Introduzione
1
1. Introduzione
In questo lavoro di tesi mi sono occupata della caratterizzazione del materiale di riempimento
prelevato da diverse opere d’arte di epoca medioevale, specificatamente il Crocifisso del Duo-
mo di Vercelli (XI secolo) e tre legature – cioè copertine di Vangeli o altri testi sacri: il Liber E-
vangeliorum o Codice C (XI – XII secolo), il Codex Eusebianus o Codice A (X secolo) e la Pace di
Chiavenna (XI – XII secolo)[11]. Le prime due sono conservate nel Museo del Tesoro del Duomo
di Vercelli, l’ultima nel Museo del Tesoro di Chiavenna (SO).
Nel caso dei campioni provenienti dal Crocifisso, inoltre, si è voluto verificare se, come attesta
la tradizione [49], alcuni di essi provengano da parti aggiunte a posteriori rispetto all’epoca di
realizzazione del manufatto stesso.
L’oreficeria ebbe una vera e propria esplosione di forme durante l’Alto Medioevo, dato che ogni
popolazione cosiddetta “barbara” aveva uno stile caratteristico e tutte queste genti possedeva-
no una grande conoscenza riguardo la lavorazione dei metalli. Nel loro studio si tende perciò a
dividere i manufatti secondo il popolo che le ha create, ma anche questo può essere molto
complicato, visto che le commistioni erano frequenti; nel nord Italia, per esempio, convissero
felicemente arte bizantina, carolingia e ottoniana.
In generale, le opere di oreficeria avevano scopo decorativo (gioielli, fibule di cinture, spille, el-
se di spade), magico–protettiva (amuleti) o devozionale, come nel caso degli oggetti citati in
questo lavoro di tesi: i Crocifissi, le legature di testi sacri e le corone e gli altri attributi dei so-
vrani, anche se questi ultimi intersecano tutte e tre le categorie citate. Comunque, a un oggetto
in oro o argento si attribuiva sempre un significato magico o sacro, per l’incorruttibilità dei me-
talli, insieme a una manifestazione della ricchezza e del potere del committente e di chi li indos-
sava. Eppure, paradossalmente non abbiamo notizie delle officine orafe che creavano questi
oggetti, anche se è noto che gli oggetti religiosi erano spesso creati direttamente nei monasteri;
per quanto riguarda le tecniche di realizzazione, invece, esse sono state ricavate o dall’analisi
delle opere giunte fino a noi, o dai trattati tecnici dell’epoca, il più famoso e importante dei
quali è il De Diversis Artibus del monaco Teofilo, una sorta di enciclopedia del sapere tecnico del
Medioevo (è stata redatta nel XII secolo) nel campo dell'arte e dell'artigianato.
Introduzione
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La lavorazione del metallo era idealmente molto semplice, dato che si trattava di scaldare la
lamina e poi batterla con un martello fino a raggiungere forma e spessore desiderati, oppure
inciderla con il cesello per avere figure in rilievo. Sopra potevano essere posizionati smalti o
gemme, ed esistevano numerose tecniche di decorazione della superficie: nel corso del lavoro
di tesi, sugli oggetti preziosi da cui provenivano i nostri campioni abbiamo incontrato il niello,
una lega metallica di colore nero composta da solfuri di argento e rame usata già in epoca ro-
mana, il cloisonné, tipicamente bizantino, che prevede la deposizione di uno smalto colorato in
celle delimitate da fili metallici, e lo champlevè, mutuato dall’arte celtica, che si ottiene scavan-
do il metallo e deponendo nelle lacune così create lo smalto.
