educare (o indottrinare) le donne, ponendo
continuamente l’accento sulla loro inferiorità rispetto agli uomini: tale era
il fine di testi come l’Onna daigaku ( 女大 学 “Il grande insegnamento per la
donna”, 1672), attribuito al pensatore neo-confuciano Kaibara Ekiken 貝原
益軒, per il quale i genitali femminili erano associati a mancanza di ingegno,
pigrizia, lascivia, irascibilità e capacità di portare rancore. Una tale
7
Nella pratica non si cercò di impedire realmente mescolanze tra le tre classi inferiori; una rigida
separazione sociale manteneva i samurai distinti dalle altre classi, ma nel tardo periodo Tokugawa alcuni
samurai stabilirono legami matrimoniali con le famiglie dei mercanti per salvare la propria situazione
economica. Cfr. J. Fairbank e E. Reischauer, Storia dell’Asia orientale. La grande tradizione,
Einaudi,Torino 1974, pp. 694-695.
7
inferiorità, determinata dalla natura stessa, giustificava la subordinazione
delle donne, ritenuta essenziale per la stabilità sociale e nazionale.
8
Nel secolo successivo la nascita del movimento Shingaku ( 心 学
“L’insegnamento del cuore”), fondato da Ishida Baigan 石田梅岩 nel 1729,
contribuì ulteriormente all’indottrinamento della donna giapponese:
ponendo come obiettivo la rettificazione del sistema sociale, destabilizzato
dal rapido sviluppo economico, Baigan e il suo discepolo Tejima Toan 手島
堵庵 incoraggiavano i mercanti e gli artigiani (i chōnin 町人, che avevano
determinato l’espansione del mercato giapponese) a coltivare un approccio
morale e razionale al commercio, e costruivano un nuovo canone di
“femminilità” finalizzato alla riabilitazione morale delle donne e
all’allineamento dei ruoli legati al sesso e al genere. Scoprire la propria
“natura originale” (honshin hatsumei 本心 発明) per una donna significava
realizzare le sei virtù confuciane (obbedienza, purezza, buona volontà,
frugalità, modestia e diligenza), e il matrimonio era considerato il contesto
in cui più facilmente poteva essere ottenuto tale risultato: nell’essere
moglie, dunque, si realizzava l’onnarashisa 女らしさ, il genere femminile,
alla cui base doveva esserci una “moralità coniugale” opposta alla moralità
in sé.
9
All’interno della famiglia la donna doveva rispettare le “tre
sottomissioni” (obbedienza al padre da ragazza, al marito da sposata, al
figlio maggiore da vedova), ed era spesso considerata poco più che un
“utero in prestito”
10
: in particolare le donne della classe dei samurai,
sicuramente sottoposte a una pressione maggiore rispetto a quelle
8
Cfr. G. Bernstein, Recreating Japanese Women, 1600-1945, University of California Press, Berkeley
1991, p. 91.
9
Il regime Tokugawa non dava spazio alla maternità come elemento necessario per la creazione del
genere femminile, elemento che sarà invece particolarmente enfatizzato in epoca Meiji. Cfr. G. Bernstein,
op. cit., pp. 94-97.
10
S. Sievers, Flowers in Salt: the Beginning of Feminist Consciousness in Modern Japan, Stanford
University Press, Stanford 1983, p. 4.
8
appartenenti agli altri ceti
11
, erano inserite in un sistema patrilineare che le
obbligava a generare un erede maschio o ad accettare come eredi i figli
delle concubine, che, pur non avendo i diritti riservati alla moglie legittima,
dividevano con lei gli spazi della casa. Toan proponeva che nel caso delle
donne sposate ci fosse una separazione dei ruoli sessuali (in particolare il
parto) dalla sessualità (intesa come desiderio), riservando quest’ultima a
concubine e cortigiane. In altre parole, una donna sposata doveva diventare
come una persona morta, alienare totalmente se stessa per diventare una
cosa sola con la volontà del marito. Non le era concessa alcuna autorità
all’interno della casa e nell’educazione dei figli, poteva essere ripudiata dal
marito per qualsiasi ragione, e condannata a morte in caso di adulterio
(commesso o anche solo sospettato)
.
