Il concetto di malattia.
Introduzione.
“La Malattia può essere considerata come la compromissione dello stato
normale dell’organismo, inteso come sistema biologico in equilibrio dinamico.
[…]. Lo stato di malattia può essere causato da alterazioni primitive di organi
primitivi od apparati o dall’interazione dell’organismo con l’ambiente […].”
1
.
Questo è un’esempio di definizione generale che si può incontrare della malattia,
aprendo una qualsiasi enciclopedia o libro di scienze. Ma sarebbe quanto meno
riduttivo cercare di ricondurre a poche righe, tratte da una fredda enciclopedia,
un concetto che tanto significa nella nostra dimensione culturale e sociale, e
definire con queste parole concetti quali “valore medio della funzione organica”
e “sofferenza”, sui quali tanto hanno discusso per decenni studiosi, medici e
biologi.
Se nel nostro immaginario la malattia viene associata con la sofferenza e
l’incapacità ad assolvere i propri compiti, bisogna pure ricordarsi che tale
immaginario tende a dimostrarsi assai plastico, soggetto alle percezioni che ci
vengono imposte, sia dall’ambiente, che dalla cultura imperante nella nostra
1
Voce tratta da Enciclopedia di Repubblica, volume 13, UTET, edizioni Torino SpA, Moncaglieri, 2003 pag. 64
3
società, variabile non solo a seconda del sostrato di credenze del singolo, ma
anche dell’idea che abbiamo della nostra capacità di reagire
2
. Sino a poco tempo
fa si moriva facilmente di febbre, ma ora, se non sono presenti ulteriori sintomi,
chi mai si preoccuperebbe per una banale influenza?
La malattia, la sofferenza ed il dolore sono sempre stati compagni della
nostra esistenza, dunque non stupisce che nel corso dei secoli sia stato presente
un profondo interesse nei riguardi di un argomento così complesso, e che con il
passare del tempo, l’analisi si sia complicata ed evoluta. La malattia ha perso la
sua dimensione soprannaturale e divina, per scendere al livello più terreno delle
analisi biologiche e fisiologiche. Il “monstrum”, il prodigio, ora rappresenta solo
ciò che non rientra nel nostro canone, nella nostra visione statica del mondo,
anche quando non è altro che una variazione dalla norma minima, ma enfatizzata
dal contesto. Nelle lingue latine, addirittura, la parola ha perso il significato di
“prodigio”, la variazione che può avere anche un senso positivo, o darwiniano
del termine, per limitarsi a quello di “deformazione”, “aberrazione naturale”
3
.
La prima visione di malattia apertamente slegata da una visione divina e
provvidenziale della nostra esistenza appartiene probabilmente al darwinismo,
ed al concetto di lotta per la sopravvivenza. Anche senza le conoscenze, ora di
dominio pubblico, su virus ed infezioni, esso per la prima volta esclude una
visione finalistica (punizione od ordalia) dalla malattia, chiamando in causa il
concetto di casualità ed incidente, e la necessità dei viventi di fronteggiare e non
2
Questa idea, come vedremo in seguito, non è stat mutuata solo da Canguilhem attraverso le teorie di Goldstein, ma era
già stata in parte accettata da biologi come Mayr, seppure in maniera più consona alle scienze biologiche, che da un
punto di vista umanistico.
3
Come indica Foucault stesso, nel suo libro Gli Anormali, Feltrinelli Editore, Milano, 1999 specie nelle prime lezioni.
Il mostro è colui che non rispetta nel suo comportamento i valori della società in cui è inserito, e viene visto come
depravato, e non sempre capace di reinserimento o recupero. Ovviamente, vi è anche una critica a quella tendenza della
società a condannare spesso, e senz’appello, quegli individui che semplicemente disturbano l’idea di perfezione,
senz’altra colpa che il non essere perfetti secondo i canoni vigenti.
4
più accettare passivamente la sofferenza derivante dalla malattia. L’individuo ha
ora una nuova responsabilità rispetto all’ambiente che lo circonda e verso sé
stesso, non essendoci più un Dio, od un Demiurgo, che provveda ad elargirgli
doni o punizioni, diventando quindi artefice del proprio destino in rapporto agli
altri membri della sua stessa razza, ed anche dell’ambiente circostante.
