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Introduzione
Osservando la nostra realtà si può notare come essa im-
pone una società basata sull’individualismo e dove le relazioni
interpersonali sono dettate dalla logica del consumo. In questa
visione utilitarista del mondo, la società appare spesso abitata
da individui soli e isolati, che intrattengono tra di loro, anzitut-
to, delle relazioni competitive, meno connotate dagli aspetti
affettivi, dalla solidarietà, dai legami e dalla creatività.
I ragazzi vivono, così, in una cultura, dove inevitabilmen-
te ne respirano ogni forzatura, quale l’acquisizione rapida di
riconoscibilità, di un’immagine capace di dare senso, forza e
sicurezza, anche solo apparente: quindi, un’apparenza solo per
esistere.
Osservando gli adolescenti possiamo dire che sono, in
parte, il prodotto di questa società, la rispecchiano nel suo
grado di complessità, nelle incertezze e nei disagi che vivono,
in un futuro poco stabile, talvolta confuso, non in grado di ac-
coglierli e contenerli. Ecco che molti comportamenti a rischio
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rappresentano proprio questo bisogno di uscire
dall’anonimato, di reagire al senso d’inutilità o anche per evita-
re la paura di essere sottomessi dal potere degli adulti.
Ciò che mi ha spinto ad affrontare tale tematica, ossia
quella delle nuove diversità nel panorama adolescenziale, è
appunto la curiosità e l’interesse di cercare di comprendere e
riflettere sulle capacità e sulle competenze che, al contrario,
gli adolescenti posseggono, per superare positivamente e co-
struttivamente il loro stato di disagio e fragilità: per non fon-
dare il suo percorso di vita sull’avere ma sull’essere se stesso,
per non cercare fuori di sé, nell’uso e abuso di alcol e droghe,
la risoluzione delle proprie difficoltà.
In questo nuovo millennio, in questa comunità sociale, è
diventato sempre più frequente l’atteggiamento di sconfitta e
di resa di fronte ai comportamenti di sfida dei ragazzi stessi: si
assiste, d’altronde, a genitori sempre più afflitti da sensi di col-
pa e da sensazioni di sconfitta per non essere stati delle buone
figure di riferimento e di aiuto, e sempre meno attenti alle ma-
nifeste o indirette richieste di aiuto e ascolto manifestate at-
traverso i loro atteggiamenti; docenti e istituzioni scolastiche
sempre più preoccupati per le incessanti richieste ministeriali
sullo svolgimento dei programmi didattici, e sempre meno in-
teressati ad essere non solo insegnanti ma anche persone
pronte ad ascoltare, a far partecipare attivamente i giovani e a
consapevolizzarli delle loro capacità e non solo delle loro ca-
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renze; educatori sempre meno predisposti a mettersi in di-
scussione attraverso percorsi di formazione e autoformazione
su tematiche che riguardano il mondo adolescenziale.
Penso e credo che la difficoltà principale stia proprio nel
considerare l’adolescenza solo nel momento in cui ci sono si-
tuazioni problematiche e non interessarsi a esso come un’età
piena di risorse e abilità da considerare e valorizzare.
Da simili premesse ne consegue che, come educatori
professionali, dobbiamo riflettere e ripensare, attraverso la
nostra professionalità, la nostra umiltà e la nostra visione uto-
pica, tutti quei servizi sociali e sanitari che si occupano di tale
fascia d’età, presenti nel territorio, cercando di promuovere
delle azioni progettuali che vertono alla promozione dell’agio
e alla prevenzione del disagio, non attraverso interventi di tipo
riabilitativo-rieducativo come nella tradizione pedagogica delle
diversità, ma utilizzando come finalità primaria la ricerca-
azione, la partecipazione attiva e il coinvolgimento creativo
degli adolescenti.
E’ fondamentale, per l’educatore, che in questo percorso
di ripensamento e concertazione, si crei una collaborazione tra
le diverse figure professionali operanti nel sociale, in un lavoro
integrato e di rete, coinvolgendo in primis le famiglie stesse
dei ragazzi.
