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1.1 - BERNARD WILLIAMS E LA FILOSOFIA DI
OXFORD
Il Prof. Bernard Arthur Owen Williams ( Londra 1929, - ), già “fellow” dell’All
Souls College e poi del New College di Oxford, ha insegnato Filosofia
all’Università di Londra per otto anni, prima all’University College e poi al
Bedford College. Fra il 1964 e il 1967 è stato Knightbridge Professor of
Philosophy all’Università di Cambridge e al King’s College di Cambridge e nel
1973 professore di Filosofia all’Università di Harvard. E’ attualmente White’s
Professor of Moral Philosophy all’Università di Oxford e Monroe Deutsch
Professor of Philosophy all’Università di Berkeley, in California. E’ autore di
numerose opere di filosofia morale e filosofia della mente dalle quali emerge la
figura di uno dei più acuti e penetranti tra i filosofi analitici contemporanei e di
uno dei personaggi più influenti nell’ambito della teoria contemporanea. Il Prof.
Bernard Williams è infatti uno dei ricercatori più affermati dell’ultima
generazione filosofica inglese e fa parte di una corrente denominata “filosofia
linguistica” o “analisi linguistica” o ancora “filosofia di Oxford”, in quanto
proprio ad Oxford sono stati messi in pratica ed hanno avuto maggior influenza i
nuovi metodi di far filosofia dell’Inghilterra contemporanea.
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“Per ciò che riguarda il problema della filosofia e i suoi centri di interesse, c’è
una tensione tra antico e moderno (...). Io ho avanzato l’idea che, per alcuni aspetti
fondamentali, il pensiero filosofico del mondo antico è in una condizione migliore
e si pone problemi più fecondi rispetto a gran parte della filosofia morale più
recente”.
1
Le filosofie antiche possono quindi offrirci di più di quello che
mediamente ci offrono quelle attuali; il pensiero filosofico del mondo antico era
infatti per sua natura “meno ossessionante della filosofia attuale e meno risoluta
ad imporre la razionalità mediante teorie riduttive. Tuttavia, le speranze che alcuni
di quei pensatori riponevano nella filosofia sono ormai tramontate
2
e il mondo che
viene affrontato dal pensiero etico attuale è irreversibilmente diverso non solo dal
mondo antico, ma da qualsiasi mondo in cui gli esseri umani abbiano cercato di
vivere e abbiano impiegato dei concetti etici.”
3
Le risorse di gran parte della
filosofia morale contemporanea non sono quindi adeguate al mondo attuale. “Io ho
cercato di mettere in luce che questo avviene perchè tale filosofia si richiama
quasi esclusivamente alle concezioni della razionalità (...); essa si regge sul sogno
di una comunità della ragione che, come Hegel osservò per primo, è troppo
lontano dalla realtà sociale e storica nonchè da qualuque concreta fisionomia di
una vita etica.”
4
La differenza tra la filosofia d’oggi e certa filosofia del passato è
data pertanto dal fatto che è appunto contemporanea: la confortante unità delle
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B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, Bari, Laterza, 1987, cit., p. 239.
2
anche se le speranze che si basavano sul rispetto per la libertà e per la giustizia sociale attraverso
la critica di istituzioni oppressive e ipocrite appaiono oggi forse più difficili da realizzare che nel
passato.
3
Ibidem.
3
scuole del passato è il risultato ingannevole del trascorrere del tempo e delle
eccessive, inevitabili semplificazioni storiche. Tuttavia rimane pur sempre un
contrasto le cui radici affondano nello sviluppo storico della filosofia degli ultimi
cento anni e, soprattutto, in quello di questo secolo. Il genere di unità che si fonda
su un gruppo di filosofi che condividono dottrine e conclusioni presuppone infatti
che vi siano conclusioni filosofiche caratteristiche da condividere; mentre la
fedeltà a una grande figura filosofica - a Socrate per esempio - richiede che i
seguaci ritengano che il loro maestro abbia scoperto, o almeno delineato, la verità
finale. Il nostro autore appartiene ad un gruppo di filosofi che hanno apportato,
attraverso le loro dottrine, notevoli contributi alla conoscenza teorica, pur essendo
questa estremamente diversa dalla conoscenza teorica incorporata nelle scienze
naturali e matematiche. “Ho sostenuto che almeno le scienze naturali sono capaci
di verità oggettiva. Coloro che negano questa tesi incorrono in un errore: secondo
loro, quelli che credono nella capacità della scienza di dirci com’è in realtà il
mondo si aggrappano ad essa come ad una superstizione, con la fede disperata che
essa rappresenti la sola realtà solida che ci è rimasta.”
