5
“Più del latte materno, più del miele e del burro,
più di qualunque squisita bevanda al mondo
m’è dolce il sapore del sangue di questo nemico”
Mahàbharatam – Antico poema indiano
CAPITOLO 1 – MINORI: AGGRESSIVITÀ E VIOLENZA
1.1 Le basi della condotta aggressiva
In questi ultimi anni, la percezione comune è quella di un
incremento della violenza su larga scala dovuto ad un progressivo
sviluppo di rabbia, di odio, di ricerca del potere che si manifesta in un
atteggiamento di rivalsa e prepotenza, di attacco al “diverso”, alimentato
certamente da molteplici fattori. L’aggressività tuttavia è sempre esistita,
e ne è chiara dimostrazione il fatto che diversi autori hanno studiato e
tentato di spiegare le cause del comportamento aggressivo.
E’ indubbio che non sempre possiamo parlare di identità
aggressive, quanto piuttosto di comportamenti aggressivi. Infatti uno
stesso individuo che, nell’ambiente sociale in cui abitualmente vive, si
comporta con senso civico, rispetto degli altri e delle regole, messo in
condizioni estreme e particolarmente avverse può sviluppare un
comportamento aggressivo e pericoloso capace di compiere qualsiasi
genere di azione violenta (pensiamo ad una guerra, alla privazione della
libertà, alla scoperta di un tradimento, alla costrizione di vita in spazi
ristretti o con risorse limitate). Lo stesso fenomeno si verifica anche nel
mondo animale e in specie diverse.
Rousseau era convinto della bontà dell’indole umana che in realtà
veniva “corrotta” proprio dal sistema sociale e dalle esigenze della
civiltà, mentre Hobbes sosteneva, al contrario, che l’uomo è incline
all’aggressività verso i suoi simili e che pertanto le istituzioni sociali
6
sono necessarie a frenare quest’istinto, a reprimere le tendenze antisociali
garantendo la convivenza civile. In realtà, ed è sotto gli occhi di tutti,
tutti i giorni, non sono sufficienti leggi, polizia o religioni che possano
evitare il ricorso alla violenza che si esprime comunque per ragioni
primarie di controllo e di possesso.
Le ragioni di questo bisogno di possesso sono riconducibili al
bisogno di sicurezza, di invulnerabilità e di sopravvivenza quindi alla
capacità di poter difendere a tutti i costi la propria vita.
L’ipotesi di un’aggressività come facente parte della natura
animale (e quindi anche umana) è avvallata dall’etologo Konrad Lorenz
che, nella sua opera “L’aggressività”, tenta di darne una definizione, una
spiegazione o come lui stesso scrive nella sua premessa, intende trattare
“della pulsione combattiva, nell’animale e nell’uomo, diretta contro
appartenenti alla stessa specie”.
1
Lo stesso Lorenz, pensa anche a
Freud, citandolo nella sua opera, e al suo istinto di morte, che tanto si
avvicina alla sua idea di aggressività quale istinto al servizio della
conservazione della vita individuale e della specie. Freud affermava,
infatti, il dualismo tra due istinti primari, innati e contrapposti: eros e
thanatos, il primo dell’autoconservazione, il secondo della distruzione, il
cui reciproco conflitto e tensione genera l’aggressività.
Tuttavia, a differenza degli animali, l’uomo ha piena coscienza
dell’esistenza della morte, e sa che anche l’aggressività, seppur basata su
un istinto di sopravvivenza, è pericolosa. Ecco perché il sistema sociale,
attraverso regole, leggi e controlli, difende i più deboli, quelli che
comunque non hanno i mezzi per poter esercitare attraverso la forza, il
diritto alla sopravvivenza. Anche perché tutti possiamo essere
potenzialmente deboli, se non oggi, domani e solo il controllo sociale
garantisce la sopravvivenza di tutti.
1
LORENZ K., L’Aggressività, Milano, Il Saggiato, 1969 p.25.