Eppure, anche rinunciando alla visione teologica della malattia, per molto
tempo i filosofi e gli scienziati non sono stati in grado di affrancarsi dalla visione
finalistica della nostra sofferenza (il darwinismo stesso considera la malattia
come la falce che strappa le radici più deboli, permettendo la sopravvivenza del
più adatto
4
). Ed è dalla ricerca delle cause che portano il corpo ad essere malato
che si sviluppa la tendenza a ridefinire l’organismo in rapporto alla sua
interazione con l’ ambiente, e che nasce la medicina come la conosciamo noi.
“È dunque innanzitutto perché gli uomini si sentono malati che vi è una
medicina. Ed è solo secondariamente, poiché vi è una medicina, che gli uomini
sanno in cosa sono malati”
5
.
Queste parole di Georges Canguilhem, filosofo della scienza francese, ci
danno la dimensione del nuovo rapporto che si viene ad instaurare tra il medico
ed il paziente. Ma dal nuovo rapporto, nasce anche una profonda problematica,
che sarà il punto focale, attorno al quale si svilupperà la presente tesi: a chi
spetta l’ultima parola sul significato e sulla natura del dolore e della malattia? Al
medico, che conosce il nostro corpo in maniera minuziosa, ma ignora la
percezione che è propria di ogni vivente, od al paziente, che è conscio della
4
Seppure non vi veda nessuna finalità, quanto più un semplice rapporto di causa ed effetto. La natura secondo Darwin
migliora sì sé stessa, ma in modo automatico ed impersonale, slegata da una qualsiasi visione finalistica nel suo operare.
5
Vedasi il libro Il Normale ed il Patologico, p. 191, Einaudi, Torino, 1998.
5
propria sofferenza, ma non sempre è in grado di analizzarne le cause e le
conseguenze, senza cadere nell’emotività?
Prima che Kurt Goldstein pubblicasse il suo opus fondamentale Der Aufbau
des Organismus, non vi era chi avesse affrontato in maniera approfondita
l’argomento dell’interazione tra l’organismo ed il suo milieu (il sistema di valori
e fattori incidentali in cui egli si muove, non limitato all’ambiente solo fisico, ma
anche a quello sociale e psicologico), né che avesse considerato le ricadute
psicologiche che questo raffronto potesse avere. La concezione che prevaleva
fino a quel momento, poi criticata fortemente da Canguilhem, presentava
l’organismo come soggetto a regole generali a lui trascendenti, ed a cui esso non
poteva che sottostare passivamente, sperando nella buona sorte e nella
Provvidenza
6
. La malattia non era mancanza di responsiveness all’ambiente,
ovvero la nostra incapacità di reagire agli stimoli propostici dal milieu, ma la
deviazione da una norma che è insita in ciascuno di noi e che determina il
concetto stesso di vivente. Contravvenire in maniera più o meno volontaria a tale
norma, questo era il fattore scatenante della malattia.
La medicina era vista come una scienza complementare alla natura, che
doveva restituirci quella che i medici consideravano i valori funzionali medi più
adatti alla nostra razza, e salvarci di conseguenza dalla malattia e dall’estinzione.
Passando dalla matematizzazione dei fluidi di Brown, che credeva bastasse
un’accurata misurazione delle variabili nel nostro organismo per riportarci alla
dimensione della salute, alle tesi di Comte e Bernard che, seppure in maniera
differente attribuivano ad eccessi nelle sollecitazioni cui era soggetto il nostro
6
Anche Darwin affidava l’oergansmo alla sorte, non riconoscendogli altro che la fortuna di trovarsi al posto giusto,al
momento giusto per sopravvivere alle insidie dell’ambiente. L’unica eccezione è l’uomo, dotato di volontà, che però è a
sua volta semplice espressione più complessa della nostra natura animale.
6
corpo nel corso della vita, il compito fondamentale del medico era, se così si può
dire, restituire l’essenza all’organismo.
In fine, secondo la prospettiva naturalista, ogni tratto umano, sia esso un
carattere fisico, oppure comportamentale, quasi sicuramente è determinato in noi
dalla fisica o dalla genetica. Questa è una teoria che ha preso molto piede
nell’ultimo periodo, come dimostra la ricerca sul DNA e la sua mappatura,
completata in questi anni dagli esperti: si è trovato un gene per ogni bisogno, per
ogni elemento caratteriale e psicologico dell’uomo, anche quelli che,
normalmente, reputavamo tratti concernenti quello che noi consideriamo la
nostra dimensione propria, slegata da meccaniche prettamente fisiche, ovvero
ciò che noi ancora percepivamo come qualcosa di trascendente le normali leggi
di causa ed effetto che sottendono il nostro vivere. Sebbene si ammetta che
l'ambiente possa avere una certa influenza sulle caratteristiche dell'individuo
adulto, queste sono viste come del tutto superficiali rispetto al peso del
programma genetico, ed ad ogni modo esse muovono sempre nell' ambito della
variabilità già prevista da quest' ultimo.
