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Lo sviluppo della narrazione e della memoria
autobiografica alla luce della Teoria dell’Attaccamento
INTRODUZIONE
«Ogni racconto è il racconto di qualcuno» (Bruner, 1992).
L’obiettivo del presente lavoro è di rilevare l’importanza e l’utilità
dell’analisi della narrazione e dei ricordi autobiografici, nell’indagine relativa alla
storia di attaccamento di un individuo, a partire dalle prime relazioni infantili.
Tale obiettivo viene perseguito attraverso un excursus della letteratura che si è
sviluppata all’interno di tale ambito di studi, percorrendo le ipotesi e le teorie che
sono emerse anche grazie all’uso di strumenti d’indagine messi a punto e
ulteriormente sviluppati nel corso degli studi più recenti.
Lo studio della relazione esistente tra memoria, narrazione autobiografica
e storie di attaccamento, non sembra essere inserito in un unico quadro teorico di
riferimento. Ciò potrebbe essere dovuto sia al recente interesse rispetto a tale
argomento, sia a causa della complessità e della dinamicità che caratterizzano i
costrutti presi in esame. Per questo motivo il presente lavoro, che si articola in
quattro capitoli, tenta di cogliere ed evidenziare le caratteristiche proprie
dell’attaccamento, della memoria e della narrazione autobiografica, sottolineando
quegli aspetti che emergono nella relazione tra di loro.
Il primo capitolo esplora la teoria dell’attaccamento formulata da Bowlby
(1973; 1976; 1978), che sottolinea il “bisogno di relazione” del bambino, che
tende a ricercare la vicinanza e la protezione di chi si prende cura di lui,
analizzando in modo particolare gli stili di attaccamento, indagati attraverso la
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Strange Situation, che possono formarsi nella relazione tra bambino e genitore, e
la capacità genitoriale di porsi come “base sicura” per il proprio figlio (Ainsworth,
1973; 1978). Percorrendo gli sviluppi della teoria dell’attaccamento, inoltre, viene
approfondito il concetto di “Modelli Operativi Interni” (Bowlby, 1976; 1978),
efficaci schemi di rappresentazione della realtà relazionale, che costituiscono la
funzione organizzativa dell’esperienza, conferendone significato e ponendosi
come guida nell’esperienza futura. Inoltre, viene sottolineato lo sviluppo della
“funzione riflessiva” (Fonagy e Target, 1996; 1997; 2001), la cui capacità di
mentalizzare sui propri e sugli altrui stati mentali, è sorretta soprattutto dalla
rappresentazione di un attaccamento di tipo sicuro. Un particolare interesse è
rivolto anche al contributo della prospettiva cognitivo-evoluzionista delineata da
Liotti (1994, 2001, 2005), che concepisce l’attaccamento come uno dei sistemi
motivazionali interpersonali, capace di organizzare la conoscenza personale
dell’individuo inserito all’interno di un ambiente relazionale.
Nel secondo capitolo, vengono esposti i maggiori contributi offerti alla
cornice teorica dell’approccio narrativo, che si delinea, sia nelle teorizzazioni di
Bruner (1990; 1991; 1992) che di Kelly (1955), come un approccio costruttivista,
in cui la costruzione della realtà esperienziale si realizza attraverso la capacità di
interpretazione delle esperienze, che avviene mediante l’attribuzione personale dei
significati. Il contributo di Bruner (1990; 1991; 1992), è rappresentato dall’idea di
un bisogno imprescindibile dell’uomo, quello di dare senso all’esperienza. Ciò
avviene all’interno di un determinato contesto culturale, costruito a partire dagli
scambi comunicativi, in particolar modo dalla narrazione, che per mezzo delle sue
caratteristiche peculiari, permette di co-costruire dei significati condivisi. Kelly
(1955), sottolinea invece che solo attraverso la formulazione di “costrutti
personali”, l’individuo è in grado di comprendere e interpretare la realtà,
conferendogli significato e aumentando la capacità predittiva rispetto alle future
situazioni interpersonali. In questo capitolo, vengono analizzati anche i successivi
sviluppi della teoria dei costrutti personali, che inseriscono l’influenza del
contesto sociale e culturale nella costruzione della realtà, e la Tecnica delle
Griglie di Repertorio, importante strumento d’indagine dei costrutti, messo a
punto da Kelly (1955) e successivamente ampliato da altri autori.
