Introduzione
Il presente elaborato verte sullo studio analitico dei conflitti e sui vari approcci
adottati dalla Peace Research, che mirano essenzialmente a trasformare un
conflitto violento attraverso mutamenti che incidono sulla sua escalation.
Verranno trattate in tal contesto le dinamiche e le caratteristiche attraverso le
quali si compone un conflitto, si articola, cresce e si trasforma da “distruttivo”
a “costruttivo”, gli approcci utilizzati da alcuni padri fondatori della
trasformazione dei conflitti, in particolare traendo spunto dai modelli
triangolari del sociologo norvegese Joahn Galtung e dal modello di escalation
del conflitto di Friedrich Glasl, nonché l’applicazione pratica di questi schemi
ad un contesto particolarmente attivo e dinamico contrassegnato da oltre
cinquant’anni d’ostilità, quale il Kashmir. Nel capitolo iniziale mi soffermo
inizialmente sulla definizione del conflitto, che non è univoca ed applicabile ad
ogni contesto, poiché si compone di varie sfumature e sfaccettature legate
proprio al concetto di pace. Ci sono autori come Galtung che definiscono il
conflitto come “una incompatibilità (o scontro, divergenza, opposizione,) tra
scopi (o interessi, valori, bisogni, etc) perseguiti da attori diversi (persone,
gruppi, nazioni)”
1
. Tale incompatibilità non può essere debellata pienamente,
ma trasformata, poiché il conflitto agisce come un importante catalizzatore di
mutamento sociale agendo principalmente su alcuni pilastri fondativi della
violenza scaturita attraverso conversioni costruttive del contesto conflittuale.
Ed è proprio partendo da questo assunto che si ramifica lo studio della Peace
Research, associato alla ricerca di vere e proprie teorie e tecniche della
trasformazione dei conflitti. L’approccio trasformativo vede il conflitto non
come una minaccia, bensì come un occasione di crescita e di comprensione
maggiore degli attori e della dinamica violenta, attraverso la costituzione di un
cambiamento costruttivo che colpisca sia le relazioni che le strutture di potere.
1
Johan Galtung “Le teorie della difesa nel quadro di una teoria generale dei conflitti”
in “Invece delle armi: obiezione di coscienza, difesa nonviolenta, corpo civile di pace
europeo”, Aa. Vv., Edizione Fuorithema, Milano, 1996, p. 4.
Esistono diversi approcci teorici che sintetizzano l’opera di conversione
costruttiva del conflitto e tra i quali il più diffuso è il conflict trasformation. La
peculiarità di questo processo è che avviene attraverso un ordine graduale ed
imprime l’utilizzo di strumenti non violenti quali la persuasione e la
comunicazione, agendo anche sul dettame latente della violenza, che
solitamente si concretizza nell’essenza culturale di una popolazione. La
trasformazione colpisce quindi nello specifico il contesto, la struttura, gli attori,
problemi per la riformulazione delle posizioni e i cambiamenti personali nella
mente e nel cuore dei leader e dei piccoli gruppi con potere decisioni. Tra i
principali autori che ho esaminato per lo studio trasformativo ho evidenziato le
azioni perseguite da Diana Francis, John Paul Lederach, e lo schema
predisposto da Diamond e Mc Donald sulla multitrack diplomacy,
La fine del capitolo invece è dedicata pienamente alla parte “tecnica” della
trasformazione dei conflitti, ovvero il processo di negoziazione. La
classificazione e la distinzione tra negoziazione morbida e dura, e tra trattativa
di posizione e negoziato di principi, ci porta alla conoscenza degli obiettivi
principali che ogni buon mediatore deve ricercare nelle interazioni conflittuali
tra le controparti. Il segreto è quello di scindere le persone dal problema,
concentrarsi sugli interessi e no sulle posizioni assunte, generare un ampia
gamma di opzioni disponibili ed insistere sui criteri oggettivi. Per raggiungere
tali finalità l’arte della diplomazia negoziale enuncia alcuni strumenti specifici
come l’articolazione corretta del linguaggio mostrando empatia ed interesse,
l’utilizzo del brainstorming per valutare assieme alle controparti le possibili
opzioni da aggiungere, la tecnica del jujitzu negoziale, e la costituzione di
domande specifiche e come difendersi dai tranelli ed inganni possibili in uno
scontro di personalità contrapposte (l’inganno deliberato, la guerra psicologica,
la pressione posizionale).
