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finanziario, che è stato oggetto di una profonda deregolamentazione al fine
di adeguarsi al fenomeno di globalizzazione dei giorni nostri.
Dopo aver descritto le conseguenze prodotte dalla crisi
sull’economia nipponica, si sono dati alcuni spunti per risolvere i vecchi
problemi sempre più in evidenza, nonché quelli appena sorti.
La speranza è che questo lavoro possa essere d’aiuto per coloro che
desiderano conoscere meglio le vicende di una super – potenza dei giorni
d’oggi, rivelatasi poi “un colosso d’argilla”, in altre parole con basi
alquanto deboli che devono essere rinforzate in futuro per garantire il
mantenimento del ruolo di primo piano acquisito.
Ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato sia nella ricerca del
materiale da consultare, sia nella stesura del lavoro, sostenendomi in tutto
questo periodo.
Un sentito ringraziamento al Prof. L. Vandone per avermi indirizzato
nello studio di un’economia così complessa come quella del Sol Levante,
permettendomi di approfondire gli aspetti più significativi di essa, e di
trattare una tematica estremamente attuale quale la crisi del sistema
giapponese.
6
2) Il modello di sviluppo economico giapponese
negli anni ‘90
Componenti nazionali
2.1) Economia reale
2.1.1) La recessione del ‘90-’93
La fine dell’espansione economica giapponese si può far risalire al
1991 quando l’indebolimento del ‘90, prolungatosi per i primi tre trimestri
dell’anno dopo, ha determinato un modesto tasso di crescita finale, con una
domanda esterna netta pari ad 1/31 dell’aumento del prodotto totale e una
domanda interna che ha subito un debole incremento.
Le cause di tale andamento si possono ricondurre a:
1) decelerazione negli investimenti delle imprese e negli investimenti
in abitazioni;
2) debolezza perdurante dei prezzi degli immobili e delle azioni,
nonostante gli andamenti favorevoli nella dinamica dei redditi delle famiglie,
dell’occupazione, dei tassi d’interesse e d’altri fondamentali;
3) forte calo di fiducia delle imprese che ha accresciuto i timori sulla
gravità del rallentamento.
I consumi, le esportazioni e la costituzione delle scorte hanno
rallentato, nonostante la spesa aggregata non abbia risentito del rallentamento
negli impieghi bancari. C’è stato un aggiustamento negli investimenti fissi,
mentre gli investimenti in abitazione sono rimasti sopra il trend di lungo
1
BRI 62° Relazione Annuale
7
periodo.
Le amministrazioni pubbliche hanno goduto di un attivo di bilancio ma
il disavanzo statale, anche se modesto, è stato maggiore del previsto,
contribuendo moderatamente alla crescita.
I profitti delle imprese sono diminuiti, rimanendo sempre ad alti livelli,
anche se per alcuni beni (vedi automobili) le vendite ristagnavano già da due
anni.
Il mercato del lavoro2 si è deteriorato, determinando un calo nella
fiducia dei consumatori, nonostante gli aumenti salariali moderati e l’aumento
dell’occupazione totale (diversamente da altri paesi industrializzati).
Le spinte inflazionistiche sono state meno intense, così da determinare
un basso tasso d’inflazione anticipato e un aumento dei prezzi al consumo
inferiore al 3%3. L’inflazione è rimasta in calo anche per tutto il 1992, alla
fine del quale l’indebolimento accentuatosi nel ‘91 è diventato vera
recessione.
