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Capitolo I: la visione del Nord e del Polo nel tempo
1.1 I miti antichi e medievali
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Il concetto di Settentrione nell’antichità e nel Medioevo va riferito principalmente
alla sfera antropologica più che a quella geografica: infatti, esso non è inteso come
nozione stabile, ma come qualcosa di fluttuante, che si allarga nell’Antichità e si
restringe nel corso dell’Alto Medioevo, per poi tornare a dilatarsi nuovamente nei
secoli successivi.
Concetti come oscurità, gelo, tenebrosità, barbarie, bellicosità e tutto ciò che ri-
guarda usi, costumi e stili di vita veri o fittizi delle popolazioni servono in sostan-
za a distinguere il Nord dalle altre parti dell’Eurasia. Settentrione in sostanza è
quanto si differenzia, opponendosi, al mondo circum-mediterraneo: opposizione,
tuttavia, che non si giustifica semplicemente con la mancanza di una facilmente
percorribile via di comunicazione, sia marittima che terrestre, tra Nord e Sud; ma
anche e soprattutto dalla mancanza di una continuità sul piano culturale: la Scizia,
tanto per fare un esempio, era relativamente vicina alle terre “civilizzate”
dell’Europa Meridionale, ma la sua totale diversità etnica e climatica la faceva ap-
parire come parte di un alter orbis.
Il primo tentativo, di cui si hanno notizie, di stabilire un collegamento ma-
rittimo tra Mediterraneo e i mari del Nord non portò ad alcun risultato concreto, se
non alla constatazione che la penetrazione nell’Atlantico Settentrionale e nel Mar
Baltico era ostacolata da una natura assai ostile. Pitea, eminente cittadino della co-
lonia greco-focese di Massalia (odierna Marsiglia), nonché geografo e commer-
ciante, fu incaricato, tra il 340 e il 325 a.C., dalla sua città di compiere un viaggio
al di là delle famigerate colonne d’Ercole con l’obiettivo di aprire una via com-
merciale con i paesi del nord, con interessi soprattutto per il traffico dell’ambra e
dello stagno: quest’ultimo, prestando fede a una testimonianza di Plinio il Vec-
chio, pare sia stato importato per la prima volta da un tale chiamato Midacrito,
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Per la compilazione di questo paragrafo ci siamo valsi in particolar modo del saggio di L. DE
ANNA, Il mito del Nord. Tradizioni classiche e medievali, Napoli, Liguori, 1994.
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probabilmente direttamente dall’isola che lo produceva, cioè dalla Gran Bretagna
o dalla Cornovaglia
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.
Pitea superò le colonne d’Ercole, eludendo la sorveglianza dei Cartaginesi,
che si opponevano all’espansione delle colonie greche nel Mediterraneo, lambì le
coste spagnole e francesi per poi entrare nel canale della Manica; da qui proba-
bilmente risalì lungo i litorali dell’Inghilterra Orientale sino alle Orcadi. A quel
punto il navigatore marsigliese ebbe contatti con i nativi, i quali lo informarono
che, ad appena sei giorni di navigazione, verso nord, erano presenti terre ancora
inesplorate, ma che il mare diventava assai insidioso, a causa dei pericolosi ghiac-
ci che si formavano e per le fittissime nebbie; nonostante ciò, Pitea lasciò le Orca-
di e puntò verso nord, sino a raggiungere una terra misteriosa, che egli definisce
Tule
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, destinata ad entrare nel mito. Strabone (Geografia, IV, 5, 5), riprendendo le
osservazioni di Pitea, la descrive come un’isola senza sole e piogge, la cui popo-
lazione si nutre di radici, erbe e miele, perché il terreno non era fertile; il poco
grano che si raccoglieva veniva trebbiato in grandi granai. Sia per Plinio
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, che per
Virgilio
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, Tule è la terra ultima, entrando così nella storia e nella poesia dei secoli
successivi come simbolo del mitico ed irraggiungibile confine nordico del mondo.