Il naturalismo così facendo appiattisce qualsiasi forma di cultura e di
apprendimento all'esito di un processo "naturale" ovvero, come viene definito
nel vocabolario contemporaneo, "genetico", ovvero ancora, "predeterminato" e
"immutabile". Partendo da questa teoria, gli scienziati tendono a ricondurre
qualsiasi aspetto della natura umana (dalla forma del naso alle idee politiche,
dalla propensione alle spese pazze alla quantità di emoglobina nel sangue) alla
sua determinazione genetica, ed a vedere il corso della nostra natura come un
qualcosa di già determinato, in ogni suo aspetto, dalle leggi dell’ereditarietà,
svincolato da qualsiasi norma esterna, sia essa derivante dall’ambiente fisico,
7
come da quello culturale (quest’ultimo, come appena detto, anch’esso derivato
dal nostro patrimonio genetico).
In tutt’altra dimensione si muove invece il culturalismo, forse meno diffuso
del naturalismo, il quale considera la cultura come qualcosa di completamente
sganciato dalla "natura" umana, intesa come insieme di vincoli biologici, e
perciò tenta di ridurre il nostro orizzonte a quello della cultura in cui ci
muoviamo, escludendo una qualsiasi azione dell’ambiente sul nostro destino. In
questo modo, però, il culturalista perde di vista ciò che è considerato il tratto
comune di ogni specie, ovverosia l'appartenenza, appunto, a una specifica
configurazione biologica, dotata di specifici vincoli e di altrettanto specifiche
potenzialità. È la nostra conformazione biologica, pur se influenzata in parte
dalle nostre capacità e risorse (sapere trovare ripari e rimedi contro le avversità
che incontriamo nel corso della vita), quella che ci dà la base per reagire ed
sopravvivere agli attacchi esterni dell’ ambiente.
Questo dualismo fra biologia e cultura, che ancora condiziona il nostro
modo di pensare, è abbastanza tipico della civiltà occidentale: molte altre culture
non occidentali infatti non considerano vi sia antitesi tra la nostra dimensione
biologica e l’ambiente socio culturale in cui noi ci muoviamo, anzi molte
sottolineano la costante dialettica fra i due elementi
7
. Inoltre, anche
nell’ambiente culturale occidentale, ormai diverse correnti critiche e filosofiche
hanno messo in discussione e, almeno a parole, superato l'opposizione tra i due
concetti tanto che per molti, specialmente tra gli strati più acculturati della
popolazione, tale problema ha finito per essere accantonato.
7
Consultare a tale proposito quanto scritto in Dispense del modulo di Antropologia per il corso di Scienze Umane,
Guerci Antonio, Consigliere Stefania, 2004.
.
8
La teoria culturale nasce per fronteggiare quello che viene definito
l’appiattimento della cultura sulla natura, implicitamente sottoscritto dalla teoria
medico-ecologica, che riconduce la malattia esclusivamente ad uno stato di
disequilibrio tra le possibilità della popolazione e gli elementi proposti
dall’ambiente, che “reagirebbe” ricreando ogni volta situazioni differenti, a
seconda delle infinite variabili che vengono modificate ad ogni azione di una
data popolazione, ed al mancato adeguamento a questo nuovo ambiente, e la
scarsità di risorse derivante dalla sovrappopolazione, sarebbe la causa principale
del malessere di una data popolazione, incapace così di sopperire ai bisogni
fondamentali dei suoi individui. Interessante la proposta di Kleinmann che, tra
l’anno 1980 e 1995, ha proposto una differente interpretazione della malattia,
vista fino a quel momento come un carattere generale, un avvenimento oggettivo
del mondo fisico, con regole proprie ed immutabili: non più fattore biologico
come finora si era creduto, ma un modello esplicativo che, attraverso precise
interazioni culturali e sociali, riunisce fenomeni disparati (i sintomi) e li
riconduce tutti ad un medesimo nome, che sarà quello indicante la malattia data.
Secondo questo quadro concettuale, la malattia è conoscibile, tanto dal paziente
quanto dal medico, soltanto attraverso una serie d’azioni interpretative che
presuppongono modi particolari d’interazione fra biologia, pratiche sociali e
sistemi culturali di significazione.
