I.3. I primi documenti
I riferimenti nel passato sul rapporto tra sangue e terapie non sono numerosi ma ci è giunta notizia
(4-5) di pratiche relativamente frequenti come il salasso, i bagni di sangue (ritenuti tonificanti e
riservati ai sovrani) e la somministrazione orale del sangue. In Mesopotamia si trovano i primi
documenti scritti, risalenti a circa quattro millenni fa. Il sangue era un importante elemento
mitologico nella creazione dell'uomo e del mondo e più praticamente era importante nei riti
sacrificali e divinatori che permettevano di leggere la volontà degli dei, l'esito delle battaglie e lo
sviluppo degli eventi (1). Secondo alcune testimonianze scritte, i sacerdoti Egiziani usavano
somministrare sangue ai faraoni per rinvigorirli. Ci tramandano queste notizie Erofilo della scuola
alessandrina e i sacri libri dei sacerdoti di Apollo (in (4)).Inoltre avevano l'abitudine (6) di
immergere gli anziani e i personaggi importanti nel sangue di animali con caratteristiche particolari
e di praticare (5) il salasso. Secondo alcune fonti equivoche, presso gli Egiziani si praticavano
trasfusioni e qualcuno, ritenendole troppo crudeli, avrebbe ordinato che fossero sostituite con il
bagno di sangue umano. E' probabile che questa notizia non sia vera e che anche gli Egizi fossero
soliti bere sangue allo scopo di fortificarsi (6). Nell'antica Grecia, fondamento della civiltà
occidentale, ai sacrifici umani si sostituirono gli animali il cui sangue era offerto agli dei. In seguito
sempre più spesso il sangue era sostituito dal vino nelle offerte funebri e nelle polis si vietò ogni
spargimento di sangue (1). Nei poemi omerici il sangue degli eroi che scorre dalle ferite era il
simbolo stesso dell'eroicità e della virilità. Ippocrate (in (4)) prescriveva di ingerire sangue per
curare l'epilessia e secondo Omero, Aristotele (384 a.C.) e Lucrezio Caro (98 a.C.) il sangue era la
sede dell'anima (in (5)). In mitologia il sangue delle vene di destra della Gorgone resuscitava i morti
mentre dalle vene sinistre sgorgava sangue capace di uccidere i vivi (7). Gli antichi Romani
offrivano sangue di schiavi e di stranieri alle anime dei defunti che potevano così transitare dal
mondo dei vivi. Il combattimento dei gladiatori (prigionieri e schiavi) era prima che uno spettacolo,
un rito funerario che assicurava la pace dei morti. Spesso lo spargimento era simbolico perché il
combattimento si fermava dopo la prima goccia di sangue (1). Altre volte era prescritto agli anziani
e agli epilettici (Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, 23 d.C.) di bere il sangue caldo dei
gladiatori per rinvigorirsi (in (4)). In tempi più recenti per i riti funerari non si userà più spargere
sangue umano o animale, ma ci si limiterà simbolicamente a gettare sulle spoglie drappi porpora o
fiori rossi. Anche Celso (circa 60 d.C.) e Tertulliano (circa 150 d.C.) riferivano (in (5)) dell'usanza
di prescrivere il sangue come farmaco. La tradizione medica di Esculapio indicava (in (7)) come
cura per l'emottisi (emissione di sangue dalla bocca) il sangue umano e per le malattie degli occhi il
sangue di gallo bianco. L'imperatore Costantino cercò di guarire dalla lebbra con un bagno di
sangue umano, ma rinunciò dopo che gli apparvero in sogno gli apostoli Pietro e Paolo. Altre simili
pratiche ci sono segnalate da Areteo di Cappadocia, medico a Roma nel II secolo d.C., in De
Curatione Diuturna, che biasimava chi raccoglieva il sangue dei decapitati per berlo (in (4)). Un
espediente vampiresco era consigliato (in (7)) da Marsilio Ficino nel XV secolo agli anziani che
volevano rimettersi in forze: succhiare dal braccio di un giovane due once (57 g) di sangue come le
sanguisughe. I soldati vigliacchi erano puniti con un salasso, un castigo che li privava della fonte di
forza fisica e morale (1). Si utilizzò per la prima volta la parola "trasfusione" nel De Re Medica di
Celso (in (8)), I secolo, in cui l'alessandrino Erasistrato del IV secolo a.C. scrisse, nella traduzione
di Celso, "Erasistratus, qui transfuso in arterias sanguine febrem fieri dicit". Secondo
l'interpretazione più attendibile, desunta
2
anche da Galeno che riportò i pensieri dell'alessandrino su
"trasfusioni" (intese come trasporti, passaggi) di sangue, Erasistrato, affermava che se le arterie
venivano per sventura occupate dal sangue "tracimato" dalle vene, dove si riteneva che il sangue
scorresse solamente, sarebbe insorta la febbre, l'infiammazione. Questo poteva accadere se, per una
lesione, dalle arterie fosse uscita l'aria, che si riteneva le occupasse (v. par. I.5.), e al suo posto si
fossero riempite del sangue delle vene. Il termine originale, che Celso ha tradotto con transfusio, era
forse metàchusis
3
(da metà, movimento da una parte all'altra, cambiamento di posto e da chùsis,
spargimento, flusso), ma non indicava l'introduzione, a scopi diversi, di sangue estraneo. Ovidio, I
secolo a.C., nelle Metamorfosi
3
narrava della maga Medea che rinvigorì il vecchio Pelia prima
facendolo dissanguare dalle figlie e poi riempiendogli le vene "con giovane sangue" che lo
ringiovanì. Anche Tanaquilla, moglie di Tarquinio Prisco, secondo la leggenda (5), avrebbe offerto
il proprio sangue per salvare il marito ferito mortalmente a pugnalate nel 577 a.C. Nella Bibbia
spesso il sangue era veicolo di purificazione che consentiva l'espiazione delle colpe. Il sacrificio di
un animale permetteva all'uomo di riappacificarsi con Dio. Ad esempio Abramo che stava per
sacrificare il figlio Isacco fu fermato da Dio che gli fece uccidere un ariete. Oltre al messaggio
cristiano si volle condannare la pratica del sacrificio umano e di fanciulli (in (1)). Nella Bibbia era
disapprovata anche l'usanza, segnalata presso molti popoli, di bere sangue umano (in (10)). Cristo,
l'agnello di Dio, offrì il suo sangue nella crocifissione per espiare i peccati del mondo. In seguito il
sangue, rappresentato dal vino, simboleggiò l'alleanza tra Dio e l'umanità e restò nell'arte e nella
simbologia "occidentale" l'emblema di un'etica e di una civiltà (in (1)). In un altro contesto morale e
sociale si inserì la civiltà degli Aztechi, contemporanea a un periodo che va dalla fine del nostro
medioevo al primo Rinascimento, quando in Messico sbarcarono i conquistadores. Gli Aztechi
consideravano i sacrifici umani una normale pratica rituale. Il Sole per cacciare le tenebre e sorgere
ogni giorno doveva nutrirsi del sangue e del cuore dei sacrificati sui gradoni delle piramidi. Il
sacrificio non era un'espiazione ma un fenomeno naturale parte del ciclo solare e delle stagioni del
calendario azteco (1).