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Inoltre, ampio spazio viene dedicato allo sviluppo dell’approccio narrativo,
partendo dall’analisi che ne fa Smorti (1994; 2007) attraverso il concetto di
“pensiero narrativo”, e passando all’esposizione della teoria di Guidano (1991;
1996) sull’organizzazione del significato personale, e successivamente
all’approccio narrativo di Veglia (1999). Guidano sottolinea l’importanza della
logica narrativa, guidata dagli schemi emozionali, nel rendere esplicito il tacito, e
organizzando l’esperienza immediata in conoscenza e consapevolezza di sé. La
narrazione della propria storia di vita, che avviene a livello interpersonale, viene
considerata da Veglia (1999) come un mezzo essenziale per raggiungere una
“coscienza storica” su cui poggia l’identità personale, e per creare e condividere il
senso di sé e dell’esperienza personale. Un breve cenno è fatto sull’uso
dell’approccio narrativo in terapia, che attraverso l’instaurarsi di una relazione
emotivamente disponibile con il terapeuta, può offrire la possibilità di ricostruire e
riorganizzare i significati che il paziente non è stato in grado di collocare in modo
coerente in una teoria su di sé. L’organizzazione del significato personale viene
analizzata anche rispetto alla visione di Ugazio (1998), che volge lo sguardo verso
i pattern conversazionali all’interno del contesto familiare: le diverse posizioni dei
suoi membri rispetto alle “polarità semantiche familiari”, attorno alle quali
ruotano i temi significativi specifici per ogni famiglia, possono determinare le
modalità di costruzione dell’identità narrativa dell’individuo.
Il terzo capitolo è dedicato alla memoria autobiografica e agli studi che se
ne sono occupati, con particolare riferimento a quelli che considerano questo tipo
di memoria come processo fondamentale, non solo nella rievocazione di eventi
significativi per la propria storia di vita, ma soprattutto rispetto alla ricostruzione e
riorganizzazione dei ricordi in vista delle attuali conoscenze su di sé e della
necessità di mantenere un’identità personale coerente nel tempo. Oltre all’analisi
della struttura gerarchica della memoria autobiografica (Conway e Rubin, 1993),
ciò che risulta di particolare interesse in questo capitolo, rispetto alla narrazione
dell’esperienza personale, è la capacità di accedere o meno ad alcuni ricordi
autobiografici. Vengono dunque accennati gli studi sull’amnesia infantile e sul
periodo florido dei ricordi, definito di “reminescenza d’urto”, connesso con una
fase critica ed emotivamente significativa, in quanto coincidente con la
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formazione dell’identità. Infatti, a questo proposito viene esposta la connessione
tra la memoria autobiografica e il sé: Brewer (1986) sostenendo la natura
autoreferenziale di tale tipo di memoria, offre per questo argomento uno dei
maggiori contributi, insieme a Conway e Pleydell-Pearce (2000) che, attraverso
l’approccio relativo al “Self-Memory System”, sottolineano l’importanza del
working self nell’organizzare in maniera complessa i sistemi cognitivi, in modo
da integrare gli obiettivi del sé con i ricordi autobiografici. In questo quadro di
riferimento viene specificato il concetto di “self defining memories” (Singer e
Salovey, 1993), ossia quei ricordi che definiscono la struttura dell’immagine di sé,
di cui importanti indicatori sono le narrazioni sugli eventi della propria storia di
vita. Inoltre, viene specificato come la capacità di rievocare un ricordo di carattere
autobiografico, sia influenzata dagli aspetti emozionali che hanno caratterizzato
l’evento da richiamare in memoria, con attenzione particolare rispetto al grado di
intensità emotiva che accompagna il ricordo. L’ultimo paragrafo del capitolo è un
tentativo di integrare gli argomenti presi in considerazione precedentemente,
affrontando il tema dell’identità narrativa, che si prefigura come il nodo centrale
del presente lavoro di tesi: come affermano Rubin e altri (2000; 2003), il sé è
legato ai ricordi autobiografici, che si strutturano in un sistema narrativo. Il punto
di vista comune di alcuni autori, quali Ricoeur, Bruner, Smorti, Veglia, Arciero e
Guidano, si evidenzia nella considerazione che la narrazione della storia
personale, risulta essere artefice e allo stesso tempo conseguenza, della
costruzione dinamica dell’identità narrativa, intrisa di ricordi relativi al sé e agli
eventi significativi della propria vita.
