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Ha ancora senso occuparsi di un evento sismico avvenuto oltre
trent‟anni fa? Una risposta a questa non facile domanda può arrivare solo
dopo una dettagliata analisi di quello che il terremoto del 1980 ha
rappresentato sia per l‟Irpinia che per l‟Italia intera.
Il sisma del 23 novembre ha contribuito più di ogni altra catastrofe a
creare trasformazioni e accelerare dinamiche che si sarebbero verificate
probabilmente in modalità differenti e in un lasso di tempo molto più
ampio. Per quanto controverse, queste mutazioni hanno inserito
elementi di novità che ancora oggi si ripercuotono sulla vita di tutti i
cittadini italiani. Si pensi all‟istituzione, a un anno e mezzo dal sisma, del
Ministero per il Coordinamento della Protezione Civile: nato come
diretta conseguenza dell‟inefficace macchina dei soccorsi in Irpinia, è
stato il primo rilevante tassello verso la creazione dell‟odierno Servizio
Nazionale della Protezione Civile, un organo imprescindibile in un Paese
il cui territorio è sottoposto per il 70% a rischi di natura ambientale. Al
netto della trasformazione della Protezione civile in società per azioni e
della discutibile gestione sotto Guido Bertolaso, la maggiore rapidità
nell‟attivazione dei soccorsi – 6 ore per l‟Irpinia, 3 minuti per L‟Aquila –
ha contribuito nel corso degli anni al contenimento del numero di
vittime in seguito a calamità.
Se da un lato il terremoto ha reso più celere la creazione di un istituto
fondamentale come il Dipartimento della Protezione Civile, dall‟altro ha
favorito la metamorfosi e il rafforzamento della criminalità organizzata
su tutti i fronti. Grazie al sisma le famiglie camorristiche campane si
trasformarono in vere e proprie holding, con un controllo capillare su
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tutto il ciclo edilizio, dallo sgombero delle macerie alla fabbricazione di
materiali, dalla fornitura del calcestruzzo all‟installazione dei citofoni.
Come se ciò non bastasse, dopo il 1980 si assistette a una massiccia
infiltrazione criminale all‟interno delle istituzioni, in particolar modo nei
comuni, erogatori finali di spesa pubblica. Alla luce di ciò non può
sorprendere lo scioglimento in provincia di Avellino del primo comune
d‟Italia per infiltrazioni camorristiche, proprio tre anni dopo la scossa.
Il terremoto del 23 novembre è stato un punto di svolta anche per i clan:
dopo un iniziale rafforzamento nei primi anni ottanta, infatti, la Nuova
Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo perse con il tempo potere e
uomini, finendo per capitolare definitivamente a metà anni ottanta in
favore dei nuovi cartelli criminali tra cui il clan dei casalesi, che ancora
oggi resta una delle più potenti mafie al mondo, nonostante le numerose
faide interne e i tanti arresti.
Ha ancora senso oggi occuparsi del sisma del 1980 anche sul piano
prettamente politico: la catastrofe e la conseguente emergenza
costituirono il pretesto per individuare e adottare procedure di spesa
sempre più sbrigative; procedure che nei fatti avrebbero di lì a poco
sortito l‟effetto opposto, con un allungamento pluridecennale dei tempi
di ricostruzione. L‟intricata rete di norme, emendamenti e regolamenti
attuativi da un lato consentì ai politici di gestire e smistare grosse somme
di denaro in modo del tutto discrezionale, e dall‟altro diede vita a sprechi
e nuove forme di corruzione. Una buona mano a questa macchina
infernale la diedero le decine e decine di forme di conflitto d‟interessi e
accumulo di cariche pubbliche, sia a livello locale che su scala nazionale
(è il caso dei sindaci-tecnici o, ancora peggio, dei sindaci-ministri!). La
diretta conseguenza fu che proprio in quegli anni la Lega Nord
(inizialmente tramite la “Lega Lombarda”, fondata nel 1982) iniziò a
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raccogliere i primi consensi, stigmatizzando quanto di negativo veniva
emergendo dalle regioni colpite dal sisma.
Anche la crisi della cosiddetta Prima Repubblica, in parte, nacque dal
sisma: il sistema politico corrotto degli anni ottanta sarà lo stesso che
verrà processato nei primi anni novanta con Tangentopoli.
