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INTRODUZIONE
Gli ultimi decenni hanno conosciuto importanti trasformazioni politiche, sociali ed
economiche che di fatto hanno ampliato i confini della responsabilità delle imprese.
L'impresa non riveste, infatti, un ruolo unicamente economico, ma svolge una
fondamentale funzione sociale, in quanto opera in un contesto in cui sono presenti
altre categorie di soggetti, molto attente all'operato imprenditoriale. I consumatori
moderni si caratterizzano per un orientamento critico al consumo, coerente con il
concetto di sviluppo sostenibile: quando si compra, non si compra solo una cosa, ma
si compra da qualcuno. L'attenzione del top management agli impatti sociali ed
ambientali della gestione aziendale non è una scelta dettata esclusivamente da ragioni
etiche e morali, ma dalla necessità di assicurare all'impresa la sopravvivenza e lo
sviluppo nel lungo periodo. Tuttavia, la responsabilità sociale non può essere relegata
alla “filantropia aziendale”. Deve invece riguardare il “come” l'impresa riesca,
mediante lo svolgimento della propria attività, a soddisfare le legittime pretese
sociali e ambientali dei vari portatori d'interesse. Soltanto lo sviluppo nel tempo di
relazioni positive con questi soggetti può trasformarsi, per l'impresa, in un elemento
di valore aggiunto.
La seguente tesi si articola in cinque parti. La Parte Prima è volta ad inquadrare i
termini del fenomeno della responsabilità sociale d'impresa. Nel Capitolo 1 si
descrivono le diverse teorie d'impresa, si chiarisce la figura degli stakeholder e si
definisce il concetto di responsabilità sociale d'impresa. Nel Capitolo 2 si analizzano
i fattori che negli ultimi anni hanno portato alla crescente attenzione verso le
tematiche di natura socio-ambientale. Il Capitolo 3 è dedicato al ruolo delle
istituzioni nella promozione della responsabilità sociale, con particolare riferimento
alle PMI.
La Parte Seconda della tesi riguarda le logiche, gli strumenti e i benefici che
spingono le imprese ad adottare strategie di Corporate Social Responsibility (CSR).
Nel Capitolo 4 si illustrano alcuni esempi di iniziative sociali e ambientali adottabili
dall'impresa, evidenziandone i relativi benefici a vantaggio degli stakeholder e
dell'impresa stessa. Nel Capitolo 5 si analizzano i costi e i benefici di una strategia di
CSR, cercando di dimostrare l'esistenza di una correlazione tra la performance
sociale e la performance economico-finanziaria dell'impresa. Il Capitolo 6 presenta i
possibili percorsi attraverso cui le imprese, in particolar modo le PMI, possono
muoversi verso la CSR allo scopo di ricercare nell'impegno socio-ambientale una
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leva di differenziazione. Infine, il Capitolo 7 è dedicato ad una presentazione dei
principali standard ufficiali internazionali che attestano la responsabilità sociale ed
ambientale delle imprese.
La Parte Terza ha per oggetto il tema della rendicontazione delle performance socio-
ambientali. Nel Capitolo 8 vengono presentati e descritti due fondamentali strumenti
utilizzabili per la rendicontazione socio-ambientale: il bilancio di sostenibilità e i
Key Performance Indicators (KPI). Inoltre, si propone la Sustainabilty Balanced
Scorecard quale strumento di rendicontazione della CSR differente dai tradizionali
sistemi di controllo.
La Parte Quarta è volta a chiarire l'importanza della comunicazione dell'impegno
aziendale in ambito socio-ambientale ai vari portatori d'interesse, al fine di
massimizzare i benefici ottenibili dagli strumenti riconducibili alla CSR, descritti
nella Parte Seconda. Nel Capitolo 9 si cerca di spiegare che cosa, a chi e in che modo
comunicare i valori aziendali, mentre nel Capitolo 10 è presentato il Cause Related
Marketing (CRM), ovvero il processo attraverso cui un'impresa e una causa di utilità
sociale formano una partnership strategica per promuovere un prodotto o
un'immagine traendo un beneficio reciproco. Nello specifico, si chiariscono come
scegliere la causa da sostenere, come selezionare il partner non profit, come gestire
gli aspetti organizzativi e come comunicare il CRM.