Nello specifico del lavoro che presento, nel primo capito-
lo analizzerò le diverse terminologie e definizioni riguardanti la
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Pedagogia speciale e la Pedagogia della marginalità e della de-
vianza minorile, soffermandomi sul passaggio dalle tradizionali
diversità, quali le situazioni di handicap, alle nuove diversità,
costituite da nuovi cardini quali marginalità, disagio, disadat-
tamento, devianza.
La complessità delle nuove problematiche sociali, cultu-
rali e educative della diversità ha dato vita ad un forte passag-
gio qualitativo tra il passato ed un presente sempre più proiet-
tato verso nuove forme di emarginazione e disagio.
La Pedagogia speciale vede così dilatarsi i suoi confini e i
suoi orizzonti di ricerca ed è spinta a interessarsi in modo reti-
colare alla diversità come valore educativo all’interno della
normalità, dimostrandosi sempre più aperta nel cogliere e stu-
diare i bisogni emergenti dalle nuove diversità e dai nuovi di-
sagi. Ecco che nascono le ancelle della pedagogia speciale, tra
le quali la Pedagogia della marginalità e della devianza minori-
le, la quale studia, a sua volta, il fenomeno della marginalità e
del disagio adolescenziale all’interno della più ampia comples-
sità sociale.
Nel secondo capitolo mi soffermerò sulla complessità di
questa società planetaria, relazionandola con la fragilità
dell’adolescente di oggi, sempre più spinto a cercare la propria
identità fuori da sé, attraverso stili di vita caratterizzati da di-
vertimento, sballo e comportamenti a rischio.
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E’ davvero interessante comprendere, infatti, come le
nuove trasformazioni a livello globale della società in cui vi-
viamo, abbiano contribuito ad amplificare e mettere ancor più
in evidenza il disagio naturale dell’adolescente, causato dal
suo percorso di crescita: un percorso, questo, nel quale intera-
giscono fra loro fattori di natura biologica, psicologica e socia-
le, in preparazione alla vita adulta. Un cambiamento generaliz-
zato che si presenta su tutte le sfere dell’esperienza individua-
le; un cambiamento rapido, profondo, che porta l’adolescente
in una situazione di squilibrio e d’incertezze. Un adolescente
attratto sempre più da un mondo adulto che lo tratta da gran-
de, ma non lo considera ancora autonomo per fare scelte o
prendere decisioni importanti per la sua vita.
Un periodo nel quale agiscono due forze contrapposte:
da una parte, lo stimolo all’unità, al mantenimento dei legami
affettivi e al senso di appartenenza; dall’altra, la spinta verso la
differenziazione e l’autonomia.
E’ proprio in tale periodo, conflittuale, che s’instaura,
all’interno della vita sociale del ragazzo, il primo contatto con
le sostanze psicotrope, con le nuove droghe, con il tradiziona-
le alcol: un utilizzo sempre più legato alla voglia di evadere, alla
voglia di combattere la noia quotidiana, alla necessità di met-
tersi alla prova e mettere alla prova gli adulti di riferimento, al
bisogno di celare le proprie difficoltà e fragilità e dimostrarsi
forti e coraggiosi, a se stessi e agli altri.
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Nel terzo capitolo, infine, porrò la mia attenzione princi-
palmente sul lavoro di cura dell’educatore professionale, at-
traverso il suo bagaglio strumentale caratterizzato dalla pro-
gettualità, dalla promozione e dalla prevenzione. Strumenti u-
tilizzati sempre in un lavoro di rete e di supervisione da parte
di un meta educatore.
Droghe e alcol, in una cultura dello sballo e del diverti-
mento, costituiscono così, per la pedagogia della marginalità,
un argomento di studio nuovo e complesso, nel quale mettere
in discussione i vecchi schemi di comprensione delle diversità,
cercando, invece, di elaborare nuovi strumenti di riflessione e
ricerca all’interno di un sistema interdisciplinare e reticolare.
Chi agisce concretamente nelle situazioni di disagio gio-
vanile è proprio l’educatore professionale, attraverso la sua
professionalità e la sua capacità empatica di ascolto e com-
prensione.