Le principali determinanti della recessione si possono ritrovare:
1) nel boom dei prezzi delle attività nella seconda metà degli anni
‘80, che ha determinato: prima un aumento negli investimenti fissi delle
imprese, nell’edilizia abitativa e nella spesa in beni di consumo durevoli; poi,
a seguito della loro diminuzione, la fase negativa dei cicli d’aggiustamento
degli stock di beni e, nel ‘91, una contrazione nel settore delle costruzioni
residenziali e negli acquisti di nuove auto, nonché una diminuzione nel tasso
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Il mercato del lavoro giapponese ha caratteristiche particolari che lo distinguono da quelli degli altri paesi
industrializzati. Dalla seconda guerra mondiale ha mantenuto uno dei tassi di disoccupazione più bassi a livello globale,
che ha oscillato tra il 1965 e il 1995 tra il 2 e il 3%. Questo mercato è riuscito ad imporre alle imprese un sistema
estremamente rigido, in cui il settore societario si deve adattare ai cambiamenti economici senza licenziare o mandare in
cassa integrazione i propri impiegati. Così, quando le imprese hanno dovuto tagliare costi, non hanno diminuito i loro
posti di lavoro, bensì hanno ridotto i salari o aspettato che i numeri dello staff diminuissero per attrito naturale. Questa
era anche la via più semplice con la quale operare, visto che i salari giapponesi includono un bonus flessibile dato due
volte l’anno, facile da ridurre. Inoltre molte società hanno impiegato manodopera femminile giovane in lavori servili,
sapendo che li avrebbero lasciati una volta sposate. Proprio le donne si pensava avessero meno diritti lavorativi; i salari
erano rigidi, poco legati al rendimento; i lavoratori temporanei erano poco protetti; ogni lavoratore che perdeva il
proprio lavoro si trovava di fronte ad un sistema di sicurezza sociale debole (il sussidio di disoccupazione è versato per
un periodo massimo di nove mesi). I lavoratori giapponesi hanno da sempre accettato tali condizioni perché in cambio
era in vigore il sistema del “lavoro a vita”, in base al quale anche andando in pensione si continua a lavorare, in genere
in filiali più piccole della società madre, facendo sì che una volta entrati in una società non se ne esca più.
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d’incremento dei consumi privati;
2) nel calo di fiducia dei consumatori viste le incertezze politiche e la
minor crescita dei redditi delle famiglie, causata dalla diminuzione dei
proventi netti per interessi, del lavoro straordinario e delle gratifiche aziendali
(con un tasso di disoccupazione stabile, un rapporto in aumento tra offerte
d’impiego e persone in cerca di lavoro).
Soprattutto le imprese si sono ritrovate in una condizione difficile. A
metà degli anni ‘80 esse avevano aumentato gli investimenti di
razionalizzazione e ampliamento della capacità produttiva, programmando
un’espansione dell’attività in previsione di un aumento della domanda. Invece
il rallentamento a fine ‘91 e i bassi costi di finanziamento (determinati dai più
alti tassi d’interesse e dalla diminuzione dei corsi azionari), hanno reso di
difficile realizzazione i profitti attesi. Così le imprese hanno visto calare
sempre più i loro utili operativi, a causa dell’eccesso di capacità produttiva,
della maggior incidenza degli ammortamenti, della rigidità dei costi salariali
originata dal sistema di garanzia dell’impiego; inoltre con la diminuzione
degli acquisti di beni di consumo durevoli, è diminuito l’accumulo di scorte e,
di conseguenza, la produzione industriale.
In particolare, la bassa crescita delle piccole e medie imprese pare
essere dipesa principalmente dalle condizioni restrittive del credito bancario,
da cui esse dipendono.
Gli unici contributi positivi alla crescita nel 1992 sono venuti dai
consumi di beni non durevoli, dalle esportazioni nette e dalla spesa pubblica.
Gli investimenti pubblici hanno costituito metà dell’espansione della
domanda interna, nonostante l’aumento dei consumi collettivi, e si prevedeva
aumentassero circa del 2,25%4 del PIL grazie ai provvedimenti dell’agosto
‘92 (con effetti a partire dalla prima metà del ‘93) e le misure nel bilancio per
il 1993 (lavori pubblici, investimenti in infrastrutture sociali, promozione
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d’investimenti privati residenziali e non, stimoli alle attività medio-piccole,
sostegni all’occupazione, stabilizzazione dei mercati finanziari e
rivitalizzazione della Borsa). Ciò nonostante l’aumento del disavanzo
pubblico è stato modesto, visto che la contrazione economica è iniziata in
Giappone più tardi che altrove.
