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INTRODUZIONE
In questa tesi si parlerà dei parallel corpus, delle raccolte di testi in lingua
originale e in lingua tradotta che vengono utilizzati dai linguisti e da altri studiosi per
analizzare sia la lingua fonte che quella ricevente. In particolare, si analizzerà il TEC,
un corpus di testi in varie lingue tradotti in inglese. Si è scelto questo argomento per il
semplice fatto che unisce due campi di studio ben precisi, la linguistica e la traduzione,
ed è quindi molto interessante vedere come questi due campi “collaborino” per costruire
dei corpus.
Il primo capitolo riguarda la traduzione. Questa disciplina è molto interessante
da studiare, soprattutto se si va a vedere la sua storia e la sua evoluzione. In questo
capitolo si è parlato proprio di questo, si è andati a vedere cosa esattamente sia la
traduzione e come viene affrontata al giorno d’oggi. Successivamente, si noterà che la
sua storia, che parte sin dai tempi di Sant’Agostino, è molto lunga e che le idee che
riguardano la traduzione sono cambiate nel corso degli anni quasi in maniera radicale.
Infatti la storia della traduzione, o meglio, della scienza della traduzione è divisa in tre
fasi, o “generazioni”, ognuna delle quali con le proprie teorie sulla traduzione.
Sicuramente quella che ci riguarda più da vicino è quella finale, ovvero quella dei
cosiddetti “translation studies”, che aprono le porte per una traduzione più “culturale” e
meno legata al testo da tradurre.
Il secondo capitolo riguarda la linguistica dei corpus. All’inizio si è cercato di
capire quale sia la natura di un corpus e le sue caratteristiche principali, tra cui l’ormai
quasi obbligatorio formato elettronico. Si analizzerà di seguito la grandezza che può
avere un corpus, e, soprattutto, le sue funzioni principali, dalle frequenze con cui una
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parola appare dentro al corpus, alle collocations e colligations di una parola. Inoltre si
cercherà di capire quando si è cominciato a parlare di linguistica dei corpus,
analizzandone la storia, partendo dall’Ottocento fino ad arrivare ai giorni nostri, quando
nascono i primi CD-ROM con i programmi per fare frequenze e i primi corpus online.
Anche per quanto riguarda la storia dei corpus abbiamo tre diverse fasi, divise in base a
quante parole e quanti testi ci potevano stare nella raccolta. Si analizzeranno poi i
diversi metodi per processare i dati e osservarli successivamente. Infine, si darà uno
sguardo ai corpus più famosi, dal Brown Corpus, il primo corpus accertato in formato
elettronico, agli importantissimi ICE e BNC, e alle loro tipologie, con particolare
attenzione sui corpora per la traduzione, i translation corpora e i parallel corpora,
oggetto della nostra analisi finale.
L’ultimo capitolo è quello riguardante l’analisi. Dopo un’introduzione
dettagliata su come i parallel corpus possono essere utilizzati nel campo della
traduzione, dalla formazione dei traduttori principianti all’addestramento degli stessi, si
inizierà a parlare del TEC corpus. Questa raccolta di testi letterari, biografie e riviste,
tradotti in lingua inglese, ci può aiutare a capire come i concetti chiave, le parole e le
tematiche tipiche di uno o più autori stranieri sono recepiti e come essi appaiono nella
traduzione. In particolare, si analizzeranno le traduzioni di due testi italiani, “Le notti
difficili” di Dino Buzzati, raccolta di racconti fantastici narrati in tono malinconico e
misterioso, e “Una peccatrice” di Giovanni Verga, romanzo che costituisce il primo
tentativo dell’autore siciliano di avvicinarsi al verismo. Di seguito, per concludere il
lavoro, si darà un breve commento sulle traduzioni analizzate grazie al corpus.
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CAPITOLO 1: LA TRADUZIONE
Questo primo capitolo, riguardante la traduzione, inizia con una piccola
introduzione sulla disciplina; nel paragrafo successivo si cercherà di dare una storia
della traduzione a partire da Cicerone e San Girolamo fino ad arrivare ai giorni nostri,
dando ampio spazio alle principali teorie della traduzione, con maggior riferimento agli
studiosi dei “Translation Studies”.
1.1 BREVI ACCENNI SULLA TRADUZIONE
Il termine “traduzione” ha di per sé diversi significati: può riferirsi alla disciplina
stessa, al processo vero e proprio di traduzione (cioè l’atto di tradurre) al prodotto di tale
processo (cioè il testo che è stato tradotto). La traduzione è, naturalmente, un processo
di riscrittura: infatti si parte da un testo originale, detto anche, in termini adatti, “source
text” (testo fonte), per arrivare al testo tradotto, o “target text” (testo di arrivo o
bersaglio). Di conseguenza, dobbiamo tenere in considerazione non solo il testo, ma
anche la lingua in cui questo testo è scritto: si passa quindi da una lingua di partenza, o
“source language”, per arrivare alla lingua di arrivo, o bersaglio, detta “target
language”. Questo tipo di traduzione corrisponde alla traduzione “interlinguistica” di
cui parlava il linguista Roman Jakobson nel suo saggio “On linguistics aspects of
translation”.