I.4. Ippocrate e Galeno
Umore era in origine qualsiasi fluido animale o vegetale; in seguito il termine indicò solo alcune
sostanze liquide di uomini e animali. Nei più antichi testi greci conosciuti (450-400 a.C.) la bile e la
flemma erano gli umori in gran parte responsabili delle malattie, invece il sangue era l'umore
origine della vita (in (11)). Nel V secolo a.C. il filosofo Empedocle (in (10)) descrisse l'anima
composta dai quattro elementi, terra, aria, fuoco, acqua, e con sede nel sangue. Così ai tre umori
(bile, sangue, flegma) si aggiunse anche la bile nera. Ippocrate, vissuto tra la fine del V e l'inizio del
IV secolo a.C., verso il 390 a.C. comparò gli elementi di Empedocle con gli umori e li collegò a
gruppi di quattro alle stagioni, alle età della vita, ai principali organi (cuore, cervello, fegato e
milza), ai sensi. Le malattie erano uno squilibrio tra gli umori e la loro buona mescolanza (eucrasi)
conservava la salute (in (11)). La teoria umorale nel II secolo d.C. diventò la base degli studi di
Claudio Galeno, medico greco stabilitosi a Roma; essa fu così riproposta e adattata a certe
osservazioni anatomico-fisiologiche che le conferirono veridicità e incontestabilità per molti secoli.
Alcuni scritti medioevali, come Liber de humoribus attribuito (con riserve) a Galeno, riunirono e
trasmisero (12) le sue idee e quelle di Ippocrate sulla medicina e sugli umori. Il libro iniziava
ponendo un rapporto tra macrocosmo, cioè gli elementi radici di tutte le cose (terra, aria..) e
microcosmo, cioè gli umori dell'uomo. Le qualità (caldo, freddo, secco e umido) erano comuni a
elementi, umori e stagioni. Erano quattro anche i colori degli umori (e delle malattie), i gusti, le
febbri, i tipi di diete, le regioni, gli esantemi, le ore del giorno, i punti cardinali e altri generi di
categorie. Quattro anche i temperamenti, corrispondenti a un umore prevalente e a un periodo di
vita: sanguigno nel ragazzo, atrobiliare nel giovane, collerico in chi matura, pituitoso (o
flemmatico) nel vecchio. All'equilibrio degli umori partecipavano anche gli spiriti, una
rielaborazione dell'elemento pneuma (aria), ritenuti tra l'altro il centro della coscienza. Sotto
l'influenza di scuole di pensiero come la alessandrina lo pneuma si sdoppiò in spirito vitale e spirito
psichico o animale. Il primo giungeva al cuore dai polmoni dove tornava per eliminare le fuliggini
assorbite e contribuiva ad alimentare, secondo la dottrina galenica, e a riscaldare il calore innato
4
del cuore; da qui andava alla rete mirabile (reticolo di vasi non esistente nell'uomo) dove diventava
lo spirito animale che nutriva il cervello e veicolava pensiero, sensazioni e movimenti. Lo spirito
naturale, ipotizzato da Galeno, era il terzo; si trovava nel fegato e faceva crescere e nutriva ogni
parte del corpo. La dottrina galenica traeva origine e mescolava (11) la pratica e il pensiero di
medici e filosofi che lo avevano preceduto e molte sue osservazioni su uomini (gladiatori) e
animali. Postulando egli stesso la propria infallibilità restò un modello praticamente incontestato,
anche per gli Arabi, fino al 1600-1700. Anche nella terapia per secoli restò valido il principio
contraria contrariis curantur. Così lo squilibrio ad esempio di un umore non era difficile da sanare
lasciando contemporaneamente al terapeuta un'ampia discrezionalità.
I.5. Il medioevo
Nella farmacopea medievale il sangue era il rimedio di vari mali. In particolare il sangue mestruale,
considerato da un lato entità prodigiosa che influenzava di solito negativamente gli eventi, dall'altro
rimedio per la gotta e la febbre malarica terzana (1). Verso la fine del 1400 si ebbe la notizia di una
presunta trasfusione. Nel 1492 Villari descrisse la cura a base di sangue proveniente da tre bambini
a cui fu sottoposto il papa Innocenzo VIII moribondo; in seguito morirono il papa e i "donatori"
(in(6)). Il sangue gli fu somministrato a gocce ma non si sa se per bocca o nelle vene. Le notizie
conosciute intorno alle nozioni e alle idee di quel periodo fanno ritenere improbabile che Innocenzo
VIII sia stato sottoposto a una vera trasfusione. Infatti fino ad allora la scienza medica e la
conoscenza della fisiologia umana erano condizionate da nozioni e dogmi di diversi secoli prima
che nessuno pensava di contraddire. Per esempio nella tradizione galenica un tipo di terapia era la
sottrazione dell'umore sanguigno, cioè il salasso, la cura inflitta a ogni genere di malato perché si
sentisse meglio.
