5
parte: si tratta però di una operazione realizzata con coerenza e
consapevolezza e che va quindi letta nel quadro più ampio della
collaborazione fra i due registi. Il nostro proposito sarà dunque di leggere il
film e analizzarlo con questa idea di partenza, per evitare di ricadere in
facili quanto superficiali giudizi di valore.
Il film, tratto da alcune novelle raccolte nel libro “Quel bowling sul
Tevere”
2
(1983), ha una struttura ad episodi, collegati tra loro da una
cornice predisposta da Wenders, che prevede la figura di un regista-
girovago alla ricerca di storie e personaggi per un nuovo film.
Cronaca di un amore mai esistito; La ragazza, il delitto; Non mi cercare
e Questo corpo di fango sono le quattro storie antonioniane in cui lo stile
narrativo é estremamente ‘visivo’, quasi che esse siano già la sceneggiatura
per un film, qualcosa che il regista ferrarese considera estremamente
letterario, e dal valore autonomo; il prologo, i due intermezzi e l’epilogo
sono invece wendersiani.
Era inevitabile che, a fronte di questo duplice lavoro, si sollevasse il
problema dell’attribuzione della paternità registica del film: é da
considerare un’opera di Antonioni, oppure di Wenders?
Noi riteniamo di non poter dare una risposta certa a questo interrogativo,
su cui peraltro sono state spese già moltissime parole, ma ci proporremo di
analizzare in profondità l’intera opera per permettere di tracciare meglio i
confini tra le parti realizzate da mani differenti, ma che nel film, soprattutto
nella seconda parte, si integrano senza che lo spettatore avverta particolari
stacchi. Leggendo brani di molti scritti di Antonioni e Wenders si ha spesso
l’impressione di trovarsi di fronte a delle dichiarazioni teoriche poi messe in
pratica anche in Al di là delle nuvole: le raccolte dei loro interventi, per
2
Michelangelo Antonioni, Quel bowling sul Tevere, Torino, Einaudi, 1983. I racconti pubblicati in
questo volume erano già stati pubblicati separatamente sul “Corriere della Sera”.
6
quanto differenti tra loro, sono utili strumenti metodologici per l’analisi e la
comprensione del film nel suo complesso. Per questo nel I capitolo (“Il
problema dello sguardo in Wenders e in Antonioni”) presenteremo le
diverse concezioni dello “sguardo sulla realtà” e del “fare cinema” come
emergono dall’analisi dell’opera “teorica” dei due autori. Il modo di fare e
di concepire il cinema, l’immagine, lo sguardo sul reale sono infatti gli
argomenti centrali attorno a cui si costruisce l’intero film, con i due registi
impegnati a combinare le loro diverse visioni in un discorso che si fa
nell’opera sempre più coerente e consapevole. Registi dello spazio e del
tempo, Antonioni e Wenders uniscono le loro energie per dare vita ad un
film delicato e al tempo stesso di non facile interpretazione, in cui gli spunti
di riflessione si moltiplicano senza posa, intensamente legati alle immagini
che passano sullo schermo. Dall’impossibilità di esaurire il senso delle cose
degli episodi di Antonioni si passa all’intento quasi ‘didascalico’, critico,
delle parti wendersiane: vengono indicate le piste di ricerca, distribuite delle
spiegazioni, affidati alla memoria i grandi assi di riflessione che il film
apre. Senza per questo togliere al film la leggerezza e la delicatezza che la
‘poesia delle immagini’ riesce a creare. Diventa una sorta di diario mentale
del regista che inventa storie, le immagina e le vive al tempo stesso
riflettendo su di esse e invitando lo spettatore a farlo con lui, in accordo con
una struttura aperta alle inferenze spettatoriali.
Nel II capitolo (“La fonte letteraria e il film”) analizzeremo il film come
adattamento cinematografico di un’opera letteraria, con la valutazione delle
soluzioni e delle particolari scelte che questa operazione comporta, e
evidenzieremo tematiche e tipologie di personaggi presenti dapprima nel
libro e successivamente nel film.