Pitea scrisse peraltro un libro (Intorno all’Oceano) sul suo viaggio che
purtroppo andò perduto, molto probabilmente nel rogo della biblioteca di Ales-
sandria nel III secolo a.C. L’opera però venne letta dai suoi contemporanei, tra cui
Eratostene ed Ipparco, grazie ai quali l’impresa del marsigliese non cadde nel di-
menticatoio. Da questi autori possiamo così sapere che già Pitea probabilmente fu
in grado di osservare il periodo di sei mesi di luce e di buio caratteristico delle zo-
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“Plumbum ex Cassiteride insula primus adportavit Midacritus” (G. PLINIUS SECUNDUS, Naturalis
Historia, VII, 197).
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Sull’identificazione di Tule (Thule o Tyle) esistono varie teorie: l’ipotesi più accreditata è che si
tratti dell’arcipelago delle isole Shetland, a Nord-Est delle Orcadi, anche se da quest’ultime sono
ben più vicine di sei giorni di navigazione. Altri sostengono che Pitea abbia proseguito ad est sino
a raggiungere la Norvegia meridionale o lo Jutland danese, anche se in nessuno di questi luoghi vi
sono “giorni lunghi sei mesi”.
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“…ultima omnium memorantur Tyle…” “… a Tyle unius diei navigazione mare concretum a non-
nullis Cronium appellatur.” (ibidem , IV, 104). Da notare che Cronio è citato anche da Plutarco ne
Il volto della luna.
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Nel primo libro delle Georgiche, dopo la dedica a Mecenate, Virgilio invoca Augusto, affinché gli
conceda l’obbedienza universale (“…tibi serviat Ultima Thyle…”).
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ne polari
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e fu un vero e proprio precursore di importanti osservazioni astronomi-
che
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.
Nondimeno, il viaggio di Pitea divenne però anche oggetto di scetticismo,
se non di aperta ironia da parte di geografi e astronomi dell’Antichità, su tutti lo
stesso Strabone, che definisce il marsigliese, in più di un’occasione, un efferato
bugiardo.
La via marittima verso il nord divenne così, anche a causa delle oggettive
limitazioni tecniche nel campo delle costruzioni navali per quanto riguarda
l’adattabilità a un mare con caratteristiche differenti rispetto al Mediterraneo, di
scarsa utilità, se si pensa che sino al basso Medioevo la marineria mediterranea re-
sterà esclusa dal Baltico. In seguito però si crearono anche problemi di ordine po-
litico-commerciale, considerando che le vie commerciali del Nord Atlantico rima-
nevano sotto l’egida dei potenti locali, in primis della lega Anseatica, che ne ge-
stiva gelosamente i profitti.
Neppure la via di terra era esente da difficoltà ed ostacoli: in epoca antica
l’intralcio era costituito dalle feroci popolazioni che vivevano oltre il limes, non-
ché dalla presenza di numerose ed impenetrabili foreste (una su tutte la Foresta
Nera); mentre nei secoli successivi, nonostante si fossero aperte agevoli vie di
comunicazioni grazie ai pellegrini e mercanti (anche se era maggiormente percor-
sa una direzione nord-sud e non viceversa, se si pensa ai centri di attrazione reli-
giosa come Roma o la Terrasanta), rimaneva insormontabile il problema
dell’ostilità delle potenze locali, come prima accennato per le vie marittime, nei
confronti della penetrazione nei propri territori di elementi stranieri.
Questa bellicosità ed ostilità innate furono giustificate nel corso di tutta
l’Antichità e del Medioevo dalla cosiddetta teoria geoclimatica: l’uomo del Nord,
poiché è costretto a vivere in un clima rigido e in un territorio ostile, ne riflette le
caratteristiche nel suo stesso comportamento. Il padre di questa teoria è considera-
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“[…] solstiti diebus accedente sole propius verticem mundi angusto lucis ambitu subiecta terrae
continuos dies habere senis mensibus noctesque e diverso ad brunam remoto quod fieri in insula
Thyle Pytheas Massiliensis scribit, sex dierum in septrentionem a Britannia distante […]” (Ivi, II,
186-187).
