INTRODUZIONE
… ciò che resta lo fondano i poeti
Il poeta nomina gli dèi e nomina tutte le cose in ciò che esse
sono. Questo nominare non consiste nel fatto che qualcosa di già noto
prima verrebbe soltanto provvisto di un nome, ma, invece, quando il
poeta dice la parola essenziale, l’ente riceve solo allora, attraverso
questo nominare, la nomina a essere ciò che è. Così viene conosciuto
in quanto ente. La poesia è istituzione in parola (worthaft) dell’essere.
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Nominare, fondare, svelare, chiamare: in troppi modi si è cercato di attribuire una
definizione concreta all’attività del poetare. Cosa il Poeta nomini, fondi, sveli o chiami;
perché lo faccia e in che modo: sono questioni, queste, di cui tale ricerca, con l’aiuto di una
passione che ne ha favorito una forse troppo alta aspirazione, propone di intravedere l’ombra
di una risposta. Ma la sagoma di un’ombra resta pur sempre sfuggente ed eterea: forse non c’è
modo di darle materia; forse per noi comunissimi mortali è solo questo che, al massimo, può
essere offerto. Ma qualcuno c’è − o perlomeno c’è stato − a cui il superamento del confine è
stato concesso: ma è stato un premio doloroso, la maschera beffarda di un tragico sacrificio.
Friedrich Hölderlin (1770-1843) e la sua tragica esperienza − privata oltre che artistica
– ci offrono, pensiamo, l’aiuto più prezioso rispetto a questa questione: saranno anche altre le
personalità chiamate in causa; ma è il Poeta ad essere protagonista, basso continuo
dell’incerta melodia di cui cerchiamo di identificare le note, seppur consapevoli del certo
fallimento.
Forse, tra tutti gli studiosi che si sono occupati di Hölderlin, è stato Martin Heidegger
(1889-1976) che ne ha più fortemente sperimentato il sentimento: il filosofo, folgorato
dall’incontro con la Poesia del Poeta, ha pensato di aver finalmente scovato ciò per cui da
sempre, fino a quel momento e nella maniera sbagliata (questa la conclusione a cui lui stesso
finì per giungere) l’intero suo pensiero aveva ansimato. Ne derivò la cosiddetta svolta di
pensiero, segnata dall’uscita della Lettera sull’Umanismo (1947): è nella parola − certo non
quella del mero linguaggio comunicativo − che l’essere può scoprirsi celato e, solo nel giusto
attimo, essere presagito. Ma grazie a chi? A chi appartiene questa parola e come possiamo
sentirla?
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M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, Milano, Adelphi 1988, p. 50.
È lo stesso Hölderlin a parlare di fondamento nel suo Andenken: è l’immagine di una
Poesia capace di costituire il fondamento di ciò che permane, di ciò che appartiene all’essere,
di ciò che è verità. Ed è proprio appartenere la parola chiave: la Parola della Poesia, dice
Heidegger, appartiene all’essere che, con la bocca del Poeta, trova voce semplicemente. Il
linguaggio diviene così, la casa dell’essere. Il fondamento è costituito dall’atto stesso del
rammemorare: il Poeta, dopo aver tragicamente conosciuto e subìto il prosciugamento della
sua soggettività, deve necessariamente allontanarsi dal divino oggetto della sua conoscenza:
solo separandosi da esso potrà, nel ricordo dell’incontro, chiamare da lontano la verità di cui
ha goduto e che adesso deve poter desiderare. Ma, come detto, i dolori a cui il Poeta è
sottoposto consistono nell’annullamento di se stesso e nella rinuncia della sacra verità anche
solo per un attimo conquistata.
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Lo sforzo del Poeta, il suo sacrificio, consiste nel conquistare, per sé e il suo popolo,
quello spazio originario in cui, essere e ente, universale e particolare, si trovavano in
un’unica, armoniosa e stabile unità: il linguaggio poetico è quello spazio.
Ne deriva un’importante opposizione all’etica kantiana che, da parte sua, non ha fatto
altro che contribuire alla disgregazione di un uomo già di per sé sufficientemente
frammentato. Ma l’unità dapprima si presenta fuggevolmente: come un sentimento universale
che si accende ad intermittenza (quello che in questo lavoro è stato identificato con
l’esperienza amorosa
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) l’essere prende parola in isolati attimi precari: Come al giorno di festa
ce ne offre l’immagine.