Infine, nella Parte Quinta, si presenta il tema della finanza etica, cercando di
evidenziarne la stretta relazione con la CSR. Nel Capitolo 11 vengono presentati gli
strumenti finanziari etici principali, con particolare riguardo ai fondi d'investimento
etici. Il Capitolo 12 è dedicato alla dimostrazione della convenienza
dell'investimento etico, condotta attraverso il confronto tra le performance dei
principali indici etici e quelle degli indici tradizionali.
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PARTE PRIMA
LA RESPONSABILITÀ SOCIALE D’IMPRESA
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1 – LE TEORIE D'IMPRESA E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE
1.1 – Creazione di valore e responsabilità sociale
L'impresa rappresenta l'istituzione economica per creare e distribuire
ricchezza più riuscita ed utilizzata. Ma che ruolo ha l'impresa nella società? Nei
confronti di chi e cosa i suoi manager sono responsabili? Nel 1931 sulla Harvard
Law Review si svolse un interessante dibatto tra A.A. Berle e E.M. Dodd. Secondo
Berle tutti i poteri accordati ad una impresa dovevano essere utilizzati per creare
benefici in favore degli azionisti (shareholder o stockholder). Per Dodd invece le
imprese avrebbero dovuto riconoscere anche i loro obblighi nei confronti dei
lavoratori, dei consumatori e della comunità (stakeholder).
L'economista M. Friedman ridadì la sola importanza ed influenza degli
shareholder nel processo decisionale manageriale, riprendendo i concetti espressi
quarant'anni prima da Berle. Secondo Friedman «The social responsibility of
business is to increase its profits». Se sostituiamo la parola profitti con creazione di
valore per gli azionisti otteniamo il cd. Shareholder Value Approach: l'impresa
avrebbe dunque una sola responsabilità sociale, cioè quella di usare le sue risorse e
dedicarsi ad attività volte ad aumentare i propri profitti, a patto di competere
liberamente e nel rispetto della legalità. I manager secondo Friedman sono degli
“agenti” degli investitori, perciò non possono avere altri obblighi morali che non
verso di loro. Sarebbe la legge a riconoscere ai manager l'obbligo fiduciario ad agire
nell'esclusivo interesse degli investitori. La soluzione dei problemi sociali è compito
dello Stato, non dei manager. Se questi ultimi praticassero la “responsabilità sociale”,
userebbero il denaro degli investitori, senza averne avuto il permesso, per tentare di
risolvere i problemi sociali. La loro azione sarebbe moralmente illegittima, in quanto
equivarrebbe a una sorta di “tassazione” degli investitori e a una violazione del
principio del “no taxation without representation”
1
.
Negli anni '80 E. Freeman riprese e sviluppò il concetto espresso anni prima
da Dodd, ampliando la definizione di stakeholder: soggetti senza il cui supporto
l'impresa non è in grado di sopravvivere
2
. Nel 1984 assieme a W. M. Evan, Freeman
amplia la definizione, fino a comprendere tra gli stakeholer qualsiasi individuo o
gruppo che può influenzare o essere influenzato dalle azioni dell'impresa (Figura
1
Friedman M. (1970)
2
Freeman E. (1984)
5
1.1). Freeman osserva che a fianco dei “tradizionali”stakeholder (proprietari, clienti,
dipendenti, fornitori), c'era una schiera di nuovi gruppi emergenti di stakeholder,
potenzialmente capaci di influenzare in maniera significativa l'organizzazione
(concorrenti, associazioni dei consumatori, ambientalisti, gruppi d'interesse e
media,...)
3
.