5
E’ da notare il fatto che i
consensi e i dissensi tipici dei filosofi che appartengono alla stessa scuola, o a
scuole diverse, si esprimano oggi non tanto nella dottrina, quanto nel metodo. A
tal proposito il professor Bernard Williams ha curato, insieme ad Alan
Montefiore, una raccolta di saggi
6
scritti da autori diversi ( fra i quali D. Pears, J.
4
Ibidem.
5
Ivi, p. 240.
6
British Analytical Philosophy, Londra, Routledge & Kegan Paul, 1966.
4
R. Searle, A. MacIntyre, C. Taylor, R. Wollheim e lo stesso A. Montefiore ) e che
rappresentano i metodi di discussione filosofica più importanti ed influenti in
Gran Bretagna e nei paesi di lingua inglese.
Esiste inoltre un contrasto tra le tradizioni della filosofia britannica e quelle
della filosofia continentale: la filosofia inglese è empirica, mentre quella
continentale tende ad essere metafisica e piuttosto oscura. Vi è pertanto
un’effettiva divergenza fra il tono piuttosto realistico dello stile inglese e quello
più difficile e più profondo di gran parte delle opere continentali. Da un certo
punto di vista però, dire che la filosofia inglese è empirica è un’affermazione
ingannevole e forviante, se con ciò si intende la filosofia dell’empirismo nella scia
della tradizione di Locke, Berkeley e Hume, cioè la dottrina della supremazia dei
“dati” dell’immediata esperienza sensoriale. Questa filosofia ha certamente avuto
in tempi recenti eminenti esponenti quali Bertrand Russell, soprattutto e, anche se
in modo diverso, A. J. Ayer.
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E’ quindi vero che la filosofia inglese conserva certi
interessi, principi ed atteggiamenti empirici
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, sebbene non esclusivamente tali e
soprattutto un certo scetticismo e una certa diffidenza per quanto riguarda le
conclusioni metafisiche su larga scala che si fondano su quanto fornisce la ragione
o l’intuizione. Alla base della filosofia britannica contemporanea vi è pertanto una
tensione: da una parte le inclinazioni e gli intenti sono ancora empiristici in modo
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autore, fra gli altri, di Language, Truth and Logic, Londra, Gollancz, 1936 e The Foundations of
Empirical Knowledge, Londra, Macmillian, 1940 da cui emerge la sua posizione di estremo
empirismo che successivamente modificò in modo considerevole.
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come dimostra il saggio di Anthony Quinton “The Foundations of Knowledge” in B. Williams e
A. Montefiore ( a cura di ), British Analytical Philosophy, pp. 55 - 86.
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predominante, dall’altra le implicanze di molti dei metodi usati e delle conoscenze
intuitive che si ottengono non sono affatto empiriche. Fino agli anni ‘70, inoltre, la
filosofia inglese non fu mai influenzata in maniera decisiva da Hegel e quindi
neppure dalle reazioni e dai molteplici sviluppi post-hegeliani, che invece
costituiscono il filone della successiva tradizione tedesca e, in generale,
continentale. La divergenza fra la filosofia britannica e quella continentale non è
quindi una caratteristica dei nostri giorni, ma risale alla fine del 18° secolo.