I.6. Salasso, rimedio per ogni male
Secondo alcune fonti i primi salassatori furono gli antichi Egiziani che secondo Plinio avevano
imparato questa tecnica osservando, chissà perché, l'ippopotamo. Invece il primo a effettuare un
salasso, di cui si abbia notizia, sarebbe stato Podalirio nel 1195 a.C. durante la guerra di Troia,
imitato nel 1179 a.C. dal medico arabo Avenzoar (10). Secondo quanto riportato da Aulo Gellio (in
(1)), (130-180 d.C.), in Noctes Acticae, i Romani imponevano il salasso ai soldati come punizione;
si ritiene anche che in tempi più antichi il salasso non fosse una punizione ma che servisse a
rinvigorire i soldati "torpidi". In seguito i medici di tutti i tempi, fino al XX secolo, prescrissero il
salasso come terapia e profilassi opposte alla trasfusione. L'affermarsi e il perpetuarsi del salasso si
può attribuire in parte al benessere e al rinvigorimento che seguono un prelievo di sangue, dovuti
alla riproduzione nell'organismo del sangue perso. Anche ai donatori capita di lasciare il centro
trasfusionale con questa sensazione. Anche prima di ogni prelievo per tentativi di trasfusione si
procedeva a una sottrazione di sangue perché si riteneva che la capacità totale dei vasi fosse
invariabile; tra gli altri lo affermava anche Lower (in (8)). Nel '700 le certezze sulla bontà del
salasso cominciarono a essere discusse; però fu largamente praticato specie con le sanguisughe (che
continuarono a essere utilizzate fino a pochi decenni fa) perché rendevano non indispensabile
l'ambiguo strumentario del chirurgo o del barbiere. Pare che una vittima illustre del salasso sia stata,
secondo lo storia delle trasfusioni di Simili, Camillo Benso di Cavour e che questo abbia contribuito
a screditare questa terapia (10). Si affrontavano anche dotte contese sui modi e sui tempi più
opportuni per praticare il salasso. Ad esempio su quale lato del corpo fosse il migliore da incidere,
quello malato o quello opposto, oppure su quale fosse la migliore vena del braccio per fare
l'incisione o ancora su quale fosse il migliore momento astrologico. Nell'antichità Aristotele dava
indicazioni precise: per guarire il fegato si doveva incidere il braccio destro perché arrivava una
vena diretta dal fegato; invece il braccio sinistro per guarire la milza (10). Dal 1800 la pratica del
salasso fu contrastata da più parti e diminuì gradualmente la sua diffusione. Le opinioni tuttavia
continuavano a divergere, secondo quanto illustrava l'oppositore Mantegazza nel 1869: "Per carità
odiate il salasso, di cui s'è fatto così miserando abuso in Italia [..]. Ho conosciuto molti che non
hanno altra malattia che quella regalata a essi dai medici con la lancetta [..]. Molti muoiono [..] in
nome della scienza. Dio sia misericordioso con quegli assassini togati [..]. In molte provincie del
Piemonte e del Napoletano e altri paesi si continua a salassare a oltranza. [..] Se avete troppo
sangue, mangiate meno" (13). Di recente le sanguisughe tornano in auge dopo un secolo di declino
(14). A Pittsburgh, Pennsylvania, negli Stati Uniti, in alcuni ospedali si usano in chirurgia plastica
per facilitare la cicatrizzazione postoperatoria.
I.7. Dal mito, a Leonardo, a Harvey
Fu descritto da Galeno il primo modello di circolazione del sangue, basato sulla teoria degli umori e
degli spiriti, accettato fino a Harvey anche se gradualmente arricchito da nuove osservazioni.
Secondo questa teoria l'umore sanguigno è insieme sangue venoso che trasporta il nutrimento dal
fegato al cuore destro e sangue arterioso che trasporta lo spirito vitale. Il nutrimento dell'intestino,
attraverso le vene meseraiche (in (15)) va al fegato divenendo sangue venoso; da qui al cuore destro
e quindi ai polmoni e al cuore sinistro attraverso il setto ritenuto poroso. Quindi il sangue, ricevuti
lo spirito vitale e il calore innato, li diffonde nel corpo attraverso le arterie che erano ritenute
letteralmente piene di aria prima di Galeno; lo si era notato nelle arterie dei cadaveri e già
l'alessandrino Erasistrato aveva distinto tra vene e arterie rilevando che le seconde pulsano ma non
le prime (in (16)). Galeno (1) invece affermò che nelle arterie e nelle vene scorre sangue con moto
alterno da e per il cuore, e non aria (pneuma) come sosteneva Ippocrate. Per quindici secoli, anche
se l'evidenza contraddiceva i principi di Galeno, si continuò a non contestarli finché nel 1628
William Harvey pubblicò una teoria rivoluzionaria sulla circolazione del sangue. Per la prima volta
nella storia della fisiologia a ogni affermazione teorica si diede una valida dimostrazione
sperimentale. Prima di Harvey molti studiosi avevano intuito e studiato la circolazione sanguigna
ma spesso avevano il timore di contraddire la tradizione come riferì Vesalio nel 1555 (1). Anche
Leonardo da Vinci eseguendo varie autopsie diede un notevole contributo al progresso della
fisiologia e dell'anatomia; ad esempio descrisse e disegnò chiaramente le valvole cardiache e contò
"gli aprimenti del core", le diastoli, giungendo a risultati simili a quelli di Harvey. Nel campo
circolatorio Leonardo sostanzialmente confermò le teorie di Galeno ma scrisse delle osservazioni
che possono facilmente essere equivocate. Ad esempio paragonò (in (15)) l'albero circolatorio a una
pianta che riceve il nutrimento dalle radici (l'intestino) e poi lo distribuisce in alto. Oltre che a una
pianta, paragonò (17) lo scorrere delle acque al sangue nelle vene, nei suoi appunti "Della Natura,
del Peso e Moto delle Acque
5
: "Raggiransi l'acque con continuo moto, [..] come il sangue delli
animali, che sempre si move dal mare del core, e scorre alle sommità delle loro teste; e che quivi
rompesi le vene, come si vede una vena rotta nel naso, che tutto il sangue da basso si leva alla
altezza della rotta vena". Qualcosa con tutta probabilità si agitava nella sua mente e si può supporre
che l'idea della circolazione del sangue, anche se non arrivò mai a emergere (15), si trovasse nel suo
subcosciente. Secondo Malachia De Cristoforis (1875) la storia delle trasfusioni è divisibile in tre
parti (9). La prima, "mitologica", precede scoperta della circolazione sanguigna; la terza è quella
terapeutica-pratica dal 1800 ai tempi recenti. Il secondo periodo, tralasciato non a caso, rappresenta
la fase più interessante della storia trasfusionale, quella sperimentale, durante la quale gli scienziati,
ancora invischiati nella tradizione e nella superstizione, seppero intuire e sperimentare passaggi
fondamentali del progresso scientifico senza neanche il conforto di strumenti come i microscopi; fu
lo studioso dilettante Van Leeuwenhoek a costruirli verso il 1670, ma non si diffusero prima del
XIX secolo. Nel 1674 egli osservò anche i globuli rossi (8). Un accenno è dovuto anche al
padovano Girolamo Fabrizi detto d'Acquapendente, maestro di Harvey, che aveva fatto apprendere
a Harvey l'esistenza delle valvole nelle vene (1).