Nel 1993 non ci sono stati segnali di ripresa. Con un’inflazione stabile,
la domanda interna è rimasta debole, causando così un sotto-impiego di
potenziale produttivo. La forte espansione negli investimenti , i trasferimenti
pubblici nei 18 mesi prima, la diminuzione dei tassi d’interesse, non sono
bastati a compensare la debolezza di fondo della spesa privata, anche perché
tanto doveva essere ancora fatto per riequilibrare i bilanci. Soprattutto si è
mantenuta debole la spesa per beni di consumo durevoli come le automobili.
L’export netto ha registrato una crescita negativa a causa
dell’apprezzamento dello yen sul dollaro USA; allo stesso tempo gli ampi
guadagni sulle ragioni di scambio non hanno portato ad un aumento nella
spesa per consumi.
La contrazione della spesa delle imprese in beni strumentali ha
bruscamente diminuito il prodotto aggregato, perché alla correzione del
precedente eccesso d’investimenti e degli squilibri di bilancio, si è aggiunta la
diminuzione dei profitti causata dall’apprezzamento dello yen.
Gli investimenti residenziali hanno tenuto, mentre sul mercato degli
immobili non residenziali la debolezza dei prezzi ha ostacolato la ripresa (a
Tokyo il calo dei prezzi è stato di circa il 40%5 rispetto al punto di massimo).
Inoltre questa diminuzione ha fatto registrare, per le banche, un aumento dei
crediti in sofferenza e una maggior riluttanza a concedere prestiti, perché i
mutui immobiliari coprono circa 1/46 dei loro portafogli prestiti.
Sul mercato del lavoro l’andamento stagnante del prodotto unito al
sistema d’impiego vitalizio, hanno determinato un aumento dei costi unitari
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del lavoro e una diminuzione nei margini di profitto (quest’ultima causata
anche dall’effetto cambio per le imprese che producono soprattutto per il
mercato interno). Infatti, non esistendo la possibilità di dismettere
temporaneamente gli impiegati dal lavoro, le fluttuazioni di breve periodo del
prodotto sono spesso assorbite dalla diminuzione dell’orario di lavoro
(finanziata da sussidi governativi). Ciò ha permesso di mantenere negli ultimi
10 anni il tasso medio di disoccupazione tra il 2% e il 3%7, e di aumentare il
tasso d’occupazione, nonostante la crescita produttiva sia stata caratterizzata
da una bassa intensità di lavoro.
2.1.2) L’accenno di ripresa del ‘94 e l’andamento
altalenante del ’95
Il ciclo economico giapponese si è mantenuto sfasato rispetto ai paesi
anglofoni anche nel 1994, quando il Giappone ha iniziato ad uscire
gradatamente dalla recessione; molte erano ancora le incertezze sul ritmo
della ripresa a causa delle perduranti ristrutturazioni dei bilanci delle banche e
delle imprese, delle conseguenze del terremoto di Kobe e dell’apprezzamento
dello yen.
La domanda interna ha costituito un fattore positivo di crescita. Le sue
fonti d’espansione si possono ritrovare: nei consumi, grazie al miglioramento
delle ragioni di scambio, alle pressioni al ribasso sui prezzi interni e
all’alleggerimento temporaneo delle imposte; nel migliorato clima di fiducia
dei consumatori, che ha stimolato gli investimenti in abitazioni, prima in calo;
nell’aumento di reddito disponibile delle famiglie e quindi della spesa per
consumi e del saggio di risparmio, conseguenze del pacchetto fiscale
aggiuntivo varato nel febbraio ‘94 che prevedeva sia una diminuzione una
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tantum delle imposte sui redditi, sia altri investimenti pubblici.
Al contrario, fattore negativo di crescita sono state:
1) le esportazioni nette, visto che il perdurante apprezzamento dello
yen ha causato: un aumento delle importazioni; una deflazione nei prezzi alla
produzione tale da compensare l’effetto sui profitti del recente calo dei costi
unitari del lavoro;
2) gli investimenti privati, ancora depressi per il terzo anno
consecutivo.