Il secondo capitolo dell’elaborato verte invece sulla modalità applicativa della
trasformazione dei conflitti apposta dai maggiori esponenti della Peace
Research: Joahn Galtung e Friedrich Glasl. Il sociologo norvegese Galtung
parte dall’assunto che un conflitto può non essere solo distruttivo ma celarsi in
costruttivo attraverso il raggiungimento di un gioco a somma positiva (win-
win) nel quale le controparti distanti cercano di assottigliare le proprie
differenze cercando di trovare nessi comuni per ottenere benefici. Galtung
inoltre enuncia che la peculiarità dell’approccio trascend sta proprio nella
creatività, ovvero non ricercare nuovi elementi da inserire nel contesto
violento, ma utilizzare le scintille conflittuali e convertirle in una combinazione
diversa e matura. Le principali teorie espresse dal sociologo vengono
sintetizzate in schemi triangolari in cui si evidenziano solitamente non solo gli
aspetti manifesti del conflitto, ma anche quelli latenti, che particolarmente sono
radicati all’interno della cultura e che portano alla costruzione del nemico, alla
costituzione di pregiudizi e stereotipi. Partendo da questo assunto il primo
schema definito “Triangolo ABC” ( o Triangolo del Conflitto ) descrive che i
conflitti sono composti dalla combinazione di tre elementi: Atteggiamenti e
contraddizioni di base ( che solitamente sono latenti o poco visibili ) ed il
Comportamento ( che è la parte visibile del contrasto ). Attraverso questo
modello il sociologo norvegese rimarca l’importanza di non trascurare anche
l’insieme delle percezioni, gli schemi cognitivi e la catena dei valori che
costituiscono la dimensione soggettiva ed interiore del conflitto, e che sono i
germogli più difficili da eliminare. Proprio per questo è erroneo concentrarsi
solo su uno dei tre elementi poiché sono strettamente correlati, infatti il
comportamento che è la parte manifesta si concretizza nell’azione conflittuale
scaturita da un atteggiamento e da una contraddizione di base, che è una
mescolanza tra le percezioni assunte dagli interlocutori e gli oggetti contenziosi
del conflitto. La cura predisposta per questo schema è di risolvere il conflitto
agendo sugli atteggiamenti mostrando empatia, sui comportamenti attraverso
azioni non violente e sulla contraddizione di base attraverso la creatività. A
partire da questo schema Galtung predispone anche un importante distinzione
tra il conflitto e la violenza, rappresentato da un successivo schema triangolare
definito “Triangolo della violenza”, in cui si distinguono tre tipologie: la
violenza diretta, è la manifestazione più visibile che si concretizza in attacchi
fisici, percosse, omicidi, ed è volta a colpire direttamente la persona umana dal
punto di vista fisico; la violenza strutturale, meno visibile e solitamente
incarnata nelle strutture sociali e politiche, si manifesta attraverso
discriminazioni sociali e legislative ed infine la violenza culturale, la più
importante, che è profonda e radicata, intrinseca nella cultura, che viene
utilizzata per giustificare o legittimare la violenza strutturale e diretta. Esse si
differenziano sia a seconda della tempistica: la violenza diretta è un evento,
quella strutturale un processo mutevole, quella culturale infine un percorso più
persistente, e vengono pertanto correlate in relazione ai bisogni umani
fondamentali. La risoluzione conflittuale e successiva trasformazione di questo
schema si concretizza nell’ultimo schema triangolare definito “Triangolo della
pace”, in cui in correlazione delle tre tipologie di violenza si apportano tre
diverse cure: nella pace diretta si racchiudono tutte le formulazioni di
cooperazione e dialogo tra gli attori conflittuali, nella pace strutturale invece si
concretizza l’azione delle strutture che rispondano alla tutela dei diritti di una
società, dei diritti umani e delle libertà fondamentali, ed infine nella pace
culturale si cela il ruolo principale di una cultura che promuova la pace come
un valore che rispetti e celebri le differenze e che promuova e protegga i diritti
civili, politici, umani e culturali.