L'educatore è, così, quell’operatore sociale che, nella re-
lazione di aiuto con il ragazzo, cerca di creare una relazione di
ascolto entropatico con il soggetto, riuscendo così a introdur-
ne un’azione resiliente che permette al giovane di attivare una
coscienza critica sul suo comportamento, aprendosi a nuovi
stili di vita.
Per adempiere questa importante finalità, l’educatore si
avvale di strumenti di lavoro, quali la progettazione
d’interventi preventivi e promozionali e attività di formazione
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e supervisione. Dal punto di vista del lavoro d’equipe,
l’educatore dovrà operare al fianco di altre figure sociali, piani-
ficando gli interventi attraverso dei tavoli di concertazione,
che permettono alla rete di progettare all’unisono, rispettando
la finalità della promozione dell’agio e della prevenzione dei
rischi.
Come esempio valido di azione promozionale e preventi-
va descriverò il progetto R.A.S.T.A.: un progetto creato
dall’Ambito Territoriale n°1 e dalla Provincia di Pesaro e Urbino
con la finalità di elaborare percorsi di promozione al benessere
e di prevenzione al disagio, attraverso un lavoro di rete tra i
servizi del territorio che coinvolgono gli adolescenti e attraver-
so la partecipazione attiva degli stessi ragazzi.
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Capitolo Primo
LA PEDAGOGIA DELLA MARGINALITA' E DELLA DEVI-
ANZA MINORILE.
Definire il campo della Pedagogia della marginalità e del-
la devianza è un compito complesso; tale complessità va attri-
buita sia alla storia dell'origine del concetto di devianza all'in-
terno di fenomeni sociali, culturali ed economici che ne hanno
progressivamente accentuato il carattere patologico, tra il
XVIII e il XIX secolo, sia all'impossibilità di trovare una purezza
dello sguardo pedagogico caratterizzante il complesso intrec-
cio fra i molteplici saperi delle scienze umane e sociali.
Tale problematicità non nega però la possibilità di trova-
re una specificità pedagogica, che nell'utilizzo del concetto di
soggetto deviante permetta di far luce su un processo storico
e culturale, fondamentale per la comprensione della nascita
della pedagogia, quale risposta sociale a un profondo muta-
mento prodotto riguardo al bisogno di controllo sociale.
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Fin dagli inizi la Pedagogia restò un sapere fortemente
legato alla sua matrice filosofica, “vista come la forma di di-
scorso guida e come sua area problematica e discorsiva di ap-
partenenza”
1
. Solo nella prima metà dell'Ottocento si rese in-
dispensabile la sua emancipazione dalla scienza filosofica, per
intraprendere un nuovo percorso epistemologico verso l'au-
tonomia e la scientificità.
La ricerca d’identità da parte della Pedagogia appare,
quindi, un processo in continuo divenire, contraddistinto da
una “naturale disponibilità a lasciarsi contaminare e attraver-
sare da altri saperi”
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. All'interno di questa sua specializzazio-
ne, in direzione di una maggiore apertura e flessibilità, si situa
la riflessione sulla diversità, sulla marginalità sociale e sulla de-
vianza.
In sostanza, le complesse articolazioni sociali, culturali e
educative di tali problematiche creano un avanzamento tra il
passato e un presente sempre più proiettato verso nuove for-
me di emarginazione e disagio. Porre l'attenzione a tali dimen-
sioni significa anche riconoscere l'impatto che la Pedagogia
speciale, scienza pedagogica della complessità per eccellenza,
e la Pedagogia della marginalità hanno determinato nel campo
delle scienze sociali, provocando una rottura epistemologica
dei paradigmi dominanti nella ricerca scientifica del XIX e parte
del XX secolo, interessandosi in modo nuovo e sempre meno
specialistico di diversità come valore educativo.
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1.1 Nascita e storia della pedagogia speciale, scienza della
diversità per eccellenza.