7
Gli approcci di Freud e quello etologico di Lorenz hanno in
comune l’adesione ad un modello “naturale”, “innato” dell’aggressività
umana: in un ambiente inevitabilmente ricco di insidie e dove le risorse
sono limitate, l’uomo, così come l’animale, è portato a difendere se
stesso, la sua sopravvivenza, il suo territorio, le sue risorse, la sua
discendenza. L’aggressività è vista quindi in chiave funzionale alla
sopravvivenza della specie.
Freud introduce non solo il concetto di istinto di morte, ma anche
quello di frustrazione la quale, emergendo ogni qualvolta viene
ostacolata la possibilità di conseguire un obiettivo, una soddisfazione, è
utile, secondo l’autore, per lo sviluppo dell’Io e per il suo adattamento
alla realtà. Grazie ad essa possiamo adoperarci per trovare nuove
soluzioni, siamo motivati all’azione.
Entrambe le teorie rappresentano il meccanismo come una sorta di
sistema idraulico per cui l’energia, la pulsione istintuale deve venir
indirizzata necessariamente verso un bersaglio per evitare di accumularsi
e quindi esplodere poi in modo incontrollato. L’uomo utilizza in alcuni
casi forme di sfogo socialmente accettabili (come lo sport), in altri casi,
invece, queste non sono sufficienti ad abbattere la carica aggressiva,
anzi, a volte, finiscono proprio per alimentarla.
In definitiva l’approccio psicoanalitico definisce l’aggressività
come la “tendenza o l’insieme di tendenze che si attuano in condotte
reali o fantasmatiche, miranti a danneggiare un altro, demolirlo,
costringerlo, umiliarlo, ecc. L’aggressione assume anche modalità
diverse dall’azione motoria violenta e distruttrice; non vi è nessuna
condotta, negativa (rifiuto di assistenza, per esempio) o positiva,
simbolica (ironia, per esempio) o effettivamente eseguita, che non possa
funzionare come aggressione”
1
.
1
INGRASCÌ G., PICOZZI M., Giovani e crimini violenti, Psicologia, Psicopatologia e giustizia, Milano,
The McGraw-Hill Companies, 2002
8
Il modello psicoanalitico può dare tre diverse chiavi di lettura,
corrispondenti, seppur non escludentisi tra loro, a livelli di indagine e
studio del fenomeno: aggressività riconducibile all’innata pulsione di
morte, aggressività come risposta alla frustrazione e aggressività come
pulsione originaria e innata di difesa nell’ambito relazionale.
La psicoanalisi ha dato un’importanza notevole all’aggressività
già nelle prime fasi dello sviluppo umano, quelle delle prime relazioni
oggettuali, e ha quindi evidenziato, da parte di più teorici, (a partire da
Freud ma poi continuando con Federn, Menninger e la Klein che hanno
ripreso il concetto e lo hanno ampliato), quanto la pulsione di morte sia
alla base della condotta aggressiva distruttiva.
La Klein, che rimane una delle autrici di stampo psicanalitico
fondamentale per lo studio e l’osservazione dell’infanzia, dà molta
importanza alle precoci soddisfazioni e frustrazioni dell’individuo
proprio nei primissimi stadi dello sviluppo, durante l’elaborazione delle
relazioni oggettuali e nell’ambivalenza oggetto buono - oggetto cattivo
tipica della posizione schizo-paranoide.
Kernberg
1
(1980), invece, pur rimanendo nell’ambito di questo
corpus teorico, pone l’accento sul fatto che in realtà non siano gli impulsi
aggressivi, insieme a quelli sessuali, ad essere innati, ma lo è la capacità
di rispondere. Le modalità di risposta sono quindi da ricercare nel
modello delle relazioni che via via l’individuo sviluppa durante la sua
crescita.
Pur sottolineando, in accordo con Kernberg, le dinamiche
aggressive all’interno della famiglia, Bergeret
2
(1984) ne amplia il
concetto ritornando a parlare di aggressività innata sostenendo l’esistenza
di un istinto violento che si configura nell’autoconservazione e nella
1
KERNBERG O., Teoria della relazione oggettuale e clinica psicoanalitica, Torino, Boringhieri,
1980
2
BEREGERET J., La personalità normale e patologica, Milano, Raffaello Cortina, 1984
9
volontà di sopravvivenza allo scontro generazionale tra genitori e figli.