Particolare attenzione deve essere dato al regresso dell’inflazione dei
prezzi al consumo nel ‘94. Il forte apprezzamento dello yen nella prima metà
del ‘93 si era tradotto in una diminuzione dei prezzi all’importazione e alla
produzione. Tra la metà del ‘92 e la metà del ‘94, quando il tasso di cambio
effettivo dello yen è salito del 25%8, i prezzi all’importazione sono scesi di
quasi il 20%9 e quelli alla produzione del 5%10. Allorché è rallentato
l’apprezzamento dello yen, nel secondo semestre del ‘94, il calo dei prezzi
alla produzione si è arrestato, e i prezzi all’importazione hanno addirittura
iniziato a salire, di riflesso agli aumenti su scala mondiale dei corsi delle
materie prime. Successivamente, nei primi mesi del ’95 l’aumento nei prezzi
al consumo è rimasto contenuto e i prezzi alla produzione sono diminuiti.
Nel 1995, in media, i prezzi sono calati, grazie anche all’andamento
economico meno sostenuto; infatti si può dire che dopo i segnali di ripresa
manifestatisi nel 1994, l’economia giapponese abbia segnato di nuovo il passo
l’anno dopo. Questo ha determinato un tasso ufficiale di disoccupazione a
valori storicamente alti, e un livello aggregato di sotto-impiego aumentato in
misura ancora maggiore, considerando la disoccupazione occulta per l’effetto
di “scoraggiamento” e la manodopera inutilizzata ma ancora trattenuta dalle
aziende.
Comunque, il profilo di crescita economica è cambiato sostanzialmente
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nel corso del ‘95.Durante il 1° semestre, l’espansione del prodotto è diminuita
grazie ai diversi fattori negativi che si sono rafforzati a vicenda, creando un
contesto deflazionistico che si è trasmesso prima ai prezzi poi alle quantità. Il
terremoto di Kobe, il forte apprezzamento del cambio, i decrescenti prezzi
delle attività e la fragilità del settore finanziario sono fattori che hanno
contribuito ad indebolire la fiducia e la spesa delle imprese e dei consumatori.
Inoltre, viste le modeste misure di liberalizzazione dell’economia, le imprese
minori hanno incontrato difficoltà nell’adeguarsi ai decrescenti prezzi dei
prodotti e al rapido aumento delle importazioni a basso costo da altri paesi
asiatici. Infine, la necessità di correggere la passata sovra-capitalizzazione,
unita alla forte contrazione delle esportazioni nette, ha rallentato sia la ripresa
dei profitti sia gli investimenti delle imprese.
Nel 2° semestre dell’anno tale tendenza cedente si è invertita, facendo
intravedere nuovi segnali di ripresa. La crescita del prodotto aggregato ha
ripreso slancio dopo le misure di stimolo fiscale e monetario, una correzione
del tasso di cambio, il recupero del mercato azionario e il ritorno ad utili
positivi delle imprese. Allo stesso modo, il ritmo della ripresa è stato
abbastanza fiacco rispetto ai parametri del passato, poiché ostacoli strutturali
e altri fattori di fondo continuavano a frenare la spesa delle famiglie e delle
imprese; infatti, i cambiamenti strutturali nei mercati economici e finanziari
erano meno avanzati in confronto agli altri paesi industrializzati.
Quindi, l’assenza di una forte ripresa in Giappone è stata causata da una
debole spesa delle famiglie e da un aumento del loro risparmio nel ‘95. Le
cause di tale comportamento si possono ritrovare: nel basso saggio di
risparmio già all’inizio della ripresa; nel desiderio delle famiglie di
ripristinare le posizioni finanziarie precedenti; in altri fattori che hanno
accresciuto la loro cautela.