12
In generale il periodo Tokugawa era governato dal principio danson
johi 男尊女卑 (“rispettare il maschio, disprezzare la femmina”), e le leggi
spingevano a considerare le donne come una proprietà, un mezzo per
garantire la preservazione della linea familiare con la nascita di un erede
maschio. Tali principi, inizialmente radicati solo tra i ceti più alti, finirono
col diffondersi in tutte le classi sociali: nel tentativo di emulare
l’organizzazione sociale della classe dei samurai, contadini e mercanti si
preoccuparono sempre più della primogenitura, supportata dal sistema del
concubinato, e le donne finirono con l’avvicinarsi sempre più al modello
della classe guerriera, con un crescente controllo sulla loro sessualità.
13
Nel 1854 il Giappone, minacciato dalle “navi nere” del commodoro
Perry, si vide costretto a firmare il “trattato iniquo” impostogli dagli
americani, dando inizio a un periodo di disordini e scontri che si concluse
nel 1868 con la restaurazione del potere imperiale. Il Giappone, obbligato a
11
Nell’area del Kamigata, in particolare a Osaka, le donne appartenenti alla classe mercantile godevano
di diverse prerogative, in tema di matrimonio e divorzio, che erano totalmente negate alle donne del ceto
guerriero di Edo. Cfr. G. Bernstein, op. cit., pp. 136-137.
12
Ivi, pp. 97-98.
13
Cfr. S. Sievers, op. cit., p. 6.
9
riconoscere la propria inferiorità tecnologica rispetto alle potenze europee e
americana, fin dai primi anni dell’epoca Meiji mise in atto una serie di
provvedimenti per “far cessare i cattivi costumi del passato e perseguire la
conoscenza in tutto il mondo”: si preparava ad attuare importanti
cambiamenti, nel campo delle conoscenze e in ambito socio-politico, che
potessero permettere al Giappone di essere riconosciuto come un paese
moderno, premessa fondamentale per conquistare la sicurezza e la parità
rispetto alle potenze straniere. Il paese, incitato dagli slogan fukoku kyōhei
富 国強兵 (“paese ricco, esercito forte”) e bunmei kaika 文明開化 (“civiltà e
illuminazione”), eliminava la divisione in classi sociali, privando i samurai
dei loro antichi privilegi, stabiliva un sistema di tassazione ispirato alle
potenze europee, e poneva le basi per lo sviluppo di una economia forte e
competitiva.
14
Tra le varie iniziative proposte dai politici Meiji, un posto, sebbene
ancora marginale, era riservato anche alle politiche relative alle donne: i
nuovi governanti avevano dovuto riconoscere la necessità di migliorare lo
status delle donne affinché la società giapponese potesse progredire sempre
più velocemente verso la modernità. In questo senso va interpretato lo
sforzo nell’ambito dell’istruzione compiuto nei primi anni Meiji: nel 1871
fu istituito il Ministero dell’Istruzione, e l’anno seguente, anche grazie ai
consigli di esperti stranieri che invitavano i leader Meiji a includere anche
le donne nei piani di riforma del sistema dell’istruzione giapponese, il
governo fondò la Scuola Femminile di Tokyo.
15
Con il Codice
fondamentale sull’istruzione le ragazze ottennero formalmente pari diritti
rispetto ai loro coetanei di sesso maschile, ma in realtà nel 1882 il numero
di ragazze iscritte agli istituti elementari era la metà del numero di ragazzi:
continuava a dominare, invariata rispetto all’epoca Tokugawa, l’idea che
14
Cfr. E. Reischauer, Storia del Giappone. Dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano 1994, pp.93-
98.
15
L’istituto, che proponeva alle studentesse un curriculum vario e impegnativo , fu chiuso
improvvisamente nel 1877. Cfr. S. Sievers, op. cit., p. 11.