Tuttavia è un processo dapprima inconscio e poi elaborato attraverso
un’evoluzione libidica e creatrice. Ma per Bergeret “i primi fantasmi
inconsci rimangono caratterizzati dalla violenza: parenticidio, da una
parte, e infanticidio, dall’altra”
1
.
La Teoria dell’Attaccamento di Bowlby offre ulteriori spunti di
riflessione. L’autore ritiene che un individuo che sperimenta una
situazione di disagio, di fatica, di solitudine, di malattia, di paura,
ricerchi la vicinanza di un’altra persona (non casuale, ma ben definita per
il soggetto) affinchè possa sostenerlo nell’affrontare la circostanza in
modo adeguato. Bowlby nei suoi studi evidenzia come questa modalità
di comportamento sia manifesta soprattutto nella prima infanzia quando
il bambino si serve del caregiver come “base sicura” dalla quale
allontanarsi per esplorare il mondo, e ritornare quando ha necessità di
conforto, protezione e sicurezza. Nondimeno l’autore “spalma” questo
comportamento lungo tutto il ciclo di vita e lo fa emergere proprio nei
momenti in cui l’individuo, anche adulto, si trova in uno stato di
emergenza. Ritiene pertanto che il comportamento di attaccamento sia
parte della natura umana e ha una precisa funzione biologica
riconducibile senza dubbio alla protezione, in ogni caso per l’autore non
c’è antitesi tra innato ed acquisito, ma il carattere è frutto dell’interazione
tra genetica e ambiente. Il rapporto genitore-bambino durante la prima
infanzia produce e struttura schemi mentali cognitivi, i cosiddetti Modelli
Operativi Interni, che vanno successivamente ad influenzare e strutturare
le aspettative relazionali future, la conoscenza di sé e di sé in rapporto
all’altro diverso da sé. Interessante la teoria di Bowlby e le elaborazioni
successive ad opera di altri autori (Main, Ainsworth, autrice dell’ancora
1
INGRASCÌ G., PICOZZI M., Giovani e crimini violenti, Psicologia, Psicopatologia e giustizia, Milano,
The McGraw-Hill Companies, 2002
10
attuale metodo della Strange Situation) perché precisa diversi pattern di
attaccamento ai quali corrispondono diversi atteggiamenti dell’individuo
una volta passata la fase infantile che potrebbero in effetti spiegare il
perché del comportamento aggressivo di taluni e non di altri. Senza
dilungarmi oltre sulle specifiche teoriche bowlbyane, poiché questo non
è l’intento della trattazione, ritengo tuttavia utile descrivere quale ruolo
giocano i pattern di attaccamento (evitante, sicuro, resistente,
disorganizzato) nello sviluppo del comportamento aggressivo.
Un pattern sicuro è tipico dei bambini che sono gratificati nel loro
bisogno di attenzione e di protezione, ma sono anche lasciati liberi di
esplorare il mondo che li circonda. Questi vissuti, e i relativi MOI che da
questi si strutturano, fanno sì che il bambino che ha sviluppato un
attaccamento di tipo sicuro sappia di poter contare sul conforto e
sull’aiuto in caso di difficoltà e quindi durante le prime competizioni tra
coetanei avrà un minore senso di frustrazione e maggiore serenità
nell’affrontare le sfide. L’attaccamento insicuro, al contrario, può
sfociare nella strutturazione di MOI disfunzionali: la figura di
attaccamento può essere percepita come fonte di paura perché collerica,
distaccata e distante, minacciosa e svalutante o incostante nel dare
protezione e sicurezza. Ne consegue che l’immagine di sé che si
costruisce è mostruosa oppure è quella della vittima impotente,
dell’individuo che non è degno di attenzione. Le situazioni conflittuali in
questo caso sono più difficili da superare e nel corso del ciclo di vita il
bambino, poi adolescente e infine adulto può attuare due tipologie di
comportamento: quello di eccessiva timidezza e di evitamento oppure
quello di accentuata aggressività. Non solo, il soggetto in questo caso ha
sviluppato uno scarso senso di empatia che lo porta a disumanizzare
l’altro. La teoria dell’attaccamento tende quindi a dimostrare che
l’aggressività non sia un comportamento innato ed istintivo teso alla
11
conservazione biologica, ma piuttosto una conseguenza della distruzione
dei legami di attaccamento.