E’ una caratteristica importante della filosofia britannica il fatto di essere
autocosciente da un punto di vista accademico, nel senso che i suoi esponenti sono
consapevoli di essere impegnati, insieme ad altri, in una materia di insegnamento
che è oggetto di ricerca nelle università. Ma questa non è una caratteristica
esclusiva della filosofia inglese, perchè è comune a tutta la filosofia continentale.
Sono forse proprie della filosofia inglese certe conseguenze che sembrano derivare
dalla posizione accademica del filosofo: conseguenze che riguardano le
responsabilità e le limitazioni della sua posizione. L’adozione di uno stile
relativamente sobrio e privo di drammaticità, e di una forma obiettiva di
discussione risponde non solo alle esigenze di rispettabilità accademica, ma anche
a quelle di coscienza professionale, sollevando inoltre al questione su come si
possa onestamente insegnare la filosofia. Ecco un’altra differenza fra gran parte
della filosofia britannica e gran parte di quella continentale; una differenza che
causa un’autentica incomprensione e che risulta evidente dal ruolo diverso che in
un caso e nell’altro viene assegnato agli esempi, e dal modo diverso in cui
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vengono trattati. E’ una caratteristica di molti scritti continentali che, quando si
discute un concetto o un’idea, gli esempi che servono a dar vita al concetto o
all’idea, o che ne illustrano le applicazioni, o sono essi stessi di natura singolare e
vivida, o sono descritti in modo singolare e vivido. Questo tipo di filosofia cerca
dunque di sottolineare la forza dell’esempio con termini che hanno un’influenza
emotiva.
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Un filosofo britannico, invece, tenderebbe a dire che, volendo capire
una determinata nozione, si dovrebbe vederla nelle sue applicazioni più comuni. E
di ogni situazione si dovrebbe dare una descrizione che aderisca perfettamente al
carattere abituale e per nulla emozionante degli avvenimenti.
Il divario attualmente esistente fra la filosofia britannica e quella continentale
nasce però principalmente dall’interesse tutt’altro che astratto e generale che la
filosofia britannica nutre per il linguaggio, anche se “la filosofia morale è una
branca della filosofia in cui la svolta linguistica
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, com’è stata chiamata, non ha
contribuito a rendere i problemi più trattabili. Con questo non intendo dire che la
filosofia morale, come altre parti della filosofia, non possa correttamente
impegnarsi a riflettere su quello che diciamo. Anzi, entro certi limiti, essa avrebbe
potuto ottenere risultati migliori se si fosse interessata di più di quello che
diciamo.”
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Bernard Williams appartiene infatti alla cosiddetta filosofia
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Jean Paul Sartre in L’etre et le néant si serve di esempi non “meramente astratti”, ma dotati di una
“base reale”. ( tr. it. di Giuseppe del Bo, L’essere e il nulla: saggi di antologia fenomenologica,
Milano, 1997. )
10
L’espressione “la svolta linguistica” ( The linguistic turn ) è il titolo di una raccolta di studi sul
metodo filosofico curata da R. Rorty, University of Chicago Press, Chicago, 1967.
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B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 155.
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“linguistica”
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, in quanto egli studia gli usi del linguaggio, del suo linguaggio:
l’inglese. Si tratta di una filosofia particolarmente sensibile al pericolo di venir
sviata dalle parole ed intrappolata in vuote argomentazioni verbali, anche se non è
vero che gli argomenti della buona parte del lavoro che appartiene a questo tipo di
filosofia facciano appello diretto ad elementi caratteristici della lingua inglese o di
qualunque altra. E’ invece vero che parte della filosofia “linguistica” procede
facendo riferimenti espliciti a distinzioni che sono insite nella lingua inglese.
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Nasce così il problema di tradurre la filosofia “linguistica” inglese facendo
riferimento alle strutture tipiche della lingua inglese. L’interesse linguistico in
questi casi non è peculiare alla lingua del filosofo, sebbene le sue argomentazioni
siano espresse in quella lingua e con riferimento ad essa.