Volendo rifiutare la malattia come dipendente dal mondo che ci circonda,
slegata dalla biologia che è la nostra base, la teoria culturale rende ragione, ad
esempio, delle differenze concettuali che separano la visione dell’anatomia
propria della biomedicina occidentale, da quella sviluppata dalla medicina
cinese, della varietà di diagnosi presenti nelle diverse culture mediche
9
tradizionali e delle interazioni fra la costruzione nosologica medico-
professionale, la valutazione del paziente, e il vissuto individuale e di gruppo
della malattia: in questa prospettiva s’inserisce la separazione concettuale,
operata dall’antropologia medica anglosassone, fra "disease", "illness" e
"sickness".
“A differenza di quanto accade nelle lingue neolatine, nel vocabolario inglese
sono presenti tre termini diversi per designare la malattia, di cui l'antropologia
medica anglosassone ha specificato in modo univoco la semantica. Disease
indica la malattia in quanto sindrome individuata da un insieme di tecniche e
definita entro un vocabolario specialistico: la disease ha sempre a che fare con
un sistema d’astrazioni, e in altre parole con una casistica e con
un'interpretazione. Illness designa la malattia per come questa è presente nella
coscienza individuale: è il male che ho addosso, quello che mi sento, il dolore
che provo o il disagio che mi condiziona. Sickness, infine, è la malattia di un
membro della società nella misura in cui è percepita e presa in carico dalla
comunità, dall'ambiente sociale del malato.
È bene precisare che queste tre diverse declinazioni di malattia sono sempre
compresenti entro qualsiasi patologia ed entro qualunque cultura: non sono,
infatti, forme diverse di malattia, ma punti di vista differenti per interpretare il
fenomeno patologico. La disease, la descrizione medica, non è propria solo della
medicina occidentale: tutti i sistemi terapeutici hanno, infatti, sviluppato le loro
nosografie e nosologie, talvolta anche assai raffinate (si vedano, ad esempio, i
casi dell'Ayurveda indiano e della medicina tradizionale cinese).”
8
Nell’ampia area delle scienze umane e delle scienze della vita si tende a fare
una certa confusione tra ciò che noi chiamiamo il valore statisticamente normale
e ciò che definiamo il valore "non patologico" della vita; od ancora meglio, si
può affermare che i due concetti, seppure tanto differenti tra loro sotto ogni
punto di vista, siano spesso visti da noi come corrispondenti.
8
Dispense del modulo di Antropologia per il corso di Scienze Umane, Guerci Antonio, Consigliere Stefania, 2004.
10
È questo il punto di partenza delle analisi di Comte, il quale, elevando ad
assioma il postulato di Broussais, che afferma che un’ipotetica normalità
statistica viene a coincidere con la salute, allo stesso modo in cui saranno
reputati patologici, o in ogni caso anormali, e quindi preoccupanti e
potenzialmente pericolosi, tutti quei valori che dovessero ricadere al di fuori
delle prime due deviazioni standard. Il nostro stato di malattia dunque
corrisponde al semplice eccesso o difetto di sollecitazione dei nostri tessuti e
delle nostre facoltà psicologiche.
Riportare l’organismo ancora una volta all’interno di questi valori, tramite
opportuni aggiustamenti dei suoi ritmi biologici, sarà dunque il compito della
scienza medica, e l’adattarsi alle frequenze dei caratteri fenotipici della specie l’
obbiettivo da raggiungere al fine di riottenere lo stato di salute ottimale.
La ricerca della salute è così ridotta alla riconduzione dei parametri
fisiologici entro una consolante parentesi di valori statistici, circoscritta dalle due
canoniche deviazioni standard competenti ad ogni razza. È chiaro come tal
espressione sia un’equivalenza semantica quanto mai ingiustificata: cosa è che ci
può in fondo assicurare che quello che noi chiamiamo un valore normale sia
anche un valore sano, e, soprattutto, che un valore che non cada entro le prime
due deviazioni standard sia patologico?
Chi ha il potere oltretutto di determinare queste ipotetiche deviazioni,
considerando le infinite variabili che concorrono a fare della media un concetto
assai astratto? Potrebbero darsi infiniti casi in cui la deviazione di un singolo
individuo non rispecchi assolutamente quella che sia considerata la deviazione
media della popolazione; o casi in cui i valori cosiddetti "normali" di
popolazioni differenti siano totalmente differenti l’uno dall’altro, ma entrambe le
11
popolazioni vivano una vita perfettamente sana secondo i parametri
dell’ambiente naturale in cui esse si muovono
9
.