I.8. Harvey e gli altri
Harvey aprì e caratterizzò la seconda fase della storia delle trasfusioni. In Exercitatio Anatomica de
Motu Cordis et Sanguinis in Animalibus dimostrò l'esistenza di un sistema doppio, chiuso e
unidirezionale di vasi sanguigni; il cuore, attraverso i vasi, come una pompa idraulica spinge il
sangue verso gli organi e questo poi torna al cuore (in (6)). La nascita dell'emodinamica favorì gli
studi e i tentativi di trasfusioni mentre si sperimentavano le tecniche e i materiali più adatti a questo
scopo. Prima di Innocenzo VIII i riferimenti alle trasfusioni di sangue erano mitologici e del tutto
inattendibili, forse perché, come affermava Simili (10), a nessuno venne in mente di passare il
sangue di un animale o di un uomo nei vasi di un altro. Dal 1500 molti ebbero questa idea, forse
contemporaneamente e separatamente, e qualcuno iniziò a descriverla, anche se finora non si è stati
in grado di riferire con nomi e date i veri primordi dei pensieri e degli esperimenti trasfusionali. Le
prime documentazioni furono di Girolamo Cardano di Milano che nel De Rerum Varietate del 1558
offrì la prima testimonianza (in 10)) di tentativi, o ipotesi di tentativi, di "scambiare il sangue con
un giovane di buoni costumi, per mezzo di due cannule". In modo diverso rispetto ai tempi
precedenti, non si ingeriva il sangue ma si trasferiva, o si pensava di trasferirlo, da un vaso a un
altro. In seguito Pegel (Pegelio) del 1604 e il chimico Andreas Libavius di Halles parlarono di
trasfusioni. Libavius nel 1615 riportò una testimonianza di trasfusione in Appendix necessaria in
defensione Syntagmatis arcanorum chimicorum, nel capitolo "De magicis medicamentis et
similibus" (in (10)). Libavius giudicava scetticamente questa pratica che descrisse peraltro molto
accuratamente: si doveva infilare una cannula d'argento nell'arteria del donatore e un'altra nel
malato; poi si collegavano le due cannule e quindi il sangue dell'individuo sano "pieno di sangue
ardente" scorreva nel ricevente portando vita e benessere
6
. Anche Giovanni Colle Bellunese da
Cividale (Udine) in Methodus Facile Parandi iucunda, tuta (sicuri) et nova medicamenta del 1628
descrisse in modo preciso le procedure della trasfusione ed espresse il suo parere positivo sulla
possibile efficacia di questo tipo di cura per il prolungamento della vita degli anziani che
ricevessero sangue da un giovane. Invece secondo altri (20) Colle non avrebbe alcuna fede in queste
terapie. Colle a giudizio di molti (8) sarebbe il vero precursore, ed entusiasta sostenitore, della
trasfusione di sangue, anche se egli stesso affermava di non averne praticate; è anche considerato il
primo ad aver teorizzato la somministrazione di farmaci nelle vene. Nel 1665 il medico fiorentino
Francesco Folli (in (6)), in Recreatio fisica rivendicò la paternità dell'invenzione teorica della
trasfusione avendo esposto nel 1654 al granduca Ferdinando II le sue idee. Nella Stadera Medica
del 1680 si intratteneva (8) su varie tecniche di infusione e di trasfusione e sui vari pareri favorevoli
o contrari e descrivendola ribadiva di averla ideata (ma non praticata
7
) lui per primo. Verso il 1665
Alfonso Borelli di Pisa condusse ((in 8)) accurati studi di infusione di "cibi e medicamenti" nelle
vene e non è improbabile, secondo alcuni documenti, che avesse messo a punto delle tecniche
originali usate poi negli esperimenti trasfusionale dei quali si era del resto interessato. Dall'inglese
Clark (18), 1668, risulta che gli inglesi facevano derivare le trasfusioni dalle endovenose; del resto
nel XVII secolo la trasfusione era da molti considerata solo una variante dell'introduzione di
sostanze diverse nelle vene.
I.9. Le prime trasfusioni documentate
Durante il XVII secolo continuarono gli esperimenti con esiti alterni. Dalla Toscana molte
innovazioni nel campo infusorio e trasfusionale giunsero alla neocostituita Royal Society di Londra.