Il modello di Friedrich Glasl, definito “Konflikt managment”, cura la crescita
esponenziale della conflittualità in base ad alcune fasi specifiche. Le eredità
significative del suddetto modello è che il conflitto non esplode all’improvviso
a fronte di un atto folle ma è un processo più lungo e graduale e che esiste una
logica interna alle stesse relazioni conflittuali indipendentemente dalla volontà
o dalle motivazioni degli attori in contrasto. Glasl divide il suo schema in nove
fasi che verranno conglobate in tre raggruppamenti interni: le prime tre fasi
fanno parte della categoria “win-win”(irrigidimento delle posizioni, dibattito e
polarizzazione, dalle parole ai fatti), in cui c’è ancora possibilità di cooperare e
collaborare sebbene l’aumento della competitività, le fasi centrali raggruppate
nella categoria “win-lose”(preoccupazione per le immagini e le coalizioni, la
perdita della faccia, strategia della minaccia), nelle quali l’escalazione
aumenta ed ognuna delle due parti tenderà ad emergere per ottenere non una
vittoria, ma la disfatta della controparte ed infine, le ultime fasi racchiuse nel
gruppo “lose-lose” (distruzione limitata, disintegrazione, distruzione
reciproca) nelle quali si innesca una via di non ritorno, scaturita dal fatto che
l’escalation perde ogni logica strategica, umana e sociale, e si imprimono
azioni conflittuali violente che portano inesorabilmente ad ambedue le
controparti a subire una sconfitta. Quindi attraverso lo studio delle nove fasi
dell’escalazione è possibile diagnosticare come in ogni fase ci siano elementi
che, se trascurati, portino ovviamente all’aumento dell’escalazione che porta ad
aumentare l’alimentazione della violenza e ad allentare la risoluzione del
contrasto. Pertanto mediante tale modello è possibile avere uno strumento di
misura attraverso il quale possiamo spostare e trasformare il conflitto in modo
costruttivo, a partire dallo studio della dinamica di ogni singola fase.
Il terzo capitolo invece narra la storia del conflitto del Kashmir, una valle
racchiusa tra le cime dell’Himalaya e che contende da più di mezzo secolo
l’India contro il Pakistan. L’ostilità si accese nel 1947 ed il kashmir era
governato da un monarca indù, il maharaja Hari Singh, ed era altresì composto
da una popolazione a maggioranza musulmana. Il maharaja era intenzionato ad
ottenere l’indipendenza dello stato, e cercava di guadagnare tempo alle
continue pressioni di India e Pakistan; una ribellione a Poonch nell’ottobre del
1947, diede inizio a quella che sarà la prima delle tre guerre indo-pakistane. In
soccorso ai ribelli inviati dal vicino Pakistan, arrivarono alcuni gruppi di
guerriglieri pashtun che le forze del maharaja non riuscirono a fermare. Perciò
il maharaja fu costretto a richiedere soccorso all’India con la clausola
successiva di annettere la valle all’interno dell’Unione Indiana. Questa fu la
prima di una serie di conflitti che oppongono lo stato indiano e quello
musulmano nel contenzioso kashmira. La prima risoluzione venne apposta dal
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che con l’istituzione di una linea di
cessate il fuoco provvisorio determinò la fine della guerra. La linea di cessate il
fuoco che da provvisoria divenne definitiva stabilì che all’India andasse la
parte orientale, comprendente i due terzi del territorio, e al Pakistan la parte
occidentale. Successivamente ci furono altri conflitti, tra i quali la seconda
guerra del kashmir che darà luogo come eredità alla dichiarazione di Tashkent
e la terza guerra del kashmir, conosciuta anche come guerra di indipendenza
del Bangladesh contro l’oppressione indiana e la guerra del Kargil, promossa
nel 1999, ed etichettata su una logica terroristica. Da allora fino ai giorni nostri
la conflittualità non è per niente sedata e le opposizioni combattono pressocchè
per un ideale, quello della libertà. I kashmiri sebbene convivano nello stato
indù pur essendo a maggioranza musulmana, hanno sempre avuto una lunga
storia di rispetto e condivisione delle diversità, ma l’accesa conflittualità che si
perpreta da più di mezzo secolo ed alimentata anche da una Comunità
Internazionale pressocchè assente ed inattiva, spinge le forze civili locali ad
unirsi in movimenti separatisti che utilizzano lo strumento del terrore e della
violazione per ottenere uno status di autonomia. E da spinosa questione
geopolitica è divenuta in realtà una pretesta di contesa tra i due stati che ne
rivendicano, secondo le loro visioni contrapposte e distanti, la legittimità,
agendo soprattutto contro il volere di un popolo che da oltre un cinquantennio
si sente oppresso.