La lavorazione di lamine così sottili avveniva su un materiale sufficientemente resistente da
sopportare i colpi di martello, ma allo stesso tempo abbastanza malleabile da permettere
l’incisione delle figure riportate poi sul metallo. Inoltre, doveva anche avere proprietà adesive,
perché l’oro o l’argento andavano ancorati al legno che fungeva da base dell’opera. Nel suo
trattato, Teofilo denomina questo composto Il preparato chiamato “Tenax” [9]:
Successivamente viene descritta la lavorazione del manufatto vero e proprio – in questo caso,
un’ampolla:
Trita un pezzo di mattone o tegola e falla in polvere, poi sciogli della pece in un vaso di
terracotta, aggiungi un po’ di cera. Dopo che queste si sono sciolte insieme, mischiaci la
tegola polverizzata e mescola con forza e versa dell’acqua, e quando comincia a raffred-
darsi, intingi le tue mani nell’acqua e mescola a lungo fino a che puoi stendere e tirare
questo preparato come una pelle.
Introduzione
3
Queste citazioni provengono dal capitolo LIX del Libro III. Nel capitolo LXXIV, dal titolo Lavoro a
sbalzo, si fa invece riferimento al potere adesivo:
Il riempitivo ha dunque una doppia natura: una parte inorganica, fatta di sabbia, argilla o polve-
re di tegola che funga da massa inerte su cui lavorare il metallo, e una componente organica di
cera o pece che serva da collante tra metallo e legno. In quest’ultimo caso, per cera si intende
la cera d’api, e per pece il residuo solido della distillazione della resina delle piante (specialmen-
te le conifere), che oggi viene più propriamente chiamata colofonia.
Di questo materiale, così umile eppure fondamentale nell’oreficeria medievale, la bibliografia in
campo scientifico è scarsissima: esistono solo due studi, effettuati sul reliquiario in lamina ar-
gentea contenente i resti dei figli di San Sigismondo, dell’abbazia di San Maurizio d’Agauno in
Svizzera [6] e sul Crocifisso del San Michele di Pavia [7]. Quest’ultimo ha inoltre il vantaggio di
Sciogli immediatamente questo preparato e con esso riempi l’ampolla fino in cima.
Quando si è raffreddato disegna quello che vuoi sul corpo e sul collo poi, prendendo dei
ceselli sottili e un piccolo martello, incidi ciò che hai disegnato battendo leggermente in-
torno. Poi [...] abbassa lo sfondo in modo che sia cavo e le figure in rilievo. Quando hai
battuto una volta dappertutto, posta l’ampolla sul fuoco, togli il preparato e riscaldato
l’ampolla di nuovo e tolta dal fuoco, riempila di nuovo e batti come prima e procedi così
fino a quando tutti gli sfondi sono stati ugualmente abbassati.
... prendi della cera e scioglila in un contenitore di rame o terracotta e mischia con della
tegola o della sabbia finemente tritata, in modo che siano due parti di questa e una terza
di cera. Quando questa si è sciolta omogeneamente, girala vigorosamente con un cuc-
chiaio di legno, quindi riempi le figure, o altro lavoro in rilievo che c’è da fare in oro, ar-
gento e rame, quando si è raffreddato, attaccalo dove vuoi.
Introduzione
4
analizzare un’opera appartenente alla scuola lombarda esattamente come il Crocifisso da cui
provengono i campioni che si sono analizzati in questo lavoro di tesi, seppure realizzato almeno
due secoli dopo. Sono comunque risultati utili alcuni articoli che analizzavano sostanze affini
per composizione al riempitivo, anche se molto differenti come impiego ed epoca di realizza-
zione, come la malta dell’opus sectile tardo romano [22], i materiali impermeabilizzanti per le
navi etrusche e romane [23], i residui organici trovati in unguentari o vasi romani [21, 25], un
tipo di antica carta cerata coreana [24] e gli adesivi usati in una spada cinese [26].
Vista la varietà di molecole previste in ogni campione, le tecniche analitiche utilizzate sono sta-
te molteplici: per tutti i campioni si sono impiegate le spettroscopie FT-IR e Raman e la diffra-
zione dei raggi X; sui più abbondanti è stata inoltre usata la termogravimetria, per studiare la
degradazione di un campione sottoposto a riscaldamento, e la gascromatografia accoppiata a
spettrometria di massa. Da laboratori esterni, poi, è stata eseguita la datazione al radiocarbo-
nio: i risultati sono stati comunque inseriti in questa tesi, sebbene non eseguiti direttamente da
noi, per una maggiore completezza dei risultati.