Nel 1665-66 Richard Lower realizzò (in (8)) il primo esperimento documentato di sostituzione
totale di sangue su due cani grazie alla tecnica da lui ideata di anastomosi arteria-vena con
collegamento tubolare, utilizzata poi anche da Denys e da molti altri. Questa tecnica sfruttava la
pressione arteriosa per spingere il sangue nella vena del ricevente e faceva diminuire il rischio di
coagulazione. La prima (o una delle prime) relazioni certe di una trasfusione umana è del 1667;
Jean Denys, medico di Luigi XIV e professore di Filosofia e Matematica a Montpellier dopo alcuni
incoraggianti esperimenti sugli animali (in (8)), il 15 giugno 1667, alle cinque di mattina, si preparò
a trasfondere una persona. Scelse di guarire (in (6)) un ragazzo di 16 anni da un non meglio
specificato morbo febbrile praticandogli prima un salasso e poi una trasfusione di sangue di agnello;
pare che in realtà il sangue trasfuso sia stato in quantità minore dei 270 grammi dichiarati. Denys
praticò una trasfusione basandosi sulla similitudine della gravidanza, durante la quale il neonato
riceveva una "trasfusione" dalla madre attraverso la vena ombelicale" (in (4)). La sua seconda
esperienza, "fatta più per curiosità che per necessità", fu su un uomo di 45 anni che fu retribuito e
che dopo breve tempo andò a spendere parte del denaro bevendo con gli amici (in (10)). Questi
avvenimenti ebbero vasta eco e rapida diffusione. Mezza Europa ne parlò per mesi verso la fine del
1667. A Londra Lower si affrettò con King a ripetere la trasfusione umana su un certo Arturo Coga
che fu ricompensato con una ghinea e volle ripetere l'esperienza dopo venti giorni (in (10)). Non
tutte le esperienze di Denys ebbero successo. Il primo fallimento capitò nel luglio 1667 quando,
contro la sua volontà fu indotto a trasfondere il figlio del primo ministro svedese. Il malato era già
in gravissime condizioni e morì due giorni dopo la trasfusione (in (21)). Le dispute insorte
indussero Denys, per placare i suoi oppositori, a tentare un'eclatante dimostrazione emoterapeutica
cioè la trasfusione di un uomo affetto da pazzia ciclica. Il paziente sembrò guarire anche se pochi
mesi dopo ebbe una ricaduta della malattia (in (22)). Denys volle poi consolidare i suoi risultati e
trasfuse nel 1668 un paziente che, durante l'operazione, gridava "Fermatevi, soffoco!" - "Lei può
sopportare ancora, signore" gli rispose Denys. Lo sfortunato trasfuso non sopportò ancora e morì
manifestando i sintomi di una emoglobinuria, cioè una crisi emolitica con rottura e passaggio nelle
urine del contenuto dei globuli rossi. Denys la descrisse così: "il braccio diventa caldo, il polso
frequente, le urine scure" (in (4)). I fallimenti condussero alle denunce dei parenti delle sfortunate
vittime e al processo che condusse a una sentenza censoria verso le trasfusioni umane. Anche in
Italia in quel periodo molti sperimentatori operavano diffusamente nel campo. A Roma si tenne nel
1667 una pubblica tripla trasfusione in Campidoglio eseguita da Giovanni Guglielmo Riva; uno dei
tre trasfusi morì (in (18)). Nel 1668 un esperimento fu praticato (23) su un medico malato di
tubercolosi polmonare che non ebbe disturbi dalla trasfusione (in (8)). Alcuni anni dopo il
Parlamento di Parigi tornò sull'argomento e vietò del tutto queste pratiche; faranno lo stesso in
seguito il parlamento inglese e altri stati europei (in (6)), e a Roma la corte pontificia nel 1669 (in
(23)). Secondo alcuni non sarebbe mai stato posto esplicitamente un veto papale alle trasfusioni
(10).
I.10. Favorevoli e contrari
Denys decise di tentare la prima trasfusione umana per placare le polemiche che già c'erano sugli
esperimenti trasfusori. Sbagliò le sue valutazioni perché il "dibattito" in seguito arrivò fino alla rissa
verbale. Tra l'altro Denys fu accusato di essere cannibale, satanico e un boia (in (21)). Infatti dopo
gli spericolati esperimenti di Denys, i numerosi oppositori e la stampa denigratrice, che anche allora
aveva più diffusione di quella d'informazione (come Le Journal des Ésçavants, una pubblicazione
scientifica nata nel 1665 (in (23)) e riportata in Italia dal "Giornale de' Letterati"), infiammarono la
polemica. Denys si trovò coinvolto in una diatriba sulla liceità delle trasfusioni, accentuata anche
dall'eccezionalità dell'evento. Queste dispute e le denunce portarono la Corte di Giustizia francese a
occuparsi di tale pratica. Denys fu assolto, ma nell'aprile 1668 il tribunale di Châtelet di Parigi
proibì le attività trasfusionali, con la cosiddetta sentenza di Châtelet (in (24)). Che cosa proclamasse
esattamente la sentenza non è noto perché gli archivi di Châtelet furono distrutti in un incendio.
Tuttavia sono rimaste alcune lettere di Denys a un amico inglese (in (10))e una ordinanza del
gennaio 1670 sul "Divieto a tutti i medici e i chirurgi di esercitare la trasfusione del sangue sotto la
pena di punizione corporale" (in (21)). La prima sentenza del 1668 non era così perentoria. Si
potevano infatti praticare trasfusioni (in (4)) con il permesso della Facoltà di Medicina di Parigi che
però le aveva spesso ostacolate. In tutta Europa si discuteva sulla liceità delle trasfusioni ma la
battaglia più accesa si disputò in Francia. Tra i principali oppositori c'era Lamy, Maestro
dell'Università di Parigi (25) che considerava le trasfusioni inutili e "perniciose" e "un mezzo per
tormentare i malati" (in (10)). L'innaturalità era uno dei principali argomenti dei detrattori. Ad
esempio Petit, con il nome di Eutifrone, diceva che "a meno di rigettare l'antica medicina, non si
può ammettere la trasfusione". Anche altre obiezioni, come il timore di trasformare l'uomo in
animale (se era questo il donatore) erano buone ragioni per rifiutare ciò che sconvolgeva le
tradizioni consolidate (25). Le obiezioni del medico e architetto Perrault erano simili a quelle di
Petit e riuscirono a orientare le idee dell'Accademia di Medicina di Parigi verso il rifiuto delle
tecniche trasfusionali. Scrisse tra l'altro: "Non sarebbe strano, Signori dell'Accademia, se voi
riconosceste che si può cambiare il sangue come la camicia?" (in (21)). Un celebre oppositore fu il
tedesco Merklin che nel 1679 pubblicò De ortu et occasu transfusionis sanguinis in cui riteneva
pericolosa e poco utile l'emotrasfusione (in (10)). Però oltre ai detrattori di Denys e delle trasfusioni
ci furono molti favorevoli che sostennero le loro posizioni. Uno dei più insistenti fu il monaco
benedettino Robert Desgabets che iniziò a occuparsi della materia prima di Denys e sostenne, come
molti altri, di aver ideato egli stesso la trasfusione di sangue. Pare che nel 1655 a Parigi avesse
pronunciato un discorso pubblico sulle trasfusioni e che si fosse adoperato per diffondere le sue idee
tra le molte sue conoscenze come un vero sobillatore (in (21)). Anche Denys riportò questo fatto in
"una lettera scritta al Sign. de Montmor, il 25 giugno 1667" (25) e riteneva che Robert Desgabets
fosse l'inventore della trasfusione, ma si ritiene che la data di quel discorso non sia attendibile (10).