Nell'età moderna, con l'affermarsi progressivo
dell’economia industriale e della successiva ascesa della bor-
ghesia, si delinea la questione della problematizzazione della
diversità sociale attraverso la categorizzazione della follia co-
me condizione di esclusione e marginalizzazione.
A partire dal XVII secolo la follia viene affiancata in qual-
che modo ad una grande piaga dell'umanità, la lebbra: se il
lebbroso veniva escluso e marginalizzato oltre i confini della
città, il folle veniva internato nelle grandi istituzioni ospedalie-
re in quanto inoperoso per la popolazione e pericoloso per
l'ordinamento pubblico, sulla base del principio ideologico se-
condo cui “una società è tanto più perfetta quanto più è razio-
nalmente controllata e ordinata”
3
.
Il XVII secolo è così caratterizzato dal principio di esclu-
sione, cui si collegano meccanismi di allontanamento, di disco-
noscimento e di segregazione a favore di una tutela della pu-
rezza della comunità. Non è la malattia ad aver riposto il folle
ai margini della normalità, ma è la cultura sociale che l’ha iden-
tificato, da un lato, come rifiuto della società da assistere e cu-
rare in ambiente protetto, dall'altro, come deragliamento della
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ragione e, quindi, bisognoso di un intervento di recupero giac-
ché caratterizzato da una mente sconnessa dalle passioni.
Ecco che, nella seconda metà del 1700, iniziarono così a
comparire le prime istituzioni manicomiali, caratterizzate da
trattamenti disumanizzanti, e sorrette da logiche repressive e
punitive. L'ambiente segregante del manicomio consentì l'in-
troduzione di tecniche psichiatriche, miranti a curare la follia
attraverso il controllo della mente, delle passioni e della volon-
tà con l'intento rieducativo di trasformare il comportamento
del folle.
A tal proposito è importante ricordare i notevoli contri-
buti apportati alle tecniche psichiatriche da P. Pinel e J.E.D E-
squirol
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: entrambi gettarono, infatti, le basi della moderna
psichiatria, considerando la follia come comportamento ano-
malo, ma con natura comprensibile e reversibile.
Pertanto, il manicomio diventò luogo ove la follia era
guaribile, dove gli alienati non erano rinchiusi per sicurezza ma
per ricevere un trattamento rieducativo che gli permettesse di
rimettersi in salute.
E' proprio in questo secolo che si sviluppa un nuovo mo-
dello di concepire la diversità: il modello dell'inclusione, stret-
tamente legato alle pratiche sociali connesse al problema della
peste. Diversamente dalla lebbra, la peste doveva necessaria-
mente essere differenziata dalla comunità ed essere ripartita
rigidamente all'interno di spazi ben definiti.
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Se, dunque, il modello di controllo di esclusione corri-
spondeva alla tesi secondo cui non è tanto l'individuo in sé a
costituire l'oggetto delle pratiche sociali, quanto “quella mas-
sa multiforme di potenziali sovvertitori dell'ordine sociale”
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, il
modello inclusivo definisce il problema della diversità attraver-
so l'individualità stessa dei soggetti. Si produce così un pas-
saggio decisivo nella direzione di poter analizzare nell'indivi-
duo stesso l'insorgenza di quei caratteri che ne definiscono lo
stato di normalità o anormalità.
Nelle diverse fasi di trattamento di una particolare diver-
sità, quale quella del folle, si coglie l'emergere graduale
dell'importante passaggio dalla rassicurante cultura della re-
clusione-emarginazione a quella medico-assistenzialistica, fino
al progressivo sviluppo della prevenzione socio-educativa e
delle dimensioni della cura educativa e della relazione di aiuto,
nell'ottica della integrazione.
Il problema della recuperabilità del “diverso”, dell'handi-
cappato, è messo in evidenza nel momento in cui l'esigenza
terapeutica rivela la relazione tra problema terapeutico e pro-
blema educativo. Le figure pionieristiche, appartenenti
all’Ottocento nella quale s'integrano storicamente la compe-
tenza medico-terapeutica e quella pedagogico-rieducativa, so-
no J.M.G. Itard e E. Séguin
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, considerati precursori della Peda-
gogia speciale.