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Si possiedono prove del fatto che Pitea avesse già individuato il polo celeste, la latitudine di
Marsiglia, la misura dell’inclinazione dell’eclittica e il ciclo delle maree dovuto all’influenza della
luna.
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to Ippocrate di Cos, uno dei più grandi studiosi dell’Antichità: nel trattato Arie
acque luoghi, databile attorno al 430 a.C., la mitezza e la bontà di carattere del
mondo mediterraneo sono messi in relazione con un clima temperato, asserendo
così, su base “scientifica”, la superiorità della civiltà europea su quelle popolazio-
ni che vivevano all’esterno della fascia circum-mediterranea.
Addirittura Aristotele, basandosi sulla suddivisione della Terra, sostenuta
da Parmenide di Elea, in cinque fasce o climi, affermò che nell’emisfero setten-
trionale la parte abitabile era limitata alla zona temperata e che, al di là di questa,
non era possibile vivere o, almeno, chi mai vi riuscisse ad abitare, non poteva ap-
partenere ad una umanità “normale”. E’ questo il caso degli Iperborei, popolo mi-
tico “al di là del vento del nord”, dei quali abbiamo un’infinità di riferimenti in
tutta la storia letteraria e scientifica antica: la prima testimonianza risale, proba-
bilmente, ad Ecateo di Mileto, il quale li situa all’estremo nord della Terra, tra
l’Oceano e i monti Rifei. Erodoto, nel IV libro delle Historie, li descrive come un
popolo pacifico e mite, citandoli in relazione agli Sciti e dunque in un ambito ge-
ografico nord-orientale. Gli Iperborei vengono invece collocati nell’Europa occi-
dentale da Ecateo di Abdera (IV-III sec. a.C.), nella sua opera Sugli Iperborei,
della quale ci sono giunti pochi frammenti, descrivendoli con caratteristiche cultu-
rali molto simili ai Celti continentali: Ecateo afferma che nelle terre antistanti la
regione celtica nell’Oceano settentrionale vi era un’isola non più piccola della Si-
cilia, abitata da una popolazione definita Iperbo-rei, che venerava soprattutto A-
pollo, poiché su quest’isola era nata la madre Latona.
Virgilio
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e Plinio il Vecchio, con la sua ricchissima testimonianza
9
, pon-
gono l’accento sull’aspetto gelido e caliginoso del mondo degli Iperborei e quindi
del Settentrione in generale, interesse questo da interpretarsi in base al successo
della teoria geoclimatica: anche quando non viene chiaramente espressa, la rela-
zione sviluppatasi tra rigore del clima e indole dei Nordici appare sempre eviden-
te. Spesso, infatti, si descrive la natura dei luoghi passando poi ex abrupto ad e-
lencare gli aspetti più rilevanti del carattere degli abitanti.
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“ Talis Hyperboreo septem subiecta trioni/gens effrena virum Rhiphaeo tunditur euro/et pecu-
dum fulvis velatur corpora saetis”, Georgiche, III, 381-383.
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Naturalis Historia, IV, 88-91.
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Tuttavia quella degli Iperborei appare come una felice eccezione alla teoria
geoclimatica, poiché essi sono miti, felici nella loro semplicità di vita e godono di
una notevole longevità: secondo Pomponio Mela
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la loro terra, venendo favorita
da un periodo ininterrotto di giorno continuo della durata di sei mesi, è partico-
larmente fertile. A ragione Plinio parla di essi come gens felix, dato che vivono in
una “regio aprica, felici temperie, omni adflatu noxio carens”, in quelle lontane
spiagge “discordia ignota et aegritudo omnis”
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.
Questa curiosità degli auctores per gli Iperborei è anche figlia dell’eco del-
la nostalgia che, a partire dall’età imperiale romana, andava nascendo per la miti-
ca e perduta età dell’oro, a causa della involuzione autoritaria della figura del
princeps e della degenerazione degli antichi ideali della res publica.