Nel quarto capitolo, innanzitutto, viene descritto il notevole contributo del
pensiero di Siegel (2001), analizzando il concetto di “mente relazionale”,
derivante da una visione interdisciplinare che connette psicologia e neurobiologia:
la mente per Siegel è esperienza-dipendente, dal momento che la formazione e
organizzazione delle strutture e delle funzioni del cervello, che guidano il pensiero
e il comportamento, sono influenzate fortemente dalle esperienze, soprattutto da
quelle interpersonali. In questo quadro, le esperienze di attaccamento, espresse
attraverso una struttura narrativa più o meno coerente, ricoprono un ruolo cruciale
nel funzionamento integrato delle diverse funzioni mentali. La relazione tra
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attaccamento e narrazione diviene sempre più evidente, soprattutto
nell’esposizione del ruolo degli “script di base sicura familiare”, indagati da
Byng-Hall (1991; 1995; 1999), nel tentativo di descrivere le capacità dell’intero
contesto familiare di influenzare il grado di sicurezza di ogni suo membro e di
creare un’identità narrativa integrata e coerente.
A questo punto, nell’ultimo capitolo, vengono analizzati gli strumenti che
indagano la relazione tra narrazione, attaccamento e memoria autobiografica.
L’indagine relativa alle narrazioni delle storie di attaccamento, è originariamente,
e tuttora maggiormente effettuata, attraverso l’Adult Attachment Interview
(George, Kaplan e Main, 1985), un’intervista semi-strutturata capace di esplorare
lo stato della mente adulto rispetto all’attaccamento. Le principali caratteristiche e
il ruolo fondamentale nell’indagine clinica di tale strumento, vengono esposte con
l’intento di descrivere sia la rilevanza del ruolo della narrazione autobiografica
nell’indagine delle rappresentazioni delle esperienze di attaccamento, sia
l’influenza della qualità di tali rappresentazioni sulla relazione di attaccamento
con il proprio figlio. Inoltre, vengono brevemente esposti altri strumenti di
valutazione in questo ambito di studi, che si mostrano in grado di indagare la
relazione tra attaccamento, narrazione e memoria autobiografica. In ultima
istanza, vengono descritti i risultati di alcuni studi della letteratura più recente, che
si avvalgono degli strumenti di indagine precedentemente analizzati, e che si
mostrano come importanti contributi nell’analisi delle storie di attaccamento, e
della loro relazione con l’organizzazione della memoria autobiografica e dei
processi narrativi.
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CAPITOLO I. LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO
1.1 La nascita e i primi sviluppi della teoria dell’attaccamento
«L’attaccamento è parte integrante del comportamento umano dalla culla
alla tomba» (Bowlby, 1978).
La teoria dell'attaccamento primario all'oggetto, definita da Bowlby
(1976), nel primo volume di “Attaccamento e perdita”, nasce come una delle
teorie principali sulla natura e sull’origine del legame del bambino.
Bowlby, psicoanalista inglese nato nel 1907, seguì una formazione
prevalentemente kleiniana, fino al momento in cui, intorno agli anni '50, rimase
affascinato dai lavori di Lorenz (1949), uno dei padri fondatori dell' etologia.
Quest'ultima si va a configurare come una scienza che studia il comportamento
animale attraverso l’osservazione nell’ambiente naturale, ed è proprio grazie a
questo nuovo metodo di indagine che Lorenz dimostrò l'esistenza di
comportamenti sociali complessi in diverse specie animali. Attraverso la moderna
etologia, il comportamento animale non viene più considerato soltanto come il
risultato di meccanismi innati, ma il prodotto tra questi ultimi e i meccanismi di
apprendimento, che operano rispetto all'ambiente.