La fine di ognuno di questi sacri istanti alimenta l’amore e la tensione verso il Divino
di cui si è fatta esperienza: Hölderlin, nella sua affannosa ricerca della patria dialetticamente
ottenuta e subito riperduta, trovò sollievo nell’immagine di una Grecia che lo accolse in
quanto fonte di pura, antica ed eterna Bellezza. Il viaggio di Iperione, in questo senso, si fa
metafora della peregrinazione sofferta dal Poeta, scelto ma, per necessità, subito abbandonato.
Ma, ad un tratto, l’esistenza di Hölderlin si imbatté in quella che senza dubbio deve
essere considerata la più emblematica ed enigmatica esperienza del Poeta (o di quello che di
lui era rimasto): la lunga ed inquietante follia. Coerentemente con la riflessione che stiamo
conducendo, interpreteremo la follia di Hölderlin come la perdita di identità: la separazione, il
contrasto tra soggetto e oggetto, l’accoglienza subito seguita dall’abbandono, sono dolori da
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Si rimanda all’approfondimento di tale questione offerto nel Capitolo Quarto di questo lavoro:
nell’Introduzione se ne propone solo un’accennata anticipazione.
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Cfr. F. Hölderlin, Iperione, traduzione e cura di Giovanni V . Amoretti, Milano, Feltrinelli 2009, p. 76: «Che
cosa è tutto quello che, nei millenni, gli uomini hanno compiuto e pensato di fronte a un solo istante d’amore?
Ed è anche quanto di più perfetto, di più divino esista in natura! Là conducono tutti i gradini, sulla soglia della
vita. Di là veniamo, colà andiamo!».
cui il Poeta fu, allora, finalmente assolto. Il dialettico tormento si vide concluso; in termini
heideggeriani: l’essere aveva finalmente e definitivamente accolto il Poeta in patria. Da questa
totalizzante ed unificante esperienza si innalza una casa in cui si parla il linguaggio proprio
dell’essere: quello che si esprime, soprattutto, nelle ultime poesie della follia.
Ma prima di rivolgersi all’esperienza esistenziale del Poeta, quella a cui è stato
dedicato ampio spazio nella parte conclusiva di questo lavoro, ci sono state due stazioni
presso cui il nostro treno non ha proprio potuto evitare di fermarsi: Diotima ed Empedocle, le
quali pensiamo essere ben altro che semplici figure letterarie; le cui Bellezze riflettono, ancora
secondo il nostro pensiero, la luce del padre Poeta che, sempre più accecante, finì per
tramutarsi nella più profonda e vera oscurità.
Diotima, come è chiaro sin dal nostro titolo, è stata certamente il primo e più
importante punto di riferimento: è sempre unità la parola che viene in mente. Proprio come il
Poeta giunge − prima amando sporadicamente, poi eternamente − nello spazio originario in
cui universale ed individuale si trovano a colloquiare semplicemente ed armoniosamente,
Diotima si presenta come testimonianza di quello spazio antico e unitario nel nostro tempo
moderno e frammentario: figlia della divina Natura, anima in cui soggettivo ed oggettivo si
presentano sotto forma di un amalgama perfetto, Diotima offre ad Iperione la speranza di
vivere in quello spazio sacro.
La riflessione condotta in questa sede intorno alla protagonista femminile del romanzo
di Hölderlin è sbocciata in una nuova possibile lettura interpretativa. La strada che ci si è
schiusa ha fatto in modo che la nostra attenzione si focalizzasse su Grazia e dignità (1793),
saggio in cui Friedrich Schiller (1759-1805) ci presenta il suo ideale di Anima Bella. Ancora
una volta e anche per Schiller, è unità la parola chiave: la Bellezza dell’anima è il frutto della
perfetta coincidenza di volontà e legge morale, dove libertà e necessità, soggetto e oggetto,
uomo e Natura convivono pacificamente all’insegna, appunto, della più luminosa Bellezza.
Ancora riprendendo Sulla Poesia Ingenua e Sentimentale (1795-1796) di Schiller e usando
più o meno le sue stesse preziose parole: Diotima è la pura e antica eccezione nella corrotta e
malata modernità, essa appartiene agli ingenui, in lei non vi è alcun sentimento nostalgico: in
lei l’appartenenza non si è mai interrotta. Ingenuità è appartenenza all’origine, perfezione
interiore, Bellezza: la Bellezza è degli antichi.