Negli anni tardo imperiali, col sempre più incalzante problema delle mi-
grazioni dei popoli dell’Europa nordorientale che premevano sempre più con
maggiore insistenza sul limes, si torna peraltro ad evidenziare la crudeltà
dell’indole nordica, o per lo meno di quello che veniva giudicata tale, facendo ri-
ferimento all’osservazione avanzata dai Greci in merito al rapporto che sarebbe
intercorso tra fattori climatici ed eventi storici, teoria che godrà di grande popola-
rità nella cultura medievale. Tertulliano, in Adversus Marcionem (I, 1), avverte i
contemporanei ricordando loro che le popolazioni del nord sono ferocissime, no-
madi e dalla sessualità promiscua; la stessa cosa ribadisce Rufo Festo Avieno nel
suo poema in esametri Descriptio orbis terrae (traduzione di un’opera greca di
Dioniso Periegeta), attribuendone la causa al semplice fatto che tutti questi popoli
vivono sotto il gelido vento di Aquilone
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.
Questa è a grandi linee l’eredità che la tarda Antichità lascia al Medioevo:
l’influenza della teoria geoclimatica è da ritenersi pressoché costante, arricchita
dai contributi dei singoli intellettuali che facevano sempre e comunque riferimen-
to alle parole degli autores latini.
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“ ideo sex mensibus dies et totidem aliis nox usque continua est. Terra angusta, aprica, per se
fertilis.”, De Chorographia, III, 5.
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Naturalis Historia, IV, 12.
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Descriptio orbis terrae, vv. 441-457.
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Tuttavia, in questo periodo si presta più attenzione alle influenze che il
clima ha sull’habitat naturale e si stabiliscono relazioni tra il suolo e le condizioni
sociali, giustificando così in parte la condotta di questi popoli (basti pensare a Pa-
olo Diacono nella sua Historia langobardorum).
Un ruolo da mediatore assume Isidoro di Siviglia, che riprende parte della
teoria geoclimatica di Plinio, adattandola però anche all’aspetto fisico. I Germani
non sono solo dotati della natura di immania corpora, ma forgiati saevissimis fri-
goribus
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: al clima umido e freddo è da farsi risalire la causa del loro sviluppo fi-
sico, che supera quello delle popolazioni meridionali, venendosi così meglio a
precisare la ragione della loro efficienza bellica, anche se difettano sul piano
dell’impegno prolungato e sulla resistenza alle malattie.
Partendo sostanzialmente dalle stesse premesse, durante il Medioevo si
tende, però, a giungere a conclusioni più drastiche sull’argomento, in modo da
giustificare l’emarginazione dell’uomo non appartenente alla fascia temperata
dell’emisfero; a ciò si aggiunge inoltre una discriminazione di stampo religioso,
da inserirsi nella continua lotta tra cristianesimo e paganesimo. I popoli settentrio-
nali non solo vengono di conseguenza presentati come privi di istituzioni vere e
proprie, ma sono pure privi della luce del Signore; dalle loro terre proviene il de-
monio, che vive nel sottosuolo, tra vulcani in eruzione e ghiacciai crepitanti
14
.
Beda il Venerabile, riprendendo le affermazioni di Aristotele, sosteneva al
riguardo che nessuna creatura potesse vivere nella fascia boreale, se non qualcuno
deviante dalla normalità, cioè il monstrum che, con le sue mirabili difformità (cre-
atura umana o non), sarebbe stato destinato a popolare le pagine e le illustrazioni
di numerosi libri medievali, basti pensare ai bestiari. Certamente non è solo il
Nord ad essere soggetto a questa diluizione in un arido meccanicismo degli studi
geografici in una nuova concezione dettata dalla visione cristiana, secondo la qua-
le voler andare al di là dei confini posti da Dio costituiva un atto di superbia: an-
che Africa e Asia saranno popolate da creature favolose e terrificanti, ma il lega-
me gelo-mostruosità sarà particolarmente forte, sfociando in una sorta di devia-
zione teratologica della teoria geoclimatica.
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Ethymologiarum sive Originum, IX, 2.
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Basti pensare alla collocazione di Lucifero nel ghiaccio della Giudecca nell’Inferno dantesco.