Materiali
5
2. Materiali
In generale, il materiale che costituisce i nostri campioni ha un colore rossastro, marrone o (più
raramente) giallastro: questa diversità è già testimonianza della loro diversa composizione. Si
può quindi supporre che per questa sostanza così umile rispetto ai metalli preziosi e alle gem-
me che la ricoprivano, che nell’oggetto finale non si sarebbe dovuta vedere, ogni artigiano u-
sasse semplicemente quello che aveva sottomano, nelle dosi che preferiva, seppure rispettan-
do la ricetta di partenza.
I materiali che supponiamo comporre i campioni sono quelli riportati dal già citato ricettario di
Teofilo e individuati negli articoli scientifici: cera d’api e colofonia per la parte organica e sabbia,
argilla o polvere di tegola (o di terracotta in generale) per la massa inerte. Inoltre, in campioni
di epoche più tarde si potrebbe individuare il solfato di bario, come riportato in [15].
2.1. Polvere di tegola, sabbia, barite
Queste costituivano la massa che doveva fare da corpo inerte su cui lavorare la lamina.
La polvere di tegola è formata da materiale ceramico non vetrificato, a sua volta composto da:
Argilla, conseguenza dell’erosione delle rocce e composta principalmente da silicati idra-
ti di alluminio e magnesio, la cui formula chimica generale è Alx2SiO
2
x2H
2
O, base di nu-
merose varianti. I principali minerali che la compongono sono le caoliniti (Al
2
Si
2
O
5
(OH)
4
),
seguite dagli altri cosiddetti minerali argillosi (allosite, smectite, vermiculite, illite, clori-
te) e non argillosi (quarzo, calcite, pirite, ossidi e idrossidi di alluminio e ferro), sali solu-
bili, prodotti organici e sostanze amorfe;
Acqua in rapporto 1:4 rispetto all’argilla;
Tempere (fillers), che permettono un’evaporazione capillare dell’acqua durante la cottu-
ra del manufatto, minimizzando la contrazione dell’argilla durante la cottura e preve-
nendo quindi la rottura dell’oggetto. Sono sostanze di natura organica (sterco, paglia,
fieno) o inorganica (conchiglie, spicule, sabbia, calcare, arenaria, basalto, cenere vulca-
nica), e possono comprendere anche grog, cioè frammenti di ceramiche usate in prece-
denza.
Durante la cottura per essere trasformata in ceramica, l’argilla subisce numerose trasformazio-
ni:
Materiali
6
1) A circa 100°C perde l’acqua rimasta dopo il precedente essiccamento essiccamento
all’aria;
2) Tra 100 e 200°C viene eliminata l’acqua interfogliare, racchiusa tra le particelle argillose;
3) A 350°C perde l’acqua di idratazione, cioè quella che compare nelle formule dei compo-
sti perché legata chimicamente agli elementi presenti nel reticolo cristallino dei minerali
delle argille;
4) Tra 350°C e 650°C le sostanze organiche presenti subiscono la combustione e vengono
degradate a CO
2
+ H
2
O;
5) Se l’argilla in cottura contiene caolinite, questa attorno ai 450°C perde tutta l’acqua di
idratazione, trasformandosi in meta caolinite;
6) Tra 450°C e 650°C è eliminata l’acqua di costituzione, chimicamente legata: è la fase nel-
la quale l’argilla perde la plasticità e non può più essere modellata;
7) A 573°C il quarzo passa dalla forma a alla forma b , e questo provoca un repentino au-
mento di volume;
8) Da 700°C in su inizia la sinterizzazione, il passo precedente alla fusione: le particelle si
aggregano e i pori si chiudono;
9) Tra 800°C e 950°C si decompongono i carbonati: in atmosfera ossidante si otterranno i
rispettivi ossidi e anidride carbonica, in atmosfera povera di ossigeno ossido di carbonio
e fuliggine.