10
per le donne non fosse necessario ottenere un’istruzione, e che la cura della
famiglia fosse l’unica attività adatta al loro sesso.
16
Nel 1880 la legge
sull’istruzione abolì la coeducazione oltre la scuola elementare, escludendo
formalmente le donne dall’istruzione media. L’attività dei missionari
sopperiva in parte alle mancanze dello Stato, con la creazione di istituti
superiori per ragazze in varie parti del Giappone, ma solo nel 1900 le
trasformazioni socio-politiche del paese, che richiedevano una presenza
crescente delle donne nel mondo del lavoro, portarono alla promulgazione
della legge sulle scuole superiori per ragazze, con la creazione di almeno
un istituto femminile in ciascuna prefettura.
17
Alle donne era ancora negato
l’accesso alle università, ma proprio nel 1900 fu fondato il Women’s
English College da Tsuda Umeko 津田梅子
18
, una delle cinque ragazze che
avevano partecipato alla missione Iwakura nel 1871: l’invio di studenti
giapponesi negli Stati Uniti e in Europa era finalizzato all’acquisizione
delle conoscenze necessarie al Giappone per diventare un paese moderno,
ma mentre ai giovani uomini inviati all’estero erano stati assegnati compiti
in specifici settori (legge, finanza, industria, etc.), ed erano
presumibilmente destinati a lavorare per il governo al loro rientro in
Giappone, le giovani ragazze dovevano studiare la “vita domestica
americana” per un periodo di dieci anni, e il loro soggiorno all’estero
avrebbe avuto un impatto più decisivo sull’immagine del Giappone,
apprezzato dalle potenze straniere per le sue politiche progressiste, che non
sullo stato dell’istruzione delle donne giapponesi.
19
Il nuovo governo giapponese portava dunque avanti politiche
contraddittorie in relazione alle donne del paese: nel 1872 si pronunciò
16
Cfr. K. Fujimura-Fanselow e A. Kameda, Japanese Women: New Feminist Perspectives on the Past,
Present, and Future, The Feminist Press, New York 1995, p. 96.
17
Ivi, pp. 98-99. Compito di tali istituti era preparare le ragazze ad essere “buone mogli e sagge madri”, e
in alcun modo i loro studi potevano essere equiparati ai curriculum accademici dei loro coetanei maschi.
18
L’istituto Joshi Eigaku Juku divenne Tsuda Eigaku Juku nel 1933, e assunse il nome definitivo Tsuda
College dopo la Seconda guerra mondiale.
19
Cfr. S. Sievers, op. cit., pp. 12-13.
11
contro la schiavitù in tutte le sue forme, cancellando contratti e debiti delle
prostitute, ma non rese illegale la prostituzione; due anni prima si era
espresso sul ruolo delle concubine, equiparando i loro diritti a quelli delle
mogli legittime; invitava gli uomini del paese a preferire i capelli corti
nello stile occidentale, ma vietava il caschetto alle donne con una legge del
1872.
20
Le contraddizioni caratterizzavano anche il pensiero di molti
intellettuali, che contribuirono alla creazione di un nuovo modello per la
donna giapponese: sulle pagine di Meirokusha,
21
Mori Arinori 森 有 礼
(1847-1889) e Fukuzawa Yukichi 福 沢 諭 吉 (1835-1901) si scagliavano
contro il concubinato e sostenevano la necessità di un rapporto paritario tra
marito e moglie (fūfu dōken 夫婦同権), ma non di uguali diritti per uomini e
donne (danjo dōken 男女同権). Lo stesso giornale pubblicava gli articoli di
Nakamura Masanao 中村正 直 (1832-1891), il primo a usare l’espressione
ryōsai kenbo 良 妻 賢 母 (“buona moglie, saggia madre”).
22
Elemento
fondamentale dell’educazione femminile, questo nuovo concetto divenne lo
slogan del governo Meiji per l’indottrinamento delle donne, l’altra faccia
della medaglia del fukoku kyōhei: gli uomini dovevano servire il paese
lavorando sodo e combattendo con coraggio, mentre le donne dovevano
servire i propri mariti e la famiglia, preservando la continuità del sistema
patriarcale giapponese.