L’ultimo capitolo invece verte proprio sull’applicazione pratica dell’approccio
trascend al conflitto da me analizzato. La costruzione del “triangolo ABC” e
l’applicazione con la realtà conflittuale nel cinquantennio che va dal 1947 al
1999, mostra alcune significative eredità di cui il kashmir ha bisogno, ossia
l’instaurazione di un plebiscito popolare o la creazione di confederazioni
indipendenti, e il rafforzamento della cooperazione internazionale da parte
delle superpotenze mondiali, nonché l’’impegno in primis di India e Pakistan di
assumere un comportamento non violento e di istituzionalizzare trattative
negoziali improntate sul dialogo e la cooperazione. L’applicazione invece del
triangolo della violenza mostra come la lesione di un identità culturale
profonda e comunitaria come il kashmiriyat, sia promotrice
dell’istituzionalizzazione di discriminazioni giuridiche e amministrative ad
opera di una democrazia come l’India che non concede ulteriori spiragli di
autonomia e che, piuttosto, dimostra con la forza la volontà di non concedere
annessioni territoriali o favoritismi. Ciò è dimostrato dalle continue critiche
provenienti soprattutto da alcune organizzazioni Internazionali come Amnesty
International che criticano aspramente l’istituzione della “legge sui poteri
speciali delle forze armate”, garante di una piena discrezionalità d’azione da
parte dell’esercito e della polizia contro tutti i separatisti locali. Ed è in questo
clima di rivolta che la lesione di una forza culturale, scatena una reazione
istituzionale e favorisce la creazione delle forze separatiste locali, che mirano
semplicemente attraverso la violenza a liberare il principato dall’oppressione
indiana. In questo scenario le probabili risoluzioni a questo schema vengono
poste dal triangolo della pace, che pone come risoluzioni all’escalation violenta
di promuovere il ripristino della cultura pacifica del kashmiriyat (pace
culturale) per poi gettare le basi per la creazione di uno stato di diritto in cui
prevalga la legge al di sopra della discrezionalità delle forze armate (pace
strutturale), nonché l’azione diretta (pace diretta) promossa da alcune clausole
di condizionalità che leggano il disimpegno indiano e pakistano di accedere a
nuove infiltrazioni e un maggior coinvolgimento ed assistenza alla transizione
democratica da parte della comunità internazionale. La risoluzione invece del
groviglio kashmira applicato al modello di escalation del conflitto di Glasl
avviene attraverso nove fasi distinte in cui si innalza il meccanismo violento.
Nell’applicazione pratica a tal contesto si evince che affinché si costituissero le
attuali forze separatiste in grado di raggiungere persino l’ultima fase della
distruzione completa (logica del terrorismo e dell’autodistruzione) , nel
Kashmir tutto cominciò a fronte della polarizzazione delle posizioni rimarcate
dai due stati che rivendicavano le proprie posizioni (una su un piano etnico-
religioso e l’altra economico e geopolitico) sull’annessione dell’ex principato.
Successivamente l’innesto di una serie di guerre che hanno sempre ripristinato
uno status a quo non soddisfacente per la popolazione locale ha comportato la
crescita di un immagine distorta e colma di stereotipi verso l’oppressiva India e
l’istituzione di nuove strategie contenitiva e colme di minacce che verranno
cristallizzate e messe in atto attraverso la guerriglia clandestina organizzata,
che esplose a fronte degli ennesimi brogli elettorali avvenuti nel 1987, e che
daranno l’input a tali forze di agire per conquistare la tanto attesa autonomia.
La critica posta però a tale modello è che l’applicazione così rigida di queste
fasi non sempre si uniforma correttamente alla reale ondata che genera un
escalation specialmente viste le caratteristiche delle nuove forme di
conflittualità improntate in una logica di etichetta e di terrore che fuoriescono
dagli schemi tradizionali ed infine non sempre è svelabile la relazione causa-
effetto che genera il passaggio allo stadio successivo. L’elaborato quindi ha la
finalità di mostrare, attraverso l’applicazione pratica di schemi teorici, una
gamma di opzioni disponibili per la ricerca di una risoluzione non violenta e
pacifica, attraverso i dettami della trasformazione è possibile combinare
diverse soluzioni ed applicarle secondo la nostra creatività ed è per questo che
il conflict trasformation si pone come il migliore approccio per imprimere un
cambiamento costruttivo al conflitto poiché è basato sulla semplicità
relazionale e sulle regole principali di ogni efficiente negoziazione diplomatica
lasciando però, ampio margine di azione ai mediatori o ad altre figure
internazionali di agire seguendo la propria creatività, le proprie emozioni e
percezioni, e la propria personale esperienza.