Altri due sostenitori e presunti inventori (in (10)) furono l'abate Bourdelot e Claude Tardy.
Quest'ultimo affermò che il sangue umano fosse il migliore da trasfondere a un uomo e che si
dovrebbe fare il trasferimento da vena a vena. Molti invece, tra cui Claude Garoys, la ritenevano
adatta alla cura di svariate malattie (25). Gli inglesi oltre che primi realizzatori furono, nella
pressoché totalità, convinti fautori delle esperienze trasfusionali. Molti sostenitori erano convinti di
avere in mano una terapia miracolosa e anche i più moderati erano quasi accecati dall'idea di
sperimentare un elisir di lunga vita e una cura medeana (come veniva anche chiamata la trasfusione)
per aspiranti Cocoon
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secenteschi. Ci fu tra le due fazioni una schiera di "equilibrati e lungimiranti"
che si accorse della pericolosità delle trasfusioni e della loro non miracolosa utilità, e che riconobbe
anche qualche successo e interessanti prospettive. Tra questi ponderati si pose De Guyre che ritenne
la trasfusione non s empre sicura e utile ma neanche del tutto dannosa (in (10)). Si può includere tra
gli equilibrati (ma non lungimiranti) anche l'Accademia di Medicina francese che restò per un certo
tempo senza pronunciarsi aspettando di poter dare la sua opinione; nonostante le promesse di eterna
giovinezza, gli accademici si accorsero che gli animali trasfusi invece di rinvigorire si indebolivano
a vista d'occhio e così divennero molto cauti sull'argomento fino all'opposizione assoluta dopo la
sentenza di Châtelet (in (21)). Un posto particolare, secondo Santoro, tra i ragionevoli lo conquistò
il romano Bartolomeo Santinelli, considerato tradizionalmente un convinto oppositore. Nel 1668
Santinelli pubblicò Confusio Transfusionis sive confutatio operationis transfundentis sanguinem de
individuo ad individuum. Si esprimeva da divulgatore coinciso quando descriveva metodi e
tecniche, ma era più prolisso dissertando sui principi etici. Il libro aveva tre sezioni: Transfusio
incerta, cioè non ancora ben sperimentata, Transfusio inutilis, non utilizzabile e Transfusio
repugnans, da rifiutare. Nell'ultima sezione espose i problemi morali, religiosi e di etica
professionale nell'arte medica posti dalle trasfusioni (18). Santinelli era uno studioso legato alle
tradizioni scientifiche del passato e all'autorità morale ecclesiastica, e già per questo non vedeva di
buon occhio gli esperimenti e le incaute "terapie" trasfusionali della sua epoca che, con la cerimonia
di dissanguamento dell'animale non consenziente, l'apertura della vena del ricevente e i frequenti
decessi, avevano qualcosa di innaturale e quindi sacrilego. Tuttavia se esaminassimo con occhi
contemporanei le sue argomentazioni, i consigli e le descrizioni che riportò, saremmo spesso in
accordo con le sue conclusioni e le sue critiche. Santinelli rilevava come i risultati terapeutici
fossero scarsi e del tutto incerti. Inoltre spesso le cure trasfusionali venivano applicate in casi non
opportuni sottoponendo il malcapitato a prolungate e inutili sofferenze, particolare al quale
Santinelli sembra uno dei pochi interessati. Con sensibilità e lungimiranza auspicava una
limitazione consistente delle trasfusioni finché le conoscenze scientifiche e tecniche non avessero
permesso di ridurre l'aggressività dell'operazione e di accumulare più conoscenze sull'argomento.
Santinelli raccomandava gli esperimenti sugli animali e prevedeva un futuro brillante per
l'applicazione terapeutica delle trasfusioni (18). Di questo avviso era anche il fisico Boyle che
intorno al 1666 si occupò anche di esperimenti trasfusionali e pose interessanti quesiti e obiezioni
sull'argomento (in (10)). Tra gli Italiani fu "prudente, cauto e circospetto" Ippolito Magnani, che tra
le altre eseguì una trasfusione tra due cani dalla quale "imparammo che la restituzione del sangue a
chi l'avesse perduto per ferita o per flussioni" (afflusso congestionante di sangue) "serve a ridargli la
vita". Anche Gianforti tra l'altro si domandò se il sangue del donatore potesse mantenere le sue
qualità fuori dai vasi e osservò che difficilmente si trovava sangue somigliante tra due uomini e
ancora di più tra uomini e animali (in (10)).
I.11. Sangue di uomini e di animali
Le osservazioni di Gianforti potrebbero costituire una prima distinzione tra osservatori attenti e
osservatori "distratti" dei risultati trasfusionali, che comunque non erano sempre inequivocabili.