Spontaneamente appare evidente il possibile accostamento della figura di Diotima a
quella del Poeta: entrambe portatrici dell’antico messaggio divino di unità ed armonia. Ma se
la prima nasce e muore figlia dell’ingenuità, il secondo nasce come sentimentale: il Poeta
desidera il ritorno in patria dopo averlo sperimentato e sentito, ma, alla fine della sua
tormentata esistenza, egli morirà ingenuo, come visto, a scapito della sua identità. L’altro
elemento che accomuna queste due immagini è la morte: proprio nel modo in cui il Poeta
muore come soggetto dopo essere stato definitivamente accolto perché i tempi per lui erano
già maturi, Diotima muore perché solo lei, nel romanzo, è sempre stata pronta: la sua anima è
rimasta Bella sempre, la madre non la ha mai abbandonata. E pur di scongiurare il rischio
della minima contaminazione Diotima è chiamata all’origine anche con il corpo: dopo aver
sperimentato l’amore per Iperione, dopo che la sua Bellezza ha rischiato di essere violata
invece di restare, come deve essere, solo un pre-sentimento, l’universale la ha richiamata dal
mondo che di lei non era degno.
A questo punto si fa spazio nella nostra riflessione il concetto di sacrificio: Diotima e
il Poeta muoiono nel nome dell’antica unità, quella che la loro Anima Bella ha ingenuamente
conservato anche con la morte. Ma si tratta di una morte anch’essa bella, la cui positività si
chiarisce nel messaggio di liberazione che se ne scorge: l’Anima Bella lascia il mondo che le è
estraneo per ritrovarsi tra le braccia della Bellezza suprema, quella che la ha generata e da cui
essa, diversamente dalle altre anime, non si è mai separata.
Ma il sacrificio dell’Anima Bella per chi è compiuto? La colpa risiede tutta nel popolo:
sia il popolo che circonda Diotima (tra cui inseriamo ovviamente anche Iperione) che quello
più generalmente attribuito al Poeta sono sordi al linguaggio originario di cui costoro fanno
uso, seppur diversamente. Le altre anime non sono pronte a fare il passo che quelle Belle
vogliono aiutarle a compiere: non accettano di seguirle nel cammino e non si aggrappano alla
mano che viene loro offerta per percorrerlo. Le Anime Belle sono costrette a morire su questa
terra, da sole, arrivano corpo e anima a destinazione, prematuramente.
Giunti a questo punto, la figura di Empedocle sembra essere stata per tutto questo
tempo sottintesa: immagine perfetta in cui viene fatta incarnare l’esperienza poetica Bella e
sacrificata. Anche ne La morte di Empedocle Hölderlin sembra parlare di se stesso: c’è un
Poeta predestinato, accolto dalla natura prematuramente, portavoce del sacro messaggio che,
però, non può essere recepito dal popolo ingrato, e, infine, il necessario sacrificio: Empedocle,
Anima Bella nella stessa misura in cui abbiamo detto essere stata Diotima o quindi il Poeta, è
sede di un soggetto che troppo prematuramente – rispetto ai tempi lenti degli agrigentini – ha
incontrato l’oggetto: la morte fisica è necessaria per garantire la conservazione eterna della
già eterna Bellezza della sua anima.
Nel nostro percorso dunque ci siamo offerti di attraversare, per quanto a noi possibile,
le più significative testimonianze poetiche del linguaggio hölderliniano: abbiamo cercato di
stringere la mano che Diotima ed Empedocle ci avevano posto, evitando di sfuggire a quella
stretta che purtroppo la nostra immaturità di popolo ci ha impedito, nel corso della nostra
storia, di tenere fino alla fine del lungo cammino. Ma la Bellezza resta pur sempre degli
antichi: è questo, forse, il solo triste e duro messaggio che ci è possibile recepire.
Il supremo atto della ragione è un atto estetico; verità e bontà sono unite solo
nella bellezza; il filosofo dunque è colui che possiede un’attitudine pari a
quella del poeta; non si può essere ricchi di spirito se non si è dotati di senso
estetico.
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Si è deciso di chiudere l’Introduzione con questa citazione tratta dagli Scritti di Estetica di Hölderlin (ed.
Milano, SE 2004, p. 201) per la significativa immagine della Bellezza che se ne trae: certamente utile e
rappresentativa ai fini del messaggio che una tesi di Estetica potrebbe voler trasmettere.