Per i motivi sopra enunciati e per tanti altri, la gestione dell‟emergenza e
della ricostruzione in Irpinia è diventata un modello (per lo più negativo)
riproposto anche a distanza di anni. È il caso del terremoto del Molise
del 2002, in seguito al quale crebbe in modo esponenziale il numero dei
comuni beneficiari degli aiuti statali, fino a includere l‟intera regione;
proprio come avvenne una ventina d‟anni prima in Campania e
Basilicata. Anche per i campionati mondiali di calcio del 1990 e la relativa
ricostruzione e riparazione degli impianti sportivi fu adottato il modello
della legislazione post-terremoto.
Se da una parte il sisma introdusse elementi di grande novità per il Paese,
per la provincia più colpita – quella di Avellino – rappresentò l‟anno
zero. Il 1980 fu il punto di non ritorno per l‟Irpinia, la data che divise la
storia di questa terra in un “prima” e in un “dopo” ben distinti.
Prima del sisma la provincia avellinese era una delle più povere d‟Italia,
con un‟economia basata sull‟agricoltura e le rimesse degli immigrati, con
una presenza criminale quasi nulla ma con una rappresentanza politica di
primo piano.
Dopo il sisma, la provincia vive una decennale bulimia miliardaria, assiste
a uno scriteriato piano di sviluppo industriale (che ne minerà per anni la
vocazione agricola e artigianale) e consente l‟entrata della camorra nei
propri territori, deturpati dal punto di vista sociale, politico, economico e
ambientale.
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I capitoli che seguiranno cercheranno di mettere in luce tutti gli eventi
che hanno contribuito a modificare l‟economia della provincia di
Avellino dal 1980 a oggi, e a produrre la più alta spesa che sia mai stata
sostenuta dallo Stato in seguito a calamità. Una spesa che è stata spesso
strumentalizzata e inserita nel dibattito politico degli anni ottanta al fine
di denigrare politicamente l‟avversario.
Non si poteva, tuttavia, trattare un argomento così complesso senza
entrare nel dettaglio: per questo motivo si è rivelata obbligatoria la scelta
di anteporre alla tesi vera e propria un capitolo che illustrasse
cronologicamente la ricostruzione post-terremoto in un paese chiave del
post-sisma. La scelta è caduta su Conza della Campania, per due ragioni:
la prima è che più di tutti gli altri borghi ha vissuto una ricostruzione
lunga e controversa; la seconda è che possiede ancora oggi diverse
risorse per invertire il processo recessivo che da decenni colpisce
indiscriminatamente tutta la provincia di Avellino. A più di trent‟anni di
distanza dal sisma, a Conza e in tutta l‟Irpinia si profila un altro “anno
zero”: elaborato gran parte del lutto, i cittadini si ritrovano a dover
ricostruire di nuovo il futuro della propria terra, con meno aspettative e
più disillusione rispetto al 1980.
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Conza della Campania fu uno dei comuni più danneggiati dal sisma del
1980.
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Nella parte vecchia della città tutto è rimasto fermo alle 19,35
dell‟infausto 23 novembre di quell‟anno. Sul pavimento delle poche
abitazioni rimaste in piedi giacciono oltre trent‟anni di polvere. Ogni
finestra, ogni portone, ogni balcone regala un‟istantanea terribilmente
suggestiva agli occhi del curioso: il lampadario caduto, la sedia ribaltata,
la dispensa aperta, i cappotti in riga nell‟armadio, e un bambolotto –
senza più vestiti – adagiato sul corridoio, unica via di fuga durante la
scossa. I sopravvissuti non ci sono voluti più tornare, a Conza vecchia. E
i morti non hanno avuto scelta.
Il paese, oggi, è trino. Il vecchio abitato, situato su una collina
fortemente sismica, è stato abbandonato dopo la scossa e il nuovo borgo
è stato ricostruito per intero a valle, in località Piano delle Briglie. In
attesa che fosse edificata la nuova Conza, inoltre, i cittadini terremotati
furono sistemati nei prefabbricati di legno (ancora oggi presenti)
appositamente realizzati accanto alla neonata zona industriale e al lago
artificiale, centro di una caratteristica oasi del WWF.
A Conza, come in altri paesi dell‟Irpinia colpiti dal sisma, la ricostruzione
fu tutt‟altro che facile. La scelta di abbandonare il vecchio abitato, prima,
e l‟individuazione dell‟area dove costruire le nuove case, poi, causò
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Le unità edilizie distrutte o crollate parzialmente dopo la scossa furono 1.188,
ovvero il 90% dell‟intero patrimonio edilizio del paese. Su una popolazione di 1.826
abitanti si contarono 184 morti, 150 feriti e 1.493 senzatetto (il 91% dei superstiti).
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animati consigli comunali e duri attacchi dei cittadini all‟allora sindaco dc
Felice Imbriani.