Comunque, il ristagno della domanda interna non ha impedito all’attivo
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di bilancio corrente di diminuire, risentendo dell’impatto ritardato del forte
apprezzamento dello yen; al contrario, il disavanzo strutturale è aumentato di
oltre il 5%11 del PIL dalla recessione iniziata nel ‘91.
Dal lato delle imprese si è assistito ad una consistente flessione degli
utili netti e della redditività netta delle vendite. Infatti, mentre l’aumento dei
costi unitari del lavoro dal 1990 è stato minore in Giappone che in altri paesi,
i crescenti ammortamenti dovuti al precedente boom degli investimenti hanno
spinto verso l’alto i costi totali e, unitamente alla più intensa concorrenza
delle importazioni a basso costo, hanno costretto le imprese a ridurre i propri
margini, soprattutto sulle esportazioni. Così i profitti per unità di prodotto
sembravano essere diminuiti di circa il 35%12 rispetto al livello del 1985,
mentre i prezzi alla produzione erano saliti solo del 4%13. La compressione
dei margini è stata un fattore chiave del processo deflazionistico nell’ultima
recessione, ma allo stesso tempo quest’ultimo è stato un elemento
determinante della compressione. Nonostante tali margini decrescenti, ad ogni
modo, pare che le imprese manifatturiere di grandi dimensioni e orientate alle
esportazioni avessero retto meglio delle imprese medio-piccole del settore
manifatturiero, maggiormente esposte agli effetti delle crescenti importazioni
a basso costo.
2.1.3) Pericolo di una seconda recessione
Nell’anno successivo (1996) il quadro economico è migliorato, dando
incoraggianti segnali di ripresa nonostante i timori sulla situazione del settore
finanziario e sugli effetti delle necessarie restrizioni fiscali.
Infatti, si è avuta una netta accelerazione della crescita produttiva anche
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se le cifre aggregate sono ingannevoli riguardo al vigore della ripresa. La
crescita ha avuto un andamento discontinuo con variazioni nel contributo
relativo delle principali componenti della domanda, così che non si possono
individuare chiare tendenze di fondo. L’aumento delle esportazioni anche non
determinando una ripresa vigorosa degli investimenti, ha permesso
all’economia di rafforzarsi sul finire dell’anno. Lo slancio dell’attività si è
avuto principalmente nel primo semestre, periodo in cui quasi un terzo della
crescita produttiva può essere imputata a misure fiscali; queste ultime hanno
peraltro generato effetti moltiplicativi piuttosto deboli: la domanda finale è
infatti diminuita nel secondo semestre, al venir meno dello stimolo fiscale. Al
contrario, il deprezzamento del cambio ha sorretto in misura crescente le
esportazioni nette.
Di difficile valutazione sono i contributi alla crescita della politica
monetaria e degli sviluppi del mercato finanziario interno. Da un lato,
l’espansione del credito bancario è rimasta debole, non solo perché le grandi
imprese hanno coperto il loro fabbisogno di finanziamento emettendo
obbligazioni, ma anche per la riluttanza delle banche ad erogare prestiti ad
imprese medio-piccole, le cui garanzie sono in genere collegate a proprietà
immobiliari. Dall’altro, i tassi d’interesse sempre bassi, uniti al
deprezzamento del cambio, hanno aumentato gli utili delle grandi imprese
così da invertire la loro tendenza calante in atto da tre anni. Le imprese hanno
utilizzato parte di questi fondi addizionali per rimborsare i debiti bancari o
finanziare un modesto aumento degli investimenti fissi. Il vigore degli
investimenti residenziali, e il fatto che le famiglie hanno sostenuto i consumi
intaccando il saggio di risparmio, si possono considerare effetti degli stimoli
dei fattori monetari.
Infatti, il 1996 è stato caratterizzato da un allentamento di politica
monetaria, il cui fattore di stimolo principale è stato l’apprezzamento dello
13
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yen. Le politiche di bilancio non hanno provocato effetti contrattivi perché i
disavanzi strutturali sono aumentati negli ultimi due anni; lo stesso dicasi per
quelli effettivi.