Sopra i 1000°C i silico-alluminati iniziano a fondere, formando un vetro: si parla appunto di vitri-
ficazione, processo che dà vita alle ceramiche più pregiate, come il gres e la porcellana, ma che
non interessa la terracotta di cui sono composti i mattoni.
Anche la sabbia, come l’argilla, deriva dall’erosione delle rocce: la differenza tra argilla e sabbia
a livello morfologico è data dalle dimensioni delle particelle che le costituiscono, che nella pri-
ma sono maggiori. I minerali più abbondanti nella sabbia sono quarzo (SiO
2
) e feldspati (formula
generale (Ba,Ca,Na,K,NH
4
) (Al,B,Si)
4
O
8
) in sabbie chiare, magnetite (FeOxFe
2
O
3
), ematite (Fe
2
O
3
)
e granato (X
3
Y
2
(SiO
4
)
3
, con X catione bivalente e Y trivalente) in sabbie scure.
In epoca rinascimentale si sostituì a queste sostanze la barite, cioè solfato di bario: ciò rende
possibile riconoscere nei manufatti aggiunte di epoca successiva, dato che questo materiale
non era conosciuto anteriormente al XVI secolo, e il primo riferimento si trova nel De re metalli-
Materiali
7
ca di Agricola (Georg Pawer o Bauer, 1494–1555), pubblicato nel 1556 ma datato intorno al
1550; qui si fa riferimento alla barite come spat o spar pesante [10].
Si tratta di un minerale proveniente da vene e cavità di sostituzione nei calcari e nelle dolomie,
e spesso è associato a calcite e quarzo. Oltre che come carica inerte, è stato usato anche come
diluente per i pigmenti e, dal 1782/3, come pigmento bianco esso stesso, con il nome di pietra
di Bologna.
2.2 Cera d’api
Quella ottenuta dagli alveari delle api è la cera più utilizzata nella creazione di oggetti d’arte:
nel corso del tempo è stata impiegata come sigillante, protettivo, impermeabilizzante, lucidan-
te, legante per pigmenti (nella tecnica a encausto), per modellare manufatti e come ingrediente
per balsami e cosmetici, oltre naturalmente al suo uso nella fabbricazione di candele.
La cera d’api è prodotta da varie specie di questo insetto, ma la sua composizione è qualitati-
vamente costante: acidi grassi a numero pari di atomi di carbonio (C
22
–C
34
, il composto predo-
minante è C
24
), n-alcani a numero dispari di carboni (C
21
–C
33
, la molecola principale è C
27
) ed e-
steri derivanti dall’acido palmitico, e che vanno da C
40
a C
52
. Sono inoltre presenti idrossiesteri,
mono e diesteri, idrossidi esteri e alcoli, anche se in concentrazioni minori.
Figura 2.1: Molecola dell’acido palmitico.
Le catene alifatiche sono in gran parte saturate, e quindi estremamente stabili e inerti chimi-
camente: questo le rende molto resistenti all’invecchiamento. Tuttavia, a seconda dei tratta-
menti a cui è stata sottoposta e alle condizione di conservazione, possono esserci delle modifi-
cazioni nella composizione originaria; dato che la cera è solida a temperatura ambiente, ma ha
un punto di fusione relativamente basso (tra 62 e 64°C), i trattamenti termici erano spesso im-
piegati per ottenere un materiale più morbido e quindi lavorabile, che potesse essere usato
come legante o mischiato ad altri composti. Con questa procedura – e con il naturale invec-
chiamento della cera – si provoca una sublimazione parziale della componente più volatile, e
quindi una variazione nelle percentuali di alcani ed esteri. Inoltre, l’umidità atmosferica può
portare a una parziale idrolisi degli esteri, formando acido palmitico e alcol a catena lunga, che
a loro volta possono sublimare, facendo variare le percentuali di acidi e alcoli.