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12
Esempi di filosofia “linguistica” sono alcuni dei saggi, come quelli di Patrick Gardiner, Richard
Wollheim e Anthony Kenny contenuti nella raccolta di B. Williams e A. Montefiore ( a cura di ),
British Analytical Philosophy.
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Questo è il tipo di lavoro che il defunto professor J. L. Austin sosteneva e metteva in pratica - la
sua opera è descritta nel saggio “Wittgenstein and Austin” di David Pears e criticata in “Assertions
and Aberrations” di John Searle, entrambi contenuti in B. Williams e A. Montefiore
( a cura di ), British Analytical Philosophy - . L’interesse di Austin si concentrava sulle distinzioni
estremamente sottili di significato ed uso di certe espressioni inglesi, soffermandosi su sfumature di
significato che altri filosofi avrebbero probabilmente considerato futili, o di nessuna importanza
filosofica. Alcuni dei suoi scritti risultano pertanto intraducibili, poichè le sfumature di significato -
alle quali Austin aveva un orecchio tanto sensibile - sono peculiarità della lingua inglese. Non ne
consegue che la filosofia di Austin non possa essere messa in pratica da chi non parli inglese.
Questo significa che parte del suo lavoro, invece di venir tradotto dall’inglese, dovrebbe essere
proseguito, come se si trattasse di un’impresa nuova, in un’altra lingua; un tentativo in questo senso
è quello del professor Leon Apostel, tentativo che si guadagnò l’elogio di Austin ( “Cahiers de
Royaumont” in Philosophie N. IV: La Philosophie Analytique, pp. 188 - 247 ). Austin pose
comunque le basi per uno studio sistematico ed empirico del linguaggio; ed alcuni dei concetti che
egli sviluppò per la descrizione del linguaggio, quale quello di “speech-act” ( atto linguistico o di
enunciazione ), avranno un ruolo importante nello sviluppo della scienza linguistica.
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Un esempio è l’opera del professor Gilbert Ryle, The Concept of Mind, Londra, Hutchinson,
1949, dove si fa uso di un gran numero di esempi tratti da espressioni inglesi; i suoi argomenti,
tuttavia, sono sufficientemente generali da permettere una felice traduzione italiana ( ad opera di
Ferruccio Rossi Landi, apparsa col titolo Lo spirito come comportamento ). Ryle quindi, a
8
Inoltre, il fatto che fino agli anni ‘60 la tradizione britannica manchi di una
filosofia politica
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e, più ovviamente, il fatto che manchi una tradizione marxista
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sono indubbiamente legati al fatto che nella storia britannica manca un
cambiamento smembrante, quel genere di cambiamento che richiede una
riflessione politica fondamentale. I problemi morali costituiscono un argomento
più complesso. Il contributo della filosofia inglese più recente, nei confronti delle
questioni morali, è stato offerto principalmente allo studio della morale come
concetto antropologico; il problema, cioè, di come si possano distinguere i
principi morali da altre regole e istituzioni nella società, e problemi simili.
Uno dei meriti di Williams è quello di aver formulato in modo pioneristico
alcuni di quelli che sarebbero divenuti temi canonici per la filosofia, come la sua
particolare concezione della filosofia morale, della natura umana, dell’esistenza di
Dio, della felicità e dell’utilitarismo. Un secondo merito è rintracciabile nella
coerenza con cui Williams ha per stadi successivi sviluppato, approfondito e
raffinato con grande forza intellettuale, responsabilità filosofica e serietà morale
differenza di Austin, prendeva in considerazione soltanto distinzioni di tipo piuttosto generale
rintraccaibili anche in altre lingue. Un altro esempio è l’opera più tarda di Wittgenstein
( analizzata nel saggio già citato “Wittgenstein and Austin” di D. Pears ), ed è un fatto significativo
che le sue opere non fossero scritte in inglese, ma in tedesco, e pubblicate sempre con la traduzione
in inglese.