23
La nuova donna giapponese doveva dunque essere
istruita adeguatamente, in modo tale da insegnare ai propri figli la diligenza,
la lealtà e il patriottismo, per trasformarli in buoni sudditi dell’imperatore.
La richiesta di una maggiore partecipazione alla vita politica da parte
dei cittadini e i dissidi all’interno del gruppo dirigente del governo
20
Ivi, pp. 13-15. Sievers sottolinea come il divieto di portare i capelli corti per le donne, pur sembrando
una questione superficiale, è in realtà un elemento importante della politica Meiji verso le donne: esso
può essere visto come una negazione del loro diritto a partecipare attivamente al cambiamento del paese,
oltre che un messaggio simbolico per le donne giapponesi affinché diventassero non pioniere del futuro,
ma depositarie del passato.
21
Rivista legata all’omonimo gruppo di intellettuali, fondato nel 1873 (sesto anno dell’era Meiji), il cui
scopo era guidare il Giappone verso la strada della “civiltà e illuminazione” attraverso l’introduzione di
valori e conoscenze provenienti dall’Occidente.
22
Ivi, pp. 16-23.
23
Cfr. K. Fujimura-Fanselow e A. Kameda, op. cit., p. 97.
12
portarono nel frattempo alla nascita del Jiyūtō 自由党 (il partito liberale) e
del Jiyū minken undō 自由民権運動 (Movimento per la libertà e i diritti del
popolo), attraverso i quali anche le donne cercavano di far sentire la propria
voce. I samurai leader del movimento per i diritti del popolo erano in realtà
ben poco interessati al dibattito sui diritti delle donne, ma la crescente
partecipazione di mercanti e contadini diede una nuova spinta progressista
al gruppo, e diverse figure carismatiche riuscirono finalmente a esprimere
in tutto il Giappone le proprie idee, soprattutto sulla questione del diritto al
voto per le donne. Kishida Toshiko 岸 田 俊 子
24
(1863-1901), appena
ventenne quando entrò in contatto con i leader del movimento per i diritti
del popolo e del partito liberale, intraprese un tour di conferenze in diverse
località del Sud del paese, attirando un gran numero di donne e
influenzando alcune di quelle che sarebbero diventate le più agguerrite
femministe dell’epoca.
25
Kishida sottolineava la necessità per le donne di
ottenere un’istruzione adeguata, che permettesse loro di uscire dalle
“scatole” in cui la società (nella forma della famiglia) le teneva rinchiuse, e
nei suoi interventi non mancava di sollecitare il paese a dare pari diritti a
uomini e donne, cambiamento che avrebbe trasformato il Giappone in una
nazione moderna e civilizzata. Nonostante il collasso del Jiyūtō nel 1884,
Kishida e le altre donne, che avevano beneficiato degli spazi che il partito
liberale aveva dato loro, trovarono nuove strade per far sentire la propria
voce, ma le loro parole, che avevano eccitato folle di donne in tutto il paese,
una volta scritte e stampate su giornali e riviste, non riuscirono ad avere
l’eco e la forza delle arringhe del passato.
26
24
Cfr. S. Sievers, op. cit., pp. 32-34. Sievers non manca di sottolineare come la figura di Kishida fu usata
dai leader del movimento per i diritti del popolo: giovane e bella quando iniziò la sua collaborazione con
il movimento, portava con sé un’aura di rispettabilità, risultato dei due anni trascorsi a corte come dama
di compagnia dell’imperatrice, caratteristiche che avrebbero dovuto attirare un gran numero di persone
alle conferenze del movimento.
25
Ivi, p. 36. Fukuda Hideko nella sua autobiografia spiega che furono proprio le parole di Kishida durante
la conferenza del 1882 a Okayama a spingerla all’attivismo femminista.
26
Ivi, pp. 42-48.