Cap. 1 : LA TRASFORMAZIONE DEI CONFLITTI
1.1 Definizione di conflitto
Definire il conflitto è un elemento centrale nello studio delle scienze
sociali. Diversi approcci sociologici hanno provato a fornire una definizione
univoca ed esauriente che in realtà è inesistente per le caratteristiche
multigamma che denotano tale fenomeno.
Il conflitto è presente in ogni sistema sociale e ad ogni livello (locale,
regionale,internazionale) e solitamente si presenta come un rapporto di
opposizione che intercorre almeno tra due attori, individuali o collettivi, in
quanto perseguono finalità incompatibili. Il conflitto si traduce in azioni di
potere che determinano una forma di relazione diversa in vista di una rinnovata
distribuzione delle risorse che gli attori conflittuali reputano essenziali. Charles
Tilly scrive che «vi è conflitto sociale quando una persona o un gruppo avanza
pretese di segno negativo nei confronti di altre persone o gruppi, pretese che,
qualora venissero soddisfatte, danneggerebbero l'interesse altrui cioè l'altrui
probabilità di raggiungere una situazione desiderabile»
2
.
Le possibili combinazioni classificatorie definiscono quindici tipi di
conflitto che possono essere studiati da una gamma di teorie ad hoc: teorie del
conflitto di ruolo, della concorrenza, della lotta di classe, delle minoranze e del
comportamento deviante, della lotta con il ricorso ad un sistema elettorale,
delle relazioni internazionali.
Ancora si può approssimare meglio l'estensione del campo di indagine sul
conflitto ove si prendano in considerazione alcune distinzioni:
1) Conflitto realistico e conflitto non realistico: il conflitto
realistico deriva da un contrasto di interessi-valori contro un oggetto preciso e
per un obiettivo determinato; il conflitto non realistico deriva da impulsi
aggressivi soggettivi che si possono scaricare contro un qualsiasi soggetto.
2
Charles Tilly ,“Process Interaction Hypothesis of State Formation”, 1992, p. 259.
2) Conflitto potenziale ed attivo: il conflitto potenziale è una
situazione capace di provocare dei processi conflittuali; il conflitto attivo è un
comportamento conflittuale empiricamente osservabile.
3) Conflitto manifesto e conflitto latente: il conflitto manifesto
osservabile fra due o più soggetti, è in certi casi soltanto un sintomo di un
diverso e più profondo conflitto latente di cui non si scorge la natura reale e di
cui gli stessi attori non sempre hanno coscienza.
Tra le spiegazioni generali del conflitto vale la pena di ricordare la gamma di
meta-teorie utili per orientare la ricerca, la teoria e l'interpretazione degli eventi
conflittuali proposta da Tilly.
La prima è la metateoria della tensione sociale. Essa parte dall'idea che gli
individui percepiscono la società come sovraordinata ad essi e vivono quindi il
conflitto come un fatto patologico da prevenire e da reprimere. Il ragionamento
sociologico che si ispira tradizionalmente a questa metateoria è quello di Emile
Durkheim che lega l'anomia
3
al conflitto.
La seconda metateoria è quella della lotta fra i gruppi. Essa presuppone che la
struttura della società sia formata dalla lotta interindividuale ed intergruppo a
difesa di interessi che quando sono contrastanti comportano la deflagrazione
del conflitto. Karl Marx è l'espressione migliore dell'approccio conflittualista
modellato secondo questa metateoria.
La terza metateoria viene indicata come metateoria del carattere intrinseco.
Essa ha una connotazione specifica in termini di determinismo biologico: il
conflitto scaturisce dall'istinto di lotta e dall'aggressività che, ad esempio,
3
Il concetto di anomia è centrale nelle analisi di Durkheim, soprattutto per quanto
riguarda i suoi studi sul suicidio. Ne deriva un concetto di anomia come mancanza di norme
sociali, di regole atte a mantenere, entro certi limiti appropriati, il comportamento
dell'individuo. Inoltre poiché per Durkheim le regole morali vengono sempre codificate in
leggi, l'anomia non si configura solo come mancanza di norme sociali, ma soprattutto come
mancanza di regolazione morale. Per Durkheim, lo stato di anomia definirebbe, in sostanza,
una caratteristica del sistema culturale di riferimento (norme, valori e tradizioni), in cui
l'individuo si trova inserito e non la reazione a questo, quasi che l'anomia rappresentasse in
Durkheim l'antitesi della solidarietà sociale. Da una parte la rappresentazione di un gruppo,
dall'altra, con lo stato di anomia, il suo disintegrarsi. – Émile Durkheim, Il suicidio. Studio di
sociologia, Utet, Torino, 1969.