Anche Bowlby (1976), partendo dalle sue ricerche, non considera
l'impossibilità di coesistenza tra ciò che è innato e ciò che è acquisito. Ogni
organismo è dunque il prodotto dell’interazione tra il patrimonio genetico e
l’ambiente, inteso come esperienza ed apprendimento. Lo stesso Lorenz (1939),
quando definisce il concetto di imprinting, risultato di uno dei suoi esperimenti,
dimostra come i piccoli di anatroccolo che sono stati privati della figura materna,
seguono un essere umano sviluppando verso quest'ultimo un forte legame, che
non può essere semplicemente ricondotto al bisogno di nutrizione, proprio perché
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questi animali si nutrono autonomamente di insetti. Fondamentali sono stati anche
i risultati di una serie di esperimenti di Harlow (Harlow,1961; Harlow e Harlow,
1965, cit. in Bowlby, 1976), che aveva dimostrato come i piccoli di scimmia
macaco rimanevano più vicini ad una “madre fantoccio” morbida e calda, rispetto
ad una “madre fantoccio” fatta di metallo che possedeva però un biberon. Anche
qui si nota la ricerca di una figura materna che possa dare sicurezza e non solo
nutrizione. Questi esperimenti risultarono illuminanti per Bowlby, che,
prendendo in esame l'osservazione del comportamento di attaccamento negli
animali, tentò di applicarla all’uomo, cercandone somiglianze e differenze. Nel
primo volume “Attaccamento e perdita” (1976), Bowlby riporta i risultati delle
ricerche di diversi scienziati, che denotano come i comportamenti di molte specie
di animali subumani, quali gorilla, scimpanzé, babbuini, si manifestano nei
primissimi mesi, nell’aggrapparsi da parte del piccolo alla madre, e al sostenere il
piccolo non ancora abbastanza forte da parte della madre. Ciò si manifesta
soprattutto nelle situazioni considerate di pericolo, come l’avvicinamento di altri
animali o di esseri umani. Inoltre, già dalle prime settimane di vita i primati
riescono a riconoscere e a distinguere quel determinato individuo, cioè la madre.
Bowlby (1976), afferma che questi comportamenti di attaccamento si
modificano nel tempo, mostrando un’attenuazione, anche se non si estinguono del
tutto, neanche nella vita adulta. Ciò può essere dovuto sia al comportamento di
rifiuto da parte della madre quando il figlio raggiunge una certa età, sia alla
raggiunta possibilità di esplorazione del piccolo, che incuriosito dall’ambiente si
allontana progressivamente da lei.
Simili comportamenti si possono riscontrare anche nell’uomo, ma con
alcune differenze. Per esempio, il bambino impara a distinguere la madre prima di
riuscire ad aggrapparsi a lei, anche se molti altri sono i comportamenti di ricerca
della figura materna nei primi mesi, come i sorrisi o i vocalizzi rivolti verso di lei
(Bowlby, 1976). Bowlby, inoltre, afferma che il comportamento di attaccamento
lo si può riscontrare in modo peculiare nella ricerca di mantenimento di vicinanza
alla madre. A tale proposito Ainsworth (1963, 1967, cit. in Bowlby, 1976), nei
suoi studi in Uganda, tramite l’osservazione sistematica di bambini e madri della
tribù Ganda, riuscì a scoprire che già all’età di quindici settimane, il bambino
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dimostra attraverso il pianto e al tentativo di seguire la madre nel momento in cui
quest’ultima si allontana, il comportamento di attaccamento. Inoltre, Ainsworth
riferisce che, tra i sei e i nove mesi, questi comportamenti si fanno più intensi e
regolari. Ciò si verifica fino ai due anni di vita (Bowlby, 1976).
Quindi, anche il bambino evidenzia, secondo Bowlby, una spinta
motivazionale, una tendenza naturale a ricercare la presenza dell'adulto che si
prende cura di lui (Imbasciati, 2005). Questa tendenza viene definita appunto da
Bowlby “attaccamento” (1958). Il bambino è predisposto allo scambio sociale, a
instaurare relazioni in maniera particolare con una persona specifica, in grado di
offrirgli non solo le cure adeguate, ma anche protezione. Questo fenomeno,
definito da Bowlby “monotropia”, prevede dunque la tendenza del bambino ad
attaccarsi ad una particolare persona, di solito la madre, che viene definita “figura
principale di attaccamento”.