Figura 1.1 – Mappa degli stakeholder secondo Freeman
Secondo Evan e Freeman i manager hanno un rapporto fiduciario non solo
con gli azionisti, ma anche con un'ampia serie di stakeholder dell'impresa, che hanno
un interesse o una pretesa su di essa. Secondo questa teoria gli interessi degli
stockholder non dovrebbero avere la priorità sugli interessi degli altri stakeholder. Lo
Stakeholder Value Approach trova il suo fondamento morale nel principio kantiano
del rispetto delle persone, secondo cui queste devono essere trattate come fini in sé e
non meramente come mezzi per qualche fine. I diritti di proprietà degli azionisti non
sono assoluti e non possono pertanto essere fatti valere per giustificare l'uso e la
“manipolazione” degli stakeholder come mezzi in vista dei meri fini aziendali. Si
giunge quindi a una più precisa definizione del concetto di stakeholder: “gruppi o
individui che traggono vantaggio o che sono danneggiati, e i cui diritti sono rispettati
o violati, dalle azioni aziendali”. Viene così ridefinito lo scopo dell'impresa: la
generazione di profitto è una condizione necessaria ma non sufficiente perchè
3
Freeman E. e Evan W.M. (1988)
6
l'impresa possa considerarsi legittimata a operare, in quanto l'impresa deve fungere
da mezzo per il coordinamento degli interessi degli stakeholder. Infatti se la
giustificazione dell'esistenza dell'impresa è la sua capacità di creare ricchezza, la
legittimità dell'impresa come istituzione sociale dipende dalla sua capacità di
soddisfare le aspettative degli stakeholders. Il management stesso è uno stakeholder,
in quanto ha un interesse nell'impresa, e svolge un ruolo “speciale” in quanto ha il
dovere morale di proteggere il “benessere” dell'impresa e garantirne una buona
“salute”. A questo scopo nessuno stakeholder dovrà avere la supremazia sugli altri.
Logicamente, come precisano Evan e Freeman, non si può chiedere ai manager di
soddisfare sempre tutte le pretese di tutti gli stakeholder. Al management spetta il
compito di mantenere in equilibrio le relazioni tra i portatori d'interesse, limitandosi
a far sì che i diritti di ogni gruppo di stakeholder abbiano un forum in cui trovare
espressione
4
.
1.2 – La figura degli stakeholder
M.E. Clarkson effettua una distinzione tra stakeholder volontari e
involontari: mentre l'interesse dei primi è legittimato dalla sopportazione di un
rischio come conseguenza di un investimento nell'impresa (capitale umano o
finanziario), l'interesse dei secondi è legittimato in quanto essi sarebbero a rischio
per effetto dell'attività dell'impresa. Secondo tale definizione il potenziale rischio è
strettamente collegato al potenziale beneficio: senza l'elemento del rischio non esiste
alcun interesse da difendere. Inoltre Clarkson distingue tra stakeholder primari e
stakeholder secondari. Primari sono gli stakeholder senza la cui partecipazione
continua la corporation non può sopravvivere (azionisti, investitori, dipendenti,
consumatori, fornitori, lo Stato, la comunità). Secondari sono gli stakeholder che
influenzano la o sono influenzati dalla corporation ma che non sono impegnati in
transazioni con essa e non sono essenziali alla sua sopravvivenza (media, gruppi
d'interesse, attivisti). Se un gruppo di stakeholder primari fosse insoddisfatto e si
ritirasse dal sistema aziendale, la corporation verrebbe seriamente danneggiata o
risulterebbe incapace di continuare ad esistere. Pur non essendo essenziali per la
sopravvivenza dell'impresa, anche gli stakeholder secondari possono causare danni
significativi all'impresa o ai suoi stakeholder primari
5
. Si può notare come questa
4
D'Orazio E. (2003)
5
Clarkson M.E. (1994, 1995)
7
“definizione ristretta di stakeholder” di Clarkson sia volta a sottolineare la rilevanza
della legittimità della pretesa dello stakeholder, mentre la “definizione ampia” di
Freeman vuole sottolineare l'importanza del potere dello stakeholder di influenzare
l'impresa, indipendentemente dalla presenza o meno di pretese legittime
6
.