Konrad Lorenz ritiene prodotta sulla base della selezione genetica la quale
affida la sopravvivenza della specie a questa capacità.
La descrizione di Tilly non è sufficientemente esaustiva ai fini di una reale
risoluzione della conflittualità contemporanea. Fondamentale è il contributo
del sociologo norvegese Joahn Galtung che descrive il conflitto “come
endemico e deve essere considerato inevitabile nell’ambito delle micro e
macro relazioni e pertanto, ne costituisce parte integrante”
4
. Il conflitto è
quindi “una caratteristica di un sistema dinamico, si ha un [conflitto] quando
vengono perseguiti due o più valori incompatibili o reciprocamente
esclusivi”
5
.La peculiarità del conflitto è che non può solo distruggere tali
relazioni, come si è solito pensare, ma può anche rafforzarle. Tale connotato è
fondamentale per capire l’importanza della trasformazione dei conflitti e gli
interventi nei processi di pace. Non a caso Galtung fu il primo ad enunciare
che spesso il conflitto viene genericamente inteso come “mutamento sociale”,
questo indica la possibilità non tanto che una forma di conflittualità può essere
debellata dalle sue radici, ma che si può trasformarla agendo e colpendo su
alcuni pilastri generatori della violenza manifesta per mutare ed adattare lo
stato colpito ad un nuovo ordine sociale.
Vi sono invece alcuni padri fondatori della sociologia come Max Weber, che
rimarcano l’impossibilità di eliminare il conflitto dalla vita sociale e che la
“pace non è nient’altro che un mutamento del tipo di conflitto quanto agli
antagonisti, quanto agli oggetti o quanto ai metodi di soluzione”
6
. Quindi
secondo la visione weberiana ci attestiamo su un concetto di pace “negativa”
(intesa solo come mera assenza di guerra) che discosta dalla visione kantiana di
4
Joahn Galtung, Peace by peaceful minds, International Peace Research Istitute of
Oslo, 1996, p. 45.
5
Johan Galtung, Pacifism from a sociological point of view, “The Journal of conflict
Resolution”, n° 1/1959, p.11.
6
Lucio Luison (a cura di) , La mediazione come strumento di intervento sociale:
problemi e prospettive internazionali, Franco Angeli, Milano, 2006, p. 232
pace perpetua che indica “l’impossibilità di creare una guerra”
7
e di vivere
quindi in un ordine positivo nei rapporti tra gli stati.
La varietà di definizioni enunciano l’impossibilità di definire in maniera
univoca il conflitto. La sociologia contemporanea rimarca l’importanza di
distinguere il conflitto attraverso:
Approcci orientati all’azione
Approcci strutturali al conflitto
Gli approcci orientati all’azione definiscono il conflitto come “un interazione
tra diversi attori” (individui, gruppi, nazioni, organizzazioni) di cui almeno si
percepisce l’incompatibilità con uno di essi nella dimensione emozionale o
dell’azione che limita la realizzazione degli obiettivi della controparte.
Gli approcci strutturali enfatizzano il conflitto come “una tensione strutturale”
ossia un accumulazione di molteplici squilibri e fattori che rompono la
coesione e l’integrazione di un sistema ad opera di attori non solo statuali che
possono agire su un livello multidimensionale.
L’analisi dei conflitti può essere esplicata anche su ulteriori classificazioni:
1) Relazione tra conflitto e natura umana
2) Rapporto tra conflitto e società
3) Ambito sociale e simbolico del conflitto
Il primo ambito inerente la relazione conflitto-natura umana si basa su un
quesito: gli essere umani per natura tendono ad essere conflittuali e
geneticamente programmati alla violenza, oppure i comportamenti sociali sono
socialmente “costruiti” e quindi estranei alla natura dell’essere umano?. La
risposta viene fornita dalla psicoanalisi che descrive come l’aggressività sia un
carattere prettamente intrinseco del gene umano. Ma tali posizioni non
spiegano perché l’aggressività non sempre si trasforma in violenza come
enuncia il sociologo Elias.
7
Renato Moro, Studi sulla pace, (dispense), p. 20.