Materiali
8
2.3. Resine, pece, colofonia
La pece, la colofonia e il catrame sono prodotti del riscaldamento delle resine, e presentano
perciò una composizione chimica simile ad esse.
La resina è un essudato delle piante, al pari della gomma o del lattice: è una sostanza acellulare,
idrofoba, prodotta per proteggere l’albero, in caso di danneggiamento della corteccia,
dall’eccessiva perdita di acqua e dall’attacco di microrganismi estranei. Anche per queste sue
caratteristiche, si conserva piuttosto bene nel corso dei secoli; in passato era usata come adesi-
vo, sigillante, disinfettante e nell’illuminazione, per la sua infiammabilità.
Le resine e i loro derivati sono formate principalmente dai terpenoidi, una classe di composti
costituiti a partire da unità di isoprene, una struttura di tipo C
5
. Il nome deriva da terpene, usato
da Kekulé per descrivere gli idrocarburi C
10
H
16
presenti nell’olio di trementina.
C H
2
CH
2
CH
3
Figura 2.2: Isoprene.
Oggi sono note diverse centinaia di terpenoidi, perciò, per comodità, si usa dividere le molecole
in base al numero di unità di isoprene che le costituiscono:
1) Monoterpenoidi e sesquiterpenoidi, composti rispettivamente C
10
e C
15
presenti negli
olii essenziali e nelle alghe. I gruppi funzionali presenti sulla singola molecola – si sono
osservati alcoli, chetone ed eteri – sono i responsabili delle differenti proprietà chimi-
che, ma in generale si può dire che i monoterpenoidi costituiscono la frazione volatile e i
sesquiterpenoidi, più pesanti, quella non volatile: infatti l’olio di trementina, ottenuto
dalla distillazione della resina di pino, è formato quasi esclusivamente da monoterpe-
noidi.
2) Diterpenoidi, molecole C
20
che compongono le resine della famiglia delle conifere
(comprendente Pinacee, Cupressacee e Araucariacee) e delle leguminose. Possiedono
scheletri abietanici, pimaranici e labdanici: la resina di pino, per esempio, contiene so-
prattutto i primi, oltre a una gran quantità dell’acido abietico da cui essi derivano, una
molecola triciclica.
Materiali
9
10
5
1
4
2
3
9
8
6
7
11
12
14
13
18
CH
3
19
CH
3
20
15
CH
3
17
CH
3
16
H
H
H
O H
O
10
5
1
4
2
3
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C H
3
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CH
3
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CH
3
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CH
3
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CH
3
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H
H
H
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4
2
3
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6
7
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CH
3
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13
C H
3
18
CH
3
19
CH
3
20
15
CH
3
16
CH
3
Figura 2.3: Immagine dell’acido abietico. Sotto, il pimarano e il labdano.
Il riscaldamento della resina provoca reazioni di isomerizzazione, che portano a una mi-
scela arricchita in acido abietico a scapito delle molecole abietaniche: il prodotto solido
che si forma è noto come colofonia.
3) Triterpenoidi, sostanze C
30
pressochè ubiquitarie nelle resine e nei loro derivati, anche
se si trovano in concentrazione maggiore nelle piante a foglia larga, soprattutto (ma non
esclusivamente) in quelle tropicali. Gli scheletri carboniosi sono estremamente vari, e
possono includere strutture tetra- e penta cicliche.
Quando la resina o il legno resinoso sono sottoposti a forte riscaldamento, si provocano delle
variazioni significative nella composizione chimica, portando alla formazione di catrame di le-
gna, pece e – come già detto – colofonia: si assiste a deidrogenazione termica, decarbossilazio-
ne e de metilazione, che portano a una gamma di prodotti secondari il più stabile dei quali è il
retene, un diterpenoide triaromatico defunzionalizzato con formula C
18
H
18
.