Nel 2003 R. Phillips provò a fornire una spiegazione generale della creazione
e dell'esistenza di obblighi morali entro le organizzazioni e tra gli stakeholder.
Rispetto ai naturali doveri morali (moral duties), che tutti hanno nei confronti di tutti
in quanto esseri umani, all'interno dell'impresa e tra gli stakeholder si creerebbero
degli obblighi morali (moral obligations). Pertanto ogni stakeholder sarebbe
meritevole, secondo Phillips, di una considerazione morale “extra” dovutagli
dall'impresa e dal suo management. Philips effettua una distinzione tra “stakeholder
normativi” e “stakeholder derivati”: mentre i primi sono coloro verso i quali
l'organizzazione ha un obbligo morale, di equità, i secondi sono coloro le cui azioni e
pretese devono essere considerate dai manager a causa dei loro effetti potenziali sugli
stakeholder normativi (Figura 1.2).
Figura 1.2 – Mappa degli stakeholder normativi e derivati
6
D'Orazio E. (2004)
8
Si evince che gli stakeholder derivati, nonostante siano da considerarsi a tutti gli
effetti stakeholder legittimi, possono essere trattati dal management strumentalmente
o strategicamente. Comincia a farsi strada dunque l'idea che esista una priorità tra gli
stakeholder. Seguendo questa distinzione normativo/derivato, Phillips conclude la
sua analisi definendo primaria l'attenzione rivolta alle esigenze degli stakeholder
normativi e secondaria quella rivolta agli stakeholder derivati
7
.
R.K. Mitchell et al. già nel 1997 avevano cercato di definire una scala di
priorità tra i molteplici stakeholder. Partendo dalla definizione di Freeman,
identificarono diverse classi di stakeholder (Figura 1.3) in base al possesso di tre
attributi:
1. potere dello stakeholder di influenzare l'impresa;
2. legittimità morale della relazione dello stakeholder con l'impresa;
3. urgenza della pretesa dello stakeholder sull'impresa.
Figura 1.3 – Classi di stakeholder individuate da Mitchell et al.
Secondo Mitchell et al. è la percezione degli attributi di uno stakeholder da parte del
manager a decidere della salienza dello stakeholder. Combinando i tre attributi si
possono individuare così diverse tipologie di stakeholder (Figura 1.4). Gli
stakeholder “latenti” assumono una posizione passiva: dal momento che la loro
salienza è bassa, il livello di responsabilità dell'impresa nei confronti dei loro
interessi sarà basso. Gli stakeholder “in attesa” assumono invece posizione attiva,
con un corrispondente aumento del livello di responsabilità dell'impresa nei loro
confronti. Gli stakeholder “definitivi” sono gli stakeholder alle cui pretese l'impresa
dovrà dare la massima priorità. Qualsiasi gruppo di stakeholder può raggiungere la
7
Phillips R. (2003)
9
posizione di “definitivo”, acquisendo via via gli attributi mancanti
8
.
Figura 1.4 – Categorie di stakeholder individuate da Mitchell et al.
1.3 – Concetto e definizione della Corporate Social Responsibility
L'impresa, per essere duratura, deve puntare alla creazione di valore nel lungo
periodo. Per fare questo deve crescere non solo all'interno della dimensione
economica, ma anche nella dimensione sociale e in quella ambientale (Triple
Bottom-Line Approach). Una performance insoddisfacente in una delle tre
dimensioni genera distruzione di valore per l'impresa. Quest'ultima deve quindi
riuscire a integrare opportunità di crescita economiche, sociali ed ambientali nella
sua strategia, in quanto accanto ai fattori competitivi tradizionali ci sono i fattori
sociali e quelli ambientali.
Il primo contributo alla Corporate Social Responsibility (CSR), in italiano
Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI), risale a H.R. Bowen
9
(1953), secondo il
quale per “responsabilità dei manager” ci si riferiva al “dovere degli uomini d’affari
8
D'Orazio E. (2005)
Mitchell R.K. et al. (1997)
9
Bowen H.R. (1953)