Due importanti ruoli nella crescita lo hanno avuto sia la spesa in conto
capitale per macchine e attrezzature, sia la correzione delle scorte;
quest’ultima, nonostante nel primo semestre del ‘96 avesse determinato una
contrazione del prodotto dei paesi del G-7 di circa ½14 punto percentuale, ha
influito poi positivamente nel secondo.
Comunque, a fine ‘96 si è rilevato un notevole scarto tra PIL potenziale
ed effettivo (“output gap”), con una politica monetaria che è rimasta
espansiva anche dopo la fine della fase di prezzi decrescenti (il livello dei
prezzi, infatti, è aumentato per la prima volta dal ‘95). Il Giappone si è
ritrovato così in una condizione caratterizzata da un basso tasso d’inflazione e
un alto tasso di disoccupazione, tale per cui ulteriori restrizioni fiscali
avevano poca possibilità di provocare effetti positivi; anzi, rischiavano di
portare ad una situazione di deflazione. Sarebbe stato positivo assicurarsi una
copertura di politica monetaria; invece, per agire sul prodotto e sulla domanda
nel 1997, si è optato per provvedimenti di natura fiscale, tra cui il più
importante è stato l’aumento dell’imposta generale sui consumi dal 3% al
5%15.
Quest’aumento s’inquadrava in un contesto di provvedimenti di politica
fiscale restrittiva intervenuti all’inizio dell’aprile ‘97, che hanno determinato
un rallentamento nella crescita del prodotto dopo il primo trimestre di detto
anno, nonostante nel 1996 la crescita in Giappone fosse stata la più alta fra le
maggiori economie e ancora procedesse a ritmo vivace ad inizio dell’anno
dopo. I previsti aumenti delle imposte dirette e indirette, nonché i forti tagli
alla spesa in opere pubbliche, hanno comportato una riduzione del disavanzo
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strutturale pari al 1½% 16 del PIL. Inoltre, la dinamica autonoma del settore
privato si è rivelata più debole del previsto, il che porta a ritenere che di fatto i
vari stimoli fiscali introdotti tra il ‘92 e il ‘95 potrebbero essere stati più
efficaci di quanto si era portati a pensare. In effetti, non appena gli stimoli
fiscali sono venuti meno, la spesa delle famiglie, così come l’edilizia
residenziale e gli investimenti fissi delle imprese, è bruscamente calata,
mentre è salito il livello delle scorte eccedenti e sono diminuiti la produzione
industriale, le vendite al dettaglio e i profitti delle imprese. Successivamente
nel corso dell’anno, con un’economia praticamente sull’orlo di una nuova
recessione e un mercato immobiliare ancora al ribasso, l’ampio volume di
crediti in sofferenza accumulato nel precedente periodo di forte volatilità dei
prezzi delle attività ha limitato in misura crescente la volontà e la capacità
delle banche di erogare nuovi finanziamenti. In particolare, le imprese medio-
piccole, maggiormente dipendenti dalla congiuntura economica interna e con
minori possibilità di raccogliere fondi sui mercati finanziari esteri rispetto alle
grandi società orientate all’esportazione, sono state severamente colpite
dall’inasprimento delle condizioni creditizie e hanno contribuito in misura
decisiva alla caduta degli investimenti. La massiccia immissione di liquidità
da parte della Banca del Giappone e varie misure fiscali dirette a rafforzare il
sistema finanziario, sono riuscite solo in parte ad alleviare tali difficoltà.
Infine, con il deteriorarsi delle condizioni sul mercato del lavoro e il
manifestarsi degli effetti avversi della crisi asiatica, è caduta la fiducia delle
famiglie e delle imprese. Sommandosi alle crescenti incertezze circa la
solidità del sistema finanziario, ciò ha ulteriormente accentuato le forze
deflazionistiche nell’economia. Nell’insieme del 1997 la domanda interna è
diminuita di quasi il 2%17, ed è unicamente grazie ad un aumento delle
esportazioni nette se il PIL reale non è calato di altrettanto.