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Nei giorni immediatamente successivi al sisma i conzani decisero, più o
meno a malincuore, di abbandonare per sempre la collina che aveva visto
raso al suolo il paese per la terza volta (dopo i terremoti del 990 e del
1694). I senzatetto furono da subito sistemati nelle strutture del cantiere
della Ferrocementi, che si occupava dei lavori per la costruzione
dell‟invaso della diga.
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Dopo aver individuato – già prima del terremoto
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– Piano delle Briglie
come luogo dove costruire il nuovo abitato, il Comune si rivolse a due
professori universitari per effettuare le perizie geologiche nella località:
una zona pianeggiante, ben collegata tramite l‟Ofantina (strada statale che
ancora oggi unisce i principali paesi irpini al capoluogo), ma
prevalentemente paludosa. I pareri dei due tecnici, il professor Vincenzo
Cotecchia dell‟Università di Bari e il professor Franco Ortolani
dell‟Università di Napoli, furono in parte discordanti: il primo ritenne
instabile la zona analizzata a causa delle caratteristiche scadenti del
terreno sino a 50/60 metri; il secondo giudicò il terreno adatto per la
fabbricazione dei nuovi edifici (previo apposito drenaggio del suolo)
poiché sotto i 2/4 metri i terreni riportavano buone caratteristiche
geotecniche.
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2
Carlo De Rosa, È lotta continua tra il sindaco e i cittadini dell‟antica Conza, Il Ponte, 20
luglio 1991
3
Marco Marandino, Il terremoto del 1980 e la rinascita in Compsa antiquissima (a cura di
Romualdo Marandino), Delta 3 Edizioni, 2011, pp. 242-253
4
Nel 1979 l‟aumento di popolazione pose il problema di trovare un‟area adatta alla
costruzione di nuove case. I luoghi proposti furono essenzialmente due: un terreno
alla destra dell‟Ofantina (Piano delle Briglie), prevalentemente melmoso, e uno alla
sinistra, di proprietà di Vito Petrozzino, suocero del futuro sindaco Imbriani, il quale
si oppose al possibile esproprio con tutte le forze, ricorrendo addirittura al Tar.
5
Paola De Stasio, Conza, un paese nell‟acqua, il Giornale di Napoli, 29 novembre 1992,
p. 15
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Data per buona la perizia del professor Ortolani, nel giugno dell‟82 si
diede inizio al Piano di Zona con risultati disastrosi: le macchine
scavatrici della ditta Maggiò di Caserta si misero al lavoro tralasciando i
lavori di drenaggio, giudicati impossibili per le continue frane che si
venivano a creare nel suolo
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, e ovunque scavassero tiravano fuori pantani
e pozze d‟acqua.
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La paludosità del sito era accentuata al punto che il
medico condotto del paese, Dante Cantarella, trovò tre anguille nelle
fondazioni della sua casa in costruzione.
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Nel frattempo, pur senza l‟assenso della sovrintendenza ai Beni Artistici
e Culturali di Salerno e Avellino, il Comune spese cinque miliardi di lire
per ricostruire fogne, marciapiedi e attacchi della luce elettrica nel centro
storico sulla vecchia collina, dove erano rimaste in piedi solo una trentina
di case per appena sei famiglie.
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In pratica quei soldi servirono per
avviare un Piano di recupero (partito nel 1983 e mai ultimato) per far
continuare a vivere un pugno di cittadini in un paese fantasma.
La situazione, già così ingarbugliata, si complicò ulteriormente quando
un‟altra impresa edile, la Zecchina di Napoli, subentrò alla ditta Maggiò
che aveva di fatto lasciato a metà i lavori non senza aver prima intascato
oltre 6 miliardi di lire dallo Stato. Con l‟arrivo della nuova impresa di
costruzioni fu smantellata buona parte degli interventi scriteriati
effettuati dalla ditta casertana (strutture mai collaudate, mai ultimate ma
regolarmente pagate a ogni stato di avanzamento) e tutti i lavori di
urbanizzazione furono rifatti ex novo dalla Zecchina.
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6
Rita Pennarola, Criminal fango, Epoca!, 24 dicembre 1989
7
Fabio Felicetti, E così si ricostruisce un paese sulla palude, Corriere della Sera, 29
dicembre 1987
8
Giuseppe Pisano, Il mistero delle tre anguille, Il Mattino, 1° febbraio 1987
9
Rita Pennarola, art. cit.
10
Paola De Stasio, Zecchina d‟oro anche in Irpinia, il Giornale di Napoli, 1° aprile 1993