La Teoria dell'attaccamento si contrappone alle interpretazioni freudiane
del legame del bambino con la madre, secondo cui la madre è colei che può
soddisfare i bisogni primari del bambino, ossia di essere alimentati, puliti, di
scaricare le tensioni di tipo sessuale e aggressivo. Secondo Freud dunque, «il suo
sarebbe un amore fortemente interessato, l'effetto collaterale del bisogno di
eliminare le condizioni di disagio» (Attili, 2004). Ma rifacendoci ai risultati delle
ricerche di Harlow (1961) sui macachi, agli studi della Ainsworth (1963, 1967) e
alle osservazioni di Spitz (1945) sui bambini ospedalizzati o istituzionalizzati, che
presentano gravi alterazioni a livello sia fisico che psicologico, ci rendiamo conto
di quanto Bowlby (1976), fosse riuscito a comprendere e a classificare il bisogno
di contatto e di prossimità con una figura genitoriale come primario, rispetto ad
altri bisogni (Attili, 2004).
Inoltre, analizzando le osservazioni compiute dal collega Robertson
(1952), con il quale Bowlby avviò un’indagine sugli effetti dovuti alla separazione
dalla madre nei primissimi anni di vita, emerge che egli riuscì ad intuire come tali
effetti fossero disarmanti per il benessere del bambino, che manifestava disagio
anche dopo il ritorno a casa, dopo un periodo più o meno lungo di separazione e di
assistenza in ambienti ospedalieri o nidi d’infanzia, in cui il bambino non poteva
godere di un sostituto materno stabile (Bowlby, 1976).
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Il bisogno di relazione è quindi un bisogno primario, non un mezzo per il
raggiungimento di altri scopi; la relazione è essa stessa il fine (Mitchell,1988, cit.
in Lambruschi F., 2004).
È l’attaccamento, dunque, ciò che permette al bambino di legarsi alla
madre. Esso è mediato da diverse forme di comportamento, che hanno come
risultato la vicinanza alla madre. Fra queste, Bowlby (1976) distingue quelle di
“segnalazione”, fra cui il pianto, il richiamo, i vocalizzi e il sorriso, che
permettono di avvicinare la madre al bambino, e quelle di “accostamento” che si
manifestano attraverso l’aggrapparsi, la suzione non alimentare, l’accostarsi e il
seguire, che consentono al bambino di avvicinarsi alla madre.
Tali schemi, che hanno una base genetica, si sviluppano e si strutturano
attraverso un processo di apprendimento, determinato anche dalla conoscenza
delle reazioni della figura di attaccamento ai comportamenti del bambino. Bowlby
(1976), parla infatti di comportamenti “corretti secondo lo scopo”, che si
sviluppano successivamente all’esperienza e allo sviluppo di determinate capacità,
come quelle motorie, che permettono al bambino per esempio di aggrapparsi alla
madre o di seguirla. Essi hanno il compito di mantenere la vicinanza con la figura
materna, attivandone allo stesso tempo la disponibilità ad essere presente in caso
di necessità. Tali comportamenti si attivano, infatti, soprattutto nei momenti di
bisogno e di difficoltà, propendendo verso la ricerca di sicurezza di una figura
stabile.
Essi possono essere selezionati con una certa flessibilità, anche in funzione
degli atteggiamenti e del grado di responsività e sensibilità del caregiver, i quali
funzioneranno da feedback, plasmando il sistema comportamentale di
attaccamento in configurazioni specifiche e originali per ogni bambino
(Lambruschi, Lenzi, Leoni, 2004).
Nell’ammissione dell’influenza reciproca tra ambiente e natura, possiamo
quindi constatare la presenza di differenze che intercorrono nello sviluppo, a
partire dal sistema di attaccamento del bambino, rispetto alle capacità e
disponibilità dell’ambiente a rispondere alle stimolazioni stesse del bambino
(Lambruschi, Lenzi, Leoni, 2004).