La pratica della traduzione esiste da molto tempo (come vedremo più avanti), ma lo
studio di tale disciplina è invece molto recente: i primi studi li possiamo far derivare tra
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gli anni 50 e 60 del secolo scorso. Il perché di questo ritardo nello studiare questa
interessante disciplina risiede nel fatto che è stata sempre discriminata rispetto agli altri
atti di riscrittura. Il principale motivo di discriminazione sta nell’opinione comune che
una traduzione è un testo che riproduce in maniera quasi identica un altro testo. Questo
ha portato a considerare la traduzione come non degna di essere studiata o teorizzata. La
vera svolta per l’inizio dello studio di questa disciplina avviene, come già detto, alla
metà del ventesimo secolo; questa svolta è consistita in una maggiore attenzione, da
parte dei teorici, verso lo studio della traduzione. Ma è alla fine del secolo che abbiamo
i primi veri studi autonomi sull’argomento, che hanno portato, lentamente, alla
formazione di una disciplina solida. Questi studi vengono comunemente denominati
come “Translation Studies”.
1.1.1 LO SVILUPPO DEI TRANSLATION STUDIES
Come abbiamo già detto, lo sviluppo degli studi della disciplina è stato molto
lento e molto doloroso. I primi segnali che indicavano un modo più rigoroso e
metodologico nell’affrontare la traduzione si ebbero nel secondo dopoguerra; le
impostazioni teoriche e, soprattutto, i nomi che sono stati dati a questa disciplina sono
numerosissimi: da “scienza della traduzione”, a “teoria della traduzione”, a
“traduttologia” per arrivare infine al già citato “Translation Studies”. Ogni nome riflette,
appunto, una diversa impostazione teorica verso l’argomento, e tali impostazioni
variano nella definizione della disciplina vera e propria, nella definizione dell’oggetto
disciplinare, di che cosa voglia dire tradurre un testo e soprattutto nei metodi di chi
traduce. Lo studioso norvegese Siri Nergaard, nel suo libro “Teorie contemporanee
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della traduzione” divide gli studi sulla traduzione in tre gruppi, o, come li
definisce lo studioso stesso, “generazioni”.
1.1.1.1 LA PRIMA GENERAZIONE
Per Nergaard, la prima generazione è quella che comprende gli anni 50-60 del
Novecento, quindi parliamo degli albori della cosiddetta “Scienza della Traduzione”,
ed è geograficamente collocata in Germania e negli Stati Uniti d’America. Se quella di
scienza è la prima delle tante definizioni che vengono date alla traduzione, dipende
soprattutto dal fatto che i lavori che fanno emergere il primo vero e proprio interesse per
la disciplina sono le traduzioni automatiche attraverso il computer, fatte da vari
scienziati, ingegneri e matematici. Tale atteggiamento dà appunto un impronta
scientifica a questa prima fase (cfr. Nergaard, 1995, p.5). Oltre a questo, per quanto
riguarda l’aspetto linguistico si andava sempre più affermandosi l’approccio
generativista di Chomsky, approccio che farà da modello a tutti i primi “scienziati”
della traduzione. Però, questa “scientifizzazione” della traduzione porta a giudicare
male e sottovalutare l’influenza che questa attività ha sulla lingua stessa e sulla cultura.
Tale metodologia di studio pone al centro, per Nergaard, la parola. I testi che vengono
presi in considerazione non sono testi letterari, perché al tempo si riteneva difficile, se
non impossibile, tradurre un testo letterario con tale metodo. Si trattava quindi di
considerare la traduzione come passaggio da “lingua a lingua” e non da “testo a testo”.
Si venne a creare, secondo Lefevere, una divisione netta tra una competenza per la
traduzione e una competenza per la traduzione letteraria. Queste competenze dovevano
comunque avere regole e funzioni precise, in modo da funzionare come vera e propria
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teoria su come fare una traduzione equivalente al testo fonte. Questo tipo di
metodologia è stata fortemente criticata dagli studiosi che sono venuti dopo,
principalmente muovendo due critiche: quella di essere troppo “source-oriented” ,
ovvero che la traduzione sia in funzionale solo al testo originale, e quella di formulare
delle regole troppo generali, che prescindono dalle situazioni testuali, contestuali, ma
soprattutto linguistiche. Questo approccio non è da rifiutare completamente ma,
secondo Nergaard, andrebbe ampliato, bisognerebbe “inserirlo in una visione più ampia
che tenga conto anche degli aspetti extralinguistici ed extratestuali, e semplicemente
riconosca l’aspetto linguistico come uno dei tantissimi fattori coinvolti nel processo di
traduzione”
1
.