Inoltre si deve rilevare che le possibilità di scambi di notizie erano piuttosto limitati e che forse
anche per questo le obiezioni sollevate non ebbero largo seguito (sebbene alcune pubblicazioni,
secondo quanto riportato da (23), avessero cadenza settimanale). Molti sperimentatori come Lower,
King, Denys e altri praticarono le trasfusioni principalmente sugli animali e spesso anche tra uomini
e animali. Questi studi permisero, anche se con numerosi insuccessi e morti di cavie e pazienti, di
migliorare le tecniche e di sperimentare i materiali più adatti. Fino al XIX secolo continuarono,
nonostante le numerose opposizioni, le trasfusioni da animali, per lo più da agnello, animale
mansueto e tradizionalmente purificatore (6). A causa delle numerose vittime (alcuni riuscirono a
sopravvivere a trasfusioni da animali) i vari stati europei, come già visto, limitarono le pratiche e gli
esperimenti trasfusionali. Molti trasfusi con sangue animale riuscivano a sopravvivere, almeno per
un certo periodo di tempo. Anche se in genere le reazioni a una tale trasfusione erano gravi,
risultavano a volte sopportabili da soggetti in condizione di collasso per l'anemia o la narcosi. Si
ritiene anche che le quantità di sangue effettivamente trasfuso non siano state superiori a 8 grammi
e che quindi in molti casi le reazioni siano state così blande da non essere notate (26). Il bolognese
Luigi Luciani nel 1874 pubblicò "Metodo sicuro per la trasfusione diretta da animale a uomo" in cui
illustrava la bontà delle sue esperienze e le sue portentose attrezzature trasfusionali. Luciani era
anche contrario alla defibrinazione (I.15.) (in (19)). Tuttavia di lì a poco questi metodi furono
abbandonati. Decisivo fu il contributo di Leonhard Landois, nel 1875 in Germania, che dimostrò
l'inefficacia degli scambi tra uomo e animale (e in genere tra specie diverse) indicando che il sangue
umano mischiato con quello animale ne provocava l'emolisi entro due minuti e poi l'agglutinazione
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(in (6)). Due anni dopo Ponfick riferiva che il plasma di un animale dissolve (anche in vitro secondo
(27)) i globuli rossi di un'altra specie e che l'emoglobina viene poi eliminata dai reni, dall'intestino,
e perfino dall'umor acqueo dell'occhio come fu constatato da Panum, danneggiando il ricevente (in
(28)).
I.12. I successi diventano più frequenti
Per più di un secolo gli studi sulle trasfusioni si fermarono e solo verso la fine del XVIII secolo si
ricominciò a parlare di questa pratica medica grazie a Michele Rosa, dell'università di Modena, che
risvegliò l'interesse sull'argomento. Nel 1783, nelle "Lettere sopra alcune curiosità fisiologiche" (in
(19)), Rosa descrisse i suoi tentativi "di ravvivare un animale svenato esangue" (in (29)); egli cercò
di rianimare anche degli uomini. All'inizio del 1800 Paul Scheel scrisse "La trasfusione del sangue e
le iniezioni di medicamenti nelle vene" per far risorgere l'interesse sull'argomento. Egli suggerì
l'uomo come unica fonte di sangue da trasfondere a un altro uomo (in (4)). Nel 1818 l'ostetrico e
fisiologo inglese James Blundell tentò una trasfusione su una puerpera e la seconda volta riuscì
nell'intento. Questo evento, oltre ad avere risonanza in tutto il mondo, viene considerato la prima
trasfusione umana perché Blundell cominciò a operare una prima intuitiva selezione dei donatori
(innanzitutto utilizzava solo donatori umani) (in (6)). Da allora ripresero le ricerche per risolvere i
numerosi problemi di una trasfusione (come la coagulazione del sangue fuori dai vasi, le infezioni e
le incompatibilità tra i diversi gruppi), che si presentavano come inspiegabili e causavano insuccessi
simili a quelli di due secoli prima. Nelle sperimentazioni fu privilegiata la verifica della tolleranza
delle cavie verso sostanze e trattamenti diversi, rispetto al modo migliore di rianimarle. Nelle
persone si provava a trattare con le trasfusioni diversi morbi, dalle allergie alla follia, male
emorragie spesso non venivano affrontate. In questo modo molti errori incontrati nel 1600 si
ripetevano in maniera similare. E' anche possibile che le migliorate condizioni di asepsi abbiano
permesso alle trasfusioni di non cadere nel disinteresse e nella censura come nella seconda metà del
1600; allora alcune difficoltà che potevano insorgere (setticemia, flebite) provocarono forse più
ostacoli di altre (incompatibilità umane e animali, emboli di vari tipi, coagulazioni ecc.) e
contribuirono comunque ad aggravarle. Per scongiurare gli emboli d'aria Blundell immerse (in (28))
nell'acqua l'interno di uno dei primi apparecchi per trasfusioni, l'"Impellor", da lui inventato nel
1818, costituito da una siringa e da una valvola a tre vie (in (30)). Nel 1867 il medico ginevrino
Roussel mise a punto (in (4)) un altro apparecchio per la trasfusione, il "Trasfusor" che venne
presentato alle università e alle fondazioni scientifiche. Non tutti ottennero risultati così promettenti
dai loro esperimenti come Rosa e Blundell; ad esempio Prevost e Dumas nel 1821 documentarono
(in (29)) che gli animali trasfusi, dopo essere stati dissanguati e rianimati, raramente vivevano più di
sei giorni. In questo periodo operò anche Pasquale Landi insegnante all'università di Pisa dal 1868
al 1894. Oltre a essere un valido studioso e fervente promotore dell'applicazione clinica delle
pratiche trasfusionali, pubblicò nel 1867 "Una lezione sulla trasfusione del sangue" (9). Questo
scritto era pieno di riferimenti al passato delle trasfusioni oltre che essere un'opera doviziosa sui
modi, le tecniche e gli strumenti da utilizzare per trasfondere uomini e animali. Dimostrava di aver
praticato molte trasfusioni e che la tecnica era abbastanza collaudata da scriverne la storia, anche se
Blundell aveva inaugurato la moderna fase trasfusionale pochi decenni prima. Azzardava anche
un'interpretazione del detto "darei un bicchiere del mio sangue per salvargli la vita" attribuendolo
alle esperienze trasfusionali tentate in qualche modo da tempi antichissimi. Landi tentò anche una
sorta di analisi dei successi e degli insuccessi basandosi sulla casistica da lui osservata. Secondo
Landi gli unici incidenti erano la flebite e l'aria nella vena. Indicò quindi dei limiti e dei casi in cui
sarebbe bene trasfondere oppure no aumentando artificialmente il numero dei casi nei quali "questa
portentosa operazione [..] promette salvezza, altrimenti insperata, a coloro che agonizzano".