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Bowlby (1989), sottolinea come un atteggiamento di tipo positivo dei
genitori, può fornire ai figli una base sicura, che sosterrà l’individuo nel corso
dell’intera vita. Infatti, è questa condizione che permette al bambino di fare
ritorno in situazioni di pericolo, fatica o malattia dopo un periodo di esplorazione
e autonomia, consentito e incoraggiato proprio da questo atteggiamento
genitoriale (Holmes, 1994). Il concetto di base sicura è un elemento portante della
teoria di Bowlby: « [..] fornire una base sicura di attaccamento significa infatti
creare le condizioni ottimali per cui, confidando su di essa, i bambini possano
distaccarsi per affacciarsi al mondo esterno, sapendo comunque di poter sempre
ritornare a quel luogo protetto dove saranno accolti e nutriti sul piano fisico ed
emotivo, confortati se sono tristi, rassicurati se sono spaventati» (Concato, 2006).
Possiamo notare, quindi, quanto sia fondamentale per il bambino,
soprattutto nei suoi primi anni di vita, la presenza di una figura adulta stabile che
si prenda cura di lui, sia sul piano fisico che sul piano affettivo.
Già precedentemente Winnicott (1965) affermava che il potenziale
ereditario di un infante non può diventare un infante senza connettersi con le cure
materne. Winnicott (2007) sostiene inoltre, che gli stadi dello sviluppo affettivo
possono cambiare da infante ad infante, o possono presentarsi diversamente nel
tempo in relazione alle cure materne. La funzione materna di holding
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è per
Winnicott una determinante fondamentale per una cura genitoriale soddisfacente.
Ed è a partire dalla considerazione del percorso che va da uno stato di dipendenza
assoluta ad uno stato di indipendenza, da parte del bambino, che Winnicott
afferma « [..] ora diffido di tutti i concetti sui meccanismi psichici precoci che non
prendono in considerazione il coinvolgimento dell'infante nel comportamento e
nell'atteggiamento della madre» (Winnicott, 2007).
Si nota quanto sia importante considerare il bambino nel suo ambiente
affettivo e di sviluppo; è solo partendo da questa capacità di analisi che si può
indagare la possibile evoluzione del bambino, che attraversa la sfera fisica, ma
soprattutto quella psicologica. È in quest'ultima che si vanno a determinare degli
sviluppi che possono essere considerati positivi, o comunque normali, nel caso di
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Termine «holding» tradotto nel testo sopra citato come «sostenere», «tenere in braccio».
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un' ambiente che favorisce la crescita (come la presenza costante di una madre
sufficientemente buona), o al contrario sviluppi negativi, patologici, nel caso di
un ambiente non supportivo o deprivante (cure inadeguate, scarse o inesistenti).
1.1.1 La separazione e la perdita
Sembra necessario, a questo punto, prendere in considerazione le
situazioni in cui il bambino non ha la possibilità di sperimentare tali esperienze,
che possono essere definite positive. Questa impossibilità potrebbe essere dovuta
a differenti fattori, quali, l'incapacità della madre di prendersi cura in modo
adeguato del figlio, la separazione della madre dal figlio per lunghi periodi, o la
perdita della madre a causa di decesso.
Tutte queste situazioni in cui un bambino può venirsi a trovare, sono state
analizzate da Bowlby nel secondo e nel terzo volume della sua trilogia
“Attaccamento e perdita”.
Nel secondo volume egli considera la separazione del bambino dalla
madre, affermando che quando l'esperienza cumulativa quotidiana giunge a
produrre, da parte del bambino, un modello interno di una figura di attaccamento,
la separazione da tale figura è fonte di dolore e la perdita può avere effetti
devastanti (Bowlby, 1978).
La separazione dalla figura materna è un evento traumatico per un
bambino. Esso ha diverse ripercussioni sulla vita dell’individuo e ciò dipende
anche da diversi fattori ambientali. « La separazione dalla figura di riferimento si
snoda, secondo le ricerche di Bowlby, in tre momenti, ossia la protesta, la
disperazione e il distacco, ma può risultare più facile viverla e superarla se vi
sono alcune circostanze favorevoli come la presenza di un fratello, la presenza di
un’altra persona che riesce a sostituire in maniera ottimale il caregiver oppure
un ambiente accogliente» (Faliva, 2011).