Figura 2.4: Molecola di retene.
Tecniche Analitiche
10
TECNICHE ANALITICHE
Tecniche analitiche: Spettroscopia FT–IR
11
3. Spettroscopia FT–IR
La spettroscopia IR è una tecnica molecolare che si basa sull’interazione fra la materia e una ra-
diazione elettromagnetica che appartiene alla regione, appunto, infrarossa. In particolare, a se-
conda della lunghezza d’onda si parlerà di:
IR vicino (NIR) tra 13000 e 4000 cm
-1
;
IR medio (MIR) tra 4000 e 200 cm
-1
;
IR lontano (FIR) tra 200 e 10 cm
-1
.
La zona che più è utile per l’identificazione delle molecole organiche è quella compresa fra 4000
e 400 cm
-1
: si tratta, comunque, di analisi prevalentemente qualitative, a causa della difficoltà
nella preparazione del campione e della complessità dello spettro.
3.1. Vibrazioni IR attive e IR non attive
Quella IR è una spettroscopia di vibrazione: infatti, quando una molecola organica viene inve-
stita da una radiazione infrarossa la cui frequenza (espressa in termini di numeri d’onda, inver-
samente proporzionale alla lunghezza d’onda) sia compresa fra 10000 e 100 cm
-1
, l’energia ce-
duta dalla radiazione stessa viene convertita in energia vibrazionale.
Figura 3.1: Stati vibrazionali.
Tuttavia, non tutte le vibrazioni delle molecole sono visibili nella spettroscopia IR, bensì soltan-
to quelle che portano a una variazione del momento dipolare della molecola, e che perciò ven-
gono denominate vibrazioni IR attive: quando si ha una tale modificazione, la molecola, vibran-
Tecniche analitiche: Spettroscopia FT–IR
12
do, produce un campo elettrico oscillante: ciò rende possibile lo scambio di energia con le onde
elettromagnetiche, e lo strumento registra questa variazione rispetto alla radiazione incidente.
In generale, maggiore è la variazione del momento dipolare, maggiore è l’assorbimento di e-
nergia da parte della materia.
3.2. Modello dell’oscillatore armonico
Usiamo quest’approssimazione per prevedere la frequenza alla quale un certo gruppo funziona-
le presente in una molecola biatomica assorbirà, e sapere quindi dove cadrà il corrispondente
segnale nello spettro.
Si immagina ogni legame tra due atomi come una molla, così che il sistema possa essere consi-
derato un oscillatore armonico. Perciò, per la legge di Hooke,
x k F - =
Con F forza della molla, k costante elastica e x spostamento lungo l’asse della molla stessa.
Mettendolo in moto, si vedrà che:
Atomi più leggeri sono più facili da muovere: perciò, minori sono le masse degli atomi,
maggiore è la frequenza alla quale oscillano;
Più rigida è la molla, maggiore sarà la frequenza alla quale si ha l’oscillazione. Quindi, a-
tomi uniti da un legame singolo vibrano a frequenze più basse rispetto a quelli uniti da
legami doppi o tripli.
L’energia potenziale del sistema vale
2
2
1
kx E =
E da questa si potrà poi calcolare la frequenza di vibrazione:
m p k
c
v
vibr
=
2
1
Dove c è la velocità della luce, k di nuovo la costante di forza e µ
2 1
2 1
M M
M M
+
= la massa ridotta,
indicando le masse atomiche dei due atomi con M
1
e M
2
,.
In generale, maggiore è la costante di forza k (che aumenta spostandosi da sinistra a destra lun-
go le prime due righe della tavola periodica) e maggiore la frequenza di assorbimento; maggio-
re la massa ridotta µ, minore la frequenza. Tuttavia, l’incremento di k ha un effetto maggiore
rispetto a quello della massa: è per questo, per esempio, che il gruppo F–H assorbe a una fre-