D’altra parte anche un’analisi attenta della statistica, proprio dal punto di
vista prettamente matematico, ci sconsiglia di cercare una normatività tanto
stretta nel vivente: proprio per motivi di distribuzione statistica, infatti, la corsa
alla normalità e al rientro nella normalità dei parametri che n’esulano può aver
fine solo quando tutta la popolazione presenta, per quel carattere, un solo valore.
Proprio qui sta lo snodo semantico nascosto. La normalità riguarda
esclusivamente la frequenza: i valori che cadono entro le prime due (o tre)
deviazioni standard sono detti normali perché quello è il loro nome statistico, e
non certo perché gli altri valori (quelli che stanno oltre le prime due – o tre –
deviazioni standard) siano anormali. Ma a forza di usare una parola tecnica in
contesti ambigui, i valori normali tendono a diventare norma, ad avere in altre
parole valore normativo: ciò che non cade entro le prime due deviazioni standard
diventa un’anomalia.
10
Un’ipotesi questa che sarebbe quantomeno
agghiacciante, dal punto di vista evolutivo come, almeno secondo la visione
sociologica darwinista di Spencer, anche da quello delle ricadute sulla società
stessa. Senza contare che, come insegnano Darwin e tutti gli altri evoluzionisti,
la nostra capacità di sopravvivere come specie dipende dalla nostra possibilità di
coprire l’intero fronte delle variazioni possibili, in maniera che almeno parte
della popolazione, in ogni momento, sia in grado di sopravvivere ai pericoli e
mutazioni improvvise dell’ambiente. Ricondurre tutti gli organismi di una data
specie all’interno di una deviazione minima da questa ipotetica media,
9
Questo, in fondo, è quanto afferma Darwin ne L’Origine della Specie, ovvero che un qualsiasi individuo, anche
diverso possa essere in grado di sopravvivere se la differenza non produce eccessivo contrasto con il suo ambiente. Alla
lunga, anzi, il carattere del singolo, trasmesso di generazione in generazione, potrebbe addirittura diventare quello
dominante. Il problema è rappresentato, come già detto, dall’automatismo di tale processo, che niente ha a che vedere
con la volontà e la capacità d’interazione del singolo.
10
Dispense del modulo di Antropologia per il corso di Scienze Umane Guerci Antonio, Consigliere Stefania, 2004.
12
significherebbe ridurre le possibilità di sopravvivenza della specie stessa e la
perdita di quei caratteri particolari emergenti nei singoli individui; la scienza
dovrebbe piuttosto sfruttare le possibili variazioni per studiarle e interpretarle al
fine di potere migliorare la condizione umana. Lo stesso Gould c’insegna, nel
suo libro I fossili di Leonardo ed il Pony di Sofia come pure la regressione del
carattere non necessariamente porti ad uno stallo evolutivo, o ad una catastrofe
individuale, ma possa bene essere il punto di partenza per una differente linea
evolutiva, forse meno complessa della precedente, ma altrettanto funzionale nel
suo sistema ambientale (si veda a proposito il suo articolo sulla famiglia dei
rizocefali).
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È a questo punto che si apre anche la ricerca del valore “normale”, in altre
parole di un’ipotetica soglia di sicurezza, entro la quale la causa della malattia
non abbia alcun effetto su di noi, come nostro scopo principale nella ricerca
della salute: nell’immaginario dell’Occidente contemporaneo, luccicante di
ricchezza e benessere, non vi dev’essere posto per la sofferenza e l’infelicità,
quale che sia la forma che essa decide d’assumere. La ricerca della felicità ormai
si è ridotta al mito di un corpo eternamente giovane, bello ed in salute, definita
appunto come adeguamento a parametri fissi. Ma questa idea che la salute possa
essere solo un conglomerato di dati statistici, che solo gli specialisti possono
individuare, non è opera solo dei medici, e discende in primo luogo da un
generale ristagno nella percezione che ha la gente della malattia e su cosa
davvero sia la salute, in quale relazione si trovi col benessere e le malattie, con
l’ambiente biotico e la società, con la situazione lavorativa, domestica,
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Vedasi l’articolo a p. 358 del libro I fossili di Leonardo ed il Pony di Sofia, il Saggiatore S.p.A., Milano, 2004, in cui
Gould analizza il regresso genetico della famiglia dei rizocefali, che, perdendo le qualità proprie dei crostacei loro
simili, quali i granchi, si siano perfettamente riadattati per diventare parassiti che attaccano i loro antichi parenti.
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