Naturalmente non tutte le sue raccomandazioni erano valide non essendo allora note alcune
circostanze come le incompatibilità tra i gruppi di sangue; tuttavia Landi osservò che "le condizioni
gravissime degli infermi soccorsi con le trasfusioni di sangue, non permettono di stabilire in modo
assoluto se e quando la trasfusione di sangue si faccia causa di morte". Nel 1873 Aveling riuscì a
fare una trasfusione diretta uomo-uomo collegando le cannule poste nelle due vene con un tubo di
gomma. L'evento fu immortalato da un dipinto (in (27)). L'americano Crile dal 1898 usò (in (22))
una nuova tecnica per trasferire il sangue dal donatore al ricevente basato sul collegamento diretto
dei vasi; così il sangue non si coagulava, non si contaminava e non entrava l'aria. I rischi, imputabili
per lo più alle incompatibilità, si aggiravano ancora sul 30%.E' infatti questa la probabilità (in (27))
che si verifichi incompatibilità trasfondendo sangue di diverso gruppo del sistema AB0 e non
sempre l'incidente ha esito infausto. Il rischio più alto, 25%, lo corrono i riceventi di gruppo 0,
perché possessori delle agglutinine anti-A e anti-B. Emmanuel Hédon di Montpellier nel 1902
dimostrò che gli animali dissanguati potevano rinvenire se si iniettavano loro globuli rossi ottenuti
dal plasma con lavaggi ripetuti e poi sospesi in un siero artificiale (in (22)). Un altro medico di
Montpellier, Emile Jeanbrau, negli anni '10 e '20 organizzò con l'aiuto di Hédon un attrezzatissimo
servizio trasfusionale annesso all'università che studiò anche numerose nuove tecniche
(anticoagulanti e test di compatibilità) per migliorare l'efficacia dell'emoterapia e per diminuire la
mortalità. Verso il 1914 queste circostanze cominciavano a realizzarsi, tuttavia Jeanbrau riferiva che
i testi di medicina non facevano menzione delle tecniche trasfusionali perché non esisteva ancora un
procedimento pratico per effettuarle (in (22)).
I.13. Le infezioni sono un rischio costante
Prima che si scoprisse la causa delle infezioni e che quindi si cominciasse a rispettare l'asepsi e la
disinfezione, i contagi erano comuni nelle trasfusioni per le condizioni generali di igiene più che per
le trasmissioni con sangue infetto. In particolare i medici che stavano sempre a contatto con i malati
erano fonte frequente di infezioni. Per primi l'ungherese Semmelweiss e l'americano Holmes, e in
seguito anche Blundell (in (28)), raccomandavano che le mani e gli strumenti fossero
scrupolosamente puliti (in (16)). Tra i numerosi rischi delle trasfusioni c'era anche quello di
infettare il ricevente con patogeni provenienti dall'uomo o dall'animale donatore. Questo rischio,
seppure non si conoscevano i meccanismi di trasmissione, era stato osservato e a volte si cercava di
evitarlo; anche perché il sangue era considerato parte essenziale dell'individuo (e delle sue
caratteristiche positive e negative) e proprio per questo il più delle volte si tentavano le trasfusioni,
(cioè si tentavano gli esperimenti più strani, allo scopo di trasferire e scambiare le qualità positive o
negative di alcuni soggetti in altri). Per esempio Petit (par. I.11.), riguardo al sangue come sede
dell'indole dell'uomo o dell'animale, temeva che il sangue di un animale trasfuso a un uomo potesse
trasformarlo in un animale. Le cronache riportavano in modo scarno e approssimativo alcuni casi di
trasmissione di malattie attraverso le trasfusioni. Più spesso venivano riportate le impressioni di
alcuni, realizzatori o semplici osservatori, che prendevano in considerazione questi rischi (per
esempio la brucellosi) e raccomandavano di non fare trasfusioni o di operare con circospezione
scegliendo uomini e animali sani come donatori (28). Giovanni Guglielmo Riva nel 1669 avrebbe
provocato un caso di idrofobia
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e per questo la corte pontificia giudicò illecite le pratiche
trasfusionali. Nel 1808 il francese Antoine Portal avvertiva dei pericoli "di trasmettere le malattie
dell'animale infondente all'infuso" (in (28)). Anche Dieffebach (circa 1830) riteneva che il sangue
trasfuso potesse trasmettere malattie dell'individuo donatore (in (29)). Molti come Panum
raccomandavano di trasfondere sangue umano, invece che animale, perché "la scomposizione ed
eliminazione del sangue estraneo non abbia a ad essere sorgente di nuovi pericoli" (non
necessariamente infezioni) "e aver per effetto la morte" (in (23)). Ci fu un esperimento nel 1668 in
cui un cane ricevette 425 grammi di sangue di un secondo cane affetto da rogna. Fu l'inglese
Thomas Coxe l'autore di questa trasfusione in cui i due cani si scambiarono il sangue; Coxe osservò
appropriatamente che il primo cane non contrasse la rogna e ingiustificatamente che l'altro guarì
dalla malattia (in (10)). Nel XX secolo le trasfusioni si trasformarono da curiosità scientifica a
terapia relativamente sicura e controllata. Il rischio di infezioni trasmesse da sangue infetto diventò
uno dei più rilevanti. Nel 1938 molti soggetti a cui era stato iniettato siero umano si ammalarono di
ittero simile a quello causato da infezioni. Nel 1942 negli Stati Uniti si verificarono dei casi simili e
da allora si affacciò l'ipotesi, in seguito confermata, che il sangue umano infettato da epatite potesse
veicolare la malattia. Vennero in seguito tentati alcuni accorgimenti che distruggessero il virus per
proteggere i trasfusi e tutti coloro che si trovavano nelle vicinanze di sangue o di suoi derivati
potenzialmente infetti (31). Ben presto ci si accorse inoltre che il rischio di contagio aumentava per
il plasma e altri emoderivati provenienti da numerosi donatori. A Montpellier dal 1955 il
frazionamento del plasma veniva effettuato su lotti ridotti per impedire la diffusione dell'epatite
(22). Altre infezioni possono essere trasmesse dal sangue trasfuso ma già dagli anni '50 si misero a
punto alcuni rimedi apprezzabili (22). Per esempio la sifilide può essere resa innocua dal freddo e il
plasmodio della malaria può essere inattivato dalla liofilizzazione e dal congelamento (31).