Proprio la domanda interna, dopo un avvio promettente nel 1997, è
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calata drasticamente a seguito del forte inasprimento della politica fiscale in
aprile. Una serie di shock ha ulteriormente scosso la fiducia dei consumatori e
delle imprese:
1) disoccupazione in aumento: ad inizio ‘98 i disoccupati erano il
3,6%18 della forza lavoro e il tasso di disoccupazione giovanile era salito al
8%19; a ciò è seguita una diminuzione della produzione oraria (da notare che il
calo nell’occupazione nel settore manifatturiero è stato in parte mitigato dalle
variazioni nette nell’interscambio derivanti: dalle relazioni commerciali con i
mercati emergenti o dalle pressioni concorrenziali che hanno accresciuto il
tasso di crescita della produttività);
2) timori di prossime ristrutturazioni industriali;
3) crisi asiatica e conseguente calo delle esportazioni verso
quest’area: infatti, si può affermare che gli eventi del ‘97 abbaino acuito i (già
esistenti) problemi interni giapponesi.
Il razionamento del credito, specie per le imprese minori che
normalmente non dispongono di fonti di finanziamento alternative, ha pesato
sull’economia, e la considerevole esposizione delle banche giapponesi verso
debitori asiatici di dubbia solvibilità non ha che ampliato questi effetti. Le
autorità giapponesi hanno reagito con due manovre economiche di stimolo,
che si aggiungono a varie altre iniziative di questo tipo. Tuttavia, dato il
precedente consenso sulla necessità di aumentare il risparmio nazionale per
far fronte alle pressioni demografiche, e la natura transitoria degli
alleggerimenti fiscali finora concessi, l’effetto ultimo sulla spesa è stato a
lungo incerto.
Nel complesso, si può affermare che la domanda interna ha stimolato
una crescita rapida nei primi mesi del ’97, grazie agli acquisti anticipati in
vista dell’aumento dell’imposta sui consumi; poi il suo dinamismo (più
debole anche per compensare l’orientamento restrittivo di politica fiscale) ha
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determinato una fase di stallo che ha permesso l’aumento dell’avanzo
giapponese nella bilancia dei pagamenti.
Nel ’97 si è potuto rilevare come anche i prezzi azionari avessero inciso
sul consumo, individuando una correlazione diretta tra le variazioni dei corsi e
i cambiamenti dei prezzi degli immobili e della fiducia dei consumatori. Così,
al calo del 20%
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subito dai prezzi reali delle azioni e al minimo storico
toccato dalla fiducia dei consumatori, si è potuta associare la caduta della
spesa reale delle famiglie di quell’anno.
Rilevante è stato anche l’andamento degli investimenti. Qualche
progresso è venuto dagli investimenti privati non residenziali che hanno
beneficiato peraltro della crescita delle esportazioni e della debolezza dello
yen. I maggiori programmi d’espansione sono stati, infatti, elaborati dalle
imprese export oriented che hanno dovuto rinunciare ad investire all’estero sia
per i maggiori costi d’impianto che per le crescenti incertezze legate
all’economia dei paesi limitrofe. Al contrario, una grave crisi ha interessato
sia gli investimenti in costruzioni (che sono caduti del 12,6%
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dopo il boom
determinato nel 1996 dai consistenti aiuti governativi a favore degli acquirenti
la prima casa), che gli investimenti pubblici (dopo i tagli alle spese in conto
capitale protrattisi per tutto il ‘97 e pari al 13,6%
22
).
Per quanto concerne la dinamica dei prezzi, il tasso di crescita dei
prezzi al consumo ha a più riprese raggiunto e superato il 2%
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risentendo,
oltre che dell’inasprimento della pressione fiscale indiretta, anche
dell’aumento dei prezzi all’importazione. Infatti, nel gruppo di paesi che negli
ultimi due anni hanno registrato i rincari più significativi in tali prezzi, è stato
il Giappone a segnare il maggiore, principalmente a causa del deprezzamento
dello yen.
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