L’approccio cognitivo-comportamentale, secondo Borgo e coll.
1
ritiene che l’aggressività sia una modalità non assertiva di interazione,
una modalità che viene utilizzata per imporre le proprie opinioni, i propri
sentimenti, o per realizzare i propri desideri solitamente a scapito di
quelli altrui. Questo modello ritiene che l’individuo aggressivo sia
caratterizzato da caratteristiche di personalità basate su spiccate idee di
superiorità e che quindi adotti modalità relazionali di tipo manipolativo e
violento. Il comportamentismo in particolare ritiene il comportamento
frutto delle esperienze e delle sollecitazioni ambientali, più precisamente
costruito attraverso catene stimolo-risposta a cui l’individuo è stato o
viene sottoposto. Scriveva Watson, padre fondatore del
comportamentismo: “Datemi una dozzina di neonati sani e ben
conformati e il mondo specifico da me ideato dove allevarli e io
garantisco di prenderne uno a caso e addestrarlo a diventare uno
specialista in qualsiasi campo da me prescelto, medico, avvocato,
artista, commerciante, comandante e sì, perfino mendicante e ladro,
indipendentemente dai suoi talenti, le sue inclinazioni e tendenze, dalle
sue abilità o vocazioni, e dalla razza dei suoi antenati.”
2
Secondo la teoria dell’apprendimento sociale il comportamento
aggressivo può formarsi sia mediante il condizionamento che mediante
l’imitazione di modelli, o modeling.
L’opera data alle stampe nel 1939 dal cosiddetto gruppo di Yale,
“Frustrazione e aggressività” (Dollard J., Doob L.W., Miller N.E.,
Mowrer O.H., Scars S.R) è il primo lavoro di psicologia sociale che
1
BORGO S., DELLA GIUSTA G., SIBILIA L., Dizionario di Psicoterapia cognitivo-comportamentale,
Milano, The McGraw-Hill Companies, 2001
2
MILLER P.H., Teorie dello sviluppo psicologico, Bologna, Il Mulino, 1987
12
tratta in modo approfondito il tema dell’aggressività. Gli autori rifiutano
il concetto di istinto di morte di stampo freudiano e l’innatismo
dell’aggressività, ma conservano invece l’interpretazione che vede
l’aggressività come risposta alla frustrazione e quindi ogni aggressività
presuppone una precedente frustrazione e ogni frustrazione può
aumentare la probabilità di una reazione aggressiva, anche se la risposta
può anche non essere diretta verso la fonte della frustrazione. Non solo,
Dollard e Miller ritengono che non sempre è possibile la risposta
aggressiva poiché essa può essere inibita a causa di diversi fattori: un
pericolo obiettivo (ad esempio una ritorsione) oppure angoscia associata
alla spinta iniziale di reazione dovuta a precedenti punizioni, generando
un conflitto tra il desiderio di dare sfogo alla rabbia e il timore di una
conseguenza negativa. Ci sono diversi modi di reagire alla frustrazione:
a) comportamento inadeguato: aggredire con furia cieca il
bersaglio riportando una frustrazione ancora maggiore
b) comportamento adeguato: il soggetto evita la frustrazione
rielaborando la situazione, riorganizzandola
c) meccanismi di difesa: attraverso i quali il soggetto sostituisce
una perdita irreparabile con ciò che è simile all’oggetto
perduto oppure attraverso le fantasie compensatorie cerca di
ottenere nella fantasia ciò che desidera e che non può avere
nella realtà; altri meccanismi sono la sublimazione per cui
l’individuo sfoga la sua carica aggressiva attraverso azioni
socialmente accettabili che sostituiscono le azioni riprovevoli
o impossibili. Infine già Freud aveva individuato la formazione
reattiva come meccanismo di sfogo delle frustrazioni mediante
il quale l’individuo adotta un comportamento esattamente
opposto a quello che non può essere appagato.