15
Come sostiene il professor R. Wollheim nel saggio “On the Theory of Democracy” contenuto in
B. Williams e A. Montefiore ( a cura di ), British Analytical Philosophy. La filosofia politica in
Gran Bretagna si sviluppò successivamente grazie per esempio ai contributi di Isaiah Berlin, fra i
quali ricordiamo il saggio “Does Political Theory still exist?” contenuto in P. Laslett e W. G.
Runciman, Philosophy, Politics and Society, Basil Blackwell, Oxford, 1962.
16
Argomento trattato da C. Taylor nel saggio “Marxism and Empiricism” contenuto in B. Williams
e A. Montefiore ( a cura di ), British Analytical Philosophy.
9
una prospettiva originale su importanti questioni di etica. Problems of the Self
17
e
Moral Luck
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raccolgono gli esiti principali delle ricerche filosofiche che avevano
impegnato il nostro autore nel corso degli anni Sessanta e Settanta e costituiscono
certamente non solo una lettura filosoficamente avvincente, ma anche due
contributi fondamentali sia per la conoscenza del pensiero di Williams sia, più in
generale, per lo studio di un’ampia gamma di questioni filosofiche che sono
tuttora al centro della discussione. Non è quindi difficile ritrovare in una ricerca
ormai più che quarantennale alcune costanti, alcune tesi fondamentali e ricorrenti
o, più semplicemente, un nucleo che renda conto, con la sua permanenza, delle
variazioni, degli scostamenti e, soprattutto, del confronto continuo e serrato con
posizioni e tesi alternative nell’ambito della filosofia contemporanea attraverso la
critica elaborata da Williams nei confronti delle principali teorie etiche
contemporanee.
La filosofia morale, secondo Williams, ha certamente bisogno di teorie, ma non
di una teoria morale. “Le teorie etiche sono imprese filosofiche e, come tali,
comportano la convinzione che la filosofia possa determinare, o positivamente o
negativamente, in che modo dobbiamo pensare in etica. (...) Una teoria del genere
non è mai riuscita nè riuscirà mai a dire quale diritto abbia di legiferare sui
sentimenti morali.”
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La pretesa delle teorie etiche è infatti quella di applicare
criteri o canoni di valutazione e giustificazione alla moralità, intesa come qualcosa
17
Philosophical papers 1956 - 1972, Cambridge, Cambridge University Press, 1973.
18
Philosophical papers 1973 - 1980, Cambridge ( Cambridgeshire ); New York, Cambridge
University Press, 1981.
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che ha la consistenza di un “insieme di proposizioni”. Tuttavia, questa estensione
al variegato campo dell’esperienza morale individuale e collettiva, all’ambito
della condotta e delle emozioni, dei desideri e dei sentimenti è semplicemente il
sintomo di un fraintendimento sostanziale a proposito della natura della moralità.
Impegnarsi nella costruzione di una “teoria” morale significa pertanto fare una
cattiva filosofia morale; bisogna invece adottare un resoconto più realistico e
plausibile di che cosa voglia dire per noi una “moralità”, di quale sia la natura
della nostra esperienza morale, dei suoi dilemmi, dei suoi inevitabili conflitti. Il
lavoro del filosofo morale consiste, in questa prospettiva, in una sorta di analisi
dei sentimenti morali o in qualcosa come un resoconto rispondente alla
complessità delle nostre esperienze etiche. In questo modo Williams riabilita il
ruolo delle emozioni e di una “psicologia” morale sistematicamente sottovalutato
da Kant.
Una filosofia morale che prenda sul serio la natura della moralità deve essere in
grado di rivelare a noi stesso quanto, di ciò che fa parte della nostra esperienza,
noi siamo disposti a riconoscere come “morale”, un’esperienza che concerne tanto
aspetti individuali o personali quanto aspetti collettivi o istituzionali. La proposta
di Williams non è quindi quella di spendere energie intellettuali per costruire una
teoria migliore; è piuttosto quella di abbandonare l’idea che qualcosa come una
“teoria” abbia un qualche ruolo nell’ambito della filosofia morale. Una filosofia
morale che non rende giustizia a cio che si prova nella complessità dell’esperienza
19
B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 90.