Gli esponenti più rappresentativi di questa generazione sono: il già citato
Jakobson con il suo libro “On linguistics aspects of translation”, Catford, con “A
linguistic theory of translation” del 1965 dove si concentra su un’impostazione
linguistico-contrastiva che deriva da Firth e Halliday, e, per vari aspetti, Nida, con il suo
“Towards a science of translation” del 1964, che si muove però a cavallo tra prima e
seconda generazione.
1.1.1.2 LA SECONDA GENERAZIONE
La prima vera e propria reazione a questa concezione puramente prescrittiva e
linguista della traduzione si ha tra gli anni 70-80 del Novecento. Si comincia a parlare di
una teoria della traduzione, o traduttologia, termine coniato da Berman. In questa
nuova concezione si privilegiano, a contrario di quello che era avvenuto nella prima
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Nergaard, Siri, “Teorie Contemporanee della Traduzione”, Milano, ed. Bompiani, 2005
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generazione, i testi letterari. All’impostazione meramente scientifica adottata nella
prima generazione, si contrappongono gli studiosi di diverse teorie della traduzione,
funzionali alla comprensione del fenomeno in sé. Secondo Nergaard, “la pretesa non è
più quella di superare il problema della traduzione(riducendolo ad una serie di regole di
equivalenze), bensì di descrivere i fattori che fanno d’una traduzione una traduzione”
2
.
Si passa quindi, come diceva anche il linguista israeliano Gideon Toury, a una
concezione interlinguistica ad una intertestuale, infatti uno dei cambiamenti principali
tra prima e seconda generazione è lo studio, non più della parola, ma del testo. Per la
seconda generazione la sede principale si trova nei Paesi Bassi, con studiosi del calibro
di Holmes e Van Den Broeck, per poi espandersi, verso gli anni 80, in Francia
(soprattutto con Berman) e poi nel resto d’Europa. Holmes, nel suo saggio del 1972
“The Name and Nature of Translation Studies”, fornisce i principi che hanno fornito gli
“statuti” principali della teoria, ripresi poi anche da studiosi quali Toury e Lefevere. Si
tratta di principi riguardanti la non-source-orientedness, quindi la traduzione non più in
funzione solo del testo originale, ma anche al testo di arrivo, e la non-normatività della
traduzione. Per quanto riguarda invece la rivoluzione cosiddetta “testuale”, è giusto
ricordare Katharina Reiss, e la sua divisione dei testi in quattro tipi( informativo,
espressivo, operativo e auto mediale), Hans J. Vermeer e la sua Skopos Theory (metodi
traduttivi influenzati e determinati dallo scopo del lavoro) del 1984, e la teoria poli-
sistemica di Itamar Even-Zohar.
2
Nergaard, Siri, “Teorie Contemporanee della Traduzione”, Milano, ed. Bompiani, 2005
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1.1.1.3 LA TERZA GENERAZIONE
L’ultima generazione degli studi sulla traduzione descritta da Nergaard ha inizio
alla fine degli anni 80 e che arriva fino ai giorni nostri. Questo viene confermato dai
numerosi studiosi del periodo, quali il già citato Andrè Lefevere e l’inglese Susan
Bassnett, e soprattutto dalla nascita dei numerosi corsi universitari di translation studies
e di varie pubblicazioni e studi sull’argomento. Il primo cambiamento varia nella
denominazione della disciplina: “Translation Studies” significa che la disciplina non è
più né una scienza, né una teoria, bensì un campo di studio. Il cambiamento più
importante però avviene nello studio stesso: ora si studia la traduzione come atto di
comunicazione tra diverse culture. Questo non è un problema nuovo in questo mondo:
anche lo studioso della prima generazione Nida aveva detto che la differenza tra culture
è un aspetto importante che può causare diversi problemi al traduttore. Oggi, si
preferisce parlare di traduzione come interscambio tra culture, e si può tranquillamente
dire che è avvenuto un vero e proprio “cultural turn”
3
. Tra gli studiosi più importanti
di questa generazione abbiamo i decostruzionisti come Derrida, e studiosi come
Lawrence Venuti e Mary Snell-Hornby, oltre alla già citata Bassnett. Infine è importante
ricordare che mai come nell’ultimo decennio si parla di traduzione interculturale,
soprattutto grazie a uno spostamento geografico: infatti sempre più studiosi di
traduzione provengono da paesi non-occidentali e postcoloniali, e tali studiosi hanno
introdotto nello studio della disciplina problematiche fino a quel momento non toccate.
Tra questi studiosi vale ricordare gli indiani Spivak e Niranjana.
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Nergaard, Siri, “Teorie Contemporanee della Traduzione”, Milano, ed. Bompiani, 2005