13
La frustrazione, dal punto di vista degli ostacoli che la causano,
può derivare sia dall’ambiente fisico (clima, sovraffollamento, traffico,
inquinamento) sia dall’ambiente sociale e familiare in cui trova un
humus fertile di situazioni disparate e quotidiane: le relazioni familiari, la
scuola, il lavoro dove rivalità, conflitti, competizioni, sistema di
ricompense, esasperazione dei bisogni attraverso il bombardamento
pubblicitario, non fanno che alimentarla. Fonte di frustrazione è anche
l’appartenenza a minoranze. Siano esse etniche, religiose, politiche, di
salute e di età, l’emarginazione che ne consegue provoca frustrazione,
rabbia, desiderio di rivalsa o chiusura in se stessi.
E ancora, anche l’individuo stesso è causa di frustrazione per sé: il
conflitto adolescenziale tra il bisogno di autonomia e quello di
protezione, inconciliabili, crea insieme ai motivi sentimentali, al
cambiamento del proprio corpo, ai difetti fisici e caratteriali, un forte
motivo di frustrazione.
Pedon
1
distingue reazioni eteroaggressive e autoaggressive alla
frustrazione.
La prima è diretta verso la persona o l’oggetto vissuti
dall’individuo come ostacolo alla realizzazione di un’azione appagante.
Le reazioni autoaggressive o autopunitive sono invece rivolte alla
persona stessa che subisce la frustrazione ed in particolare comprendono
i meccanismi di regressione e fissazione.
Come già citato in precedenza, Dollard e il gruppo di Yale hanno
dato enfasi al rapporto frustrazione – aggressività, come rapporto causa –
effetto anche se ritengono che i meccanismi di inibizione o di difesa non
permettono di valutare il grado di intensità della reazione aggressiva
proprio perché la distorcono, la affievoliscono o la mascherano. Il
modello teorico di Dollard è stato infatti criticato per l’impossibilità di
1
PEDON A., GALLUCCIO C., Elementi introduttivi alla psicologia sociale, Roma, Edizioni Borla, 2001
14
controllare le risposte aggressive non manifeste andando ad inficiare la
validità scientifica della teoria che vede in relazione causale frustrazione
e aggressività. Infatti, proprio uno dei suoi collaboratori, Sears (1941)
sottolineò che l’aggressività è solo una delle molteplici reazioni alla
frustrazione che in realtà può dare origine a diversi tipi di
comportamento (come già indicato in precedenza). Si sgretola quindi il
rapporto monosemico frustrazione-aggressività perché si evidenzia che la
frustrazione non sfocia sempre nell’aggressività, si conferma tuttavia che
l’aggressività è sempre conseguenza della frustrazione.
Miller (1941, 1948) sostiene lo stesso principio di variabilità delle
reazioni post frustrazione, anche se sottolinea una gerarchia di risposte
possibili in cui la risposta aggressiva occupa il posto principale mentre le
altre possibilità si fanno concrete qualora l’aggressività non possa o non
voglia essere messa in atto dal soggetto. Aggiunge anche che il soggetto
può ricorrere all’aggressività anche nel caso in cui le altre modalità di
reazione non siano state sufficienti a diminuire il bisogno frustrato.
Rosenzweig (1978) pone l’accento anche alla struttura di
personalità del soggetto come determinante o meno una reazione di tipo
aggressivo. L’autore distingue due tipi di reazione alla frustrazione:
need-persistive, ossia le reazione che seguono immediatamente il
bisogno frustrato e tendono a ristabilire l’equilibrio, e ego-defensive che
si verificano solo quando il soggetto vive la frustrazione come minaccia
alla sua integrità personale. L’associazione dei due tipi di reazione
dipende dalla struttura di personalità del soggetto e dal suo rapporto, più
o meno ansioso, con la realtà. Questa teoria sposta quindi l’attenzione
non tanto sulla frustrazione come causa di aggressività, quanto
sull’equilibrio psichico del soggetto, quindi su una variabile che non è
direttamente osservabile.