Ma Al di là delle nuvole è anche il risultato della collaborazione tecnica
tra due registi, di cui abbiamo diverse testimonianze che vanno dal “diario”
7
wendersiano Il tempo con Antonioni
3
al documentario realizzato durante le
riprese da Enrica Antonioni e intitolato Fare un film è per me vivere
4
, sino
all’intervista da noi realizzata a Roma nel luglio di quest’anno alla stessa
Enrica Antonioni. A questo dedicheremo il III capitolo, “La realizzazione
del film”, in cui ricostruiremo le vicende della vera e propria lavorazione
del film, segnata da difficoltà e problemi (primo fra tutti la malattia di
Antonioni), ma anche da coraggiose scelte da parte di entrambi i registi.
Nel IV capitolo, “Vedere e sentire”, analizzeremo le componenti della
scena visiva e sonora nel film: la scelta e il ruolo degli attori,
l’organizzazione e l’importanza dello spazio e degli oggetti in esso collocati
(case, vetri, finestre, specchi, scale e porte, soglie…), la funzione dei rumori
e dell’accompagnamento musicale. Distingueremo gli interventi dei due
registi e li collegheremo alle loro opere precedenti per notare eventuali
continuità o differenze.
L’ultimo capitolo, “Vedere e narrare”, presenterà ancora un’analisi
differenziata del lavoro dei due autori in un testo che è incontro ed
espressione di due sguardi diversi che danno vita al film e che ne
riorganizzano il rapporto con lo spettatore.
Al fine di facilitare il confronto fra quanto affermeremo e il film
inseriremo una sinossi il più possibile dettagliata e di immediata lettura.
Ringraziamo sin da ora per la collaborazione e la disponibilità il Dott.
Carlo Di Carlo e la signora Enrica Fico Antonioni, senza i quali il presente
lavoro sarebbe certamente rimasto incompleto.
3
Wim Wenders, Il tempo con Antonioni, Roma, Socrates, 1995.
4
Per i dati relativi al documentario rimandiamo alla scheda filmografica inserita in appendice.
8
1 Il problema dello sguardo in
wenders e in antonioni
Prima di affrontare in modo specifico l’analisi del film Al di là delle
nuvole proponiamo in questo capitolo una ricognizione dell’orizzonte
teorico a partire dal quale hanno lavorato e ancora oggi lavorano i due
registi Antonioni e Wenders, soprattutto in riferimento al “problema dello
sguardo”. Si tratta cioè di individuare e approfondire la questione
inserendola nel panorama più ampio delle opere cinematografiche e degli
scritti di questi due grandi autori che hanno seguito strade per molti versi
divergenti, ma che si sono trovati a portare sugli schermi il risultato di un
lavoro congiunto. Proprio per dimostrare sino a che punto il film di cui ci
occuperemo sia un risultato unitario e coerente di una collaborazione fattiva
saranno utili le “premesse teoriche” che ci accingiamo a presentare.
1. Wim wenders: sguardo e racconto
“…Lo stare a guardare non poteva essere anche
un agire? Che si innestava su un evento e addirittura
lo trasformava? Un determinato spettatore non era
anche un possibile eroe? Non avevo sperimentato, sia
con il mio sguardo su un altro o al contrario lo
sguardo dell’altro su di me, come lo stare a guardare
prevenisse un atto di violenza, togliesse l’aria a un
ruggito, stimolasse una mossa del gioco, cambiasse la
sventatezza in serietà, spazzasse via un’illusione,
eliminasse l’oggetto di un’oppressione? Uno sguardo
simile, diventato immagine, lo vidi una volta sui volti
di Giotto: lunghi occhi che si restringono, quasi
sfiorassero soltanto gli avvenimenti e al tempo stesso
vi partecipassero profondamente. Uno stare a
9
guardare di quel genere metteva ordine, ritmava,
rischiarava….”
1
Queste le parole che Peter Handke usa in una delle sue ultime opere, Il
mio anno nella baia di nessuno. L’amicizia e la lunga collaborazione dello
scrittore austriaco con Wim Wenders in qualità di sceneggiatore di film
tratti da sue opere letterarie è solo l’aspetto più superficiale di una affinità
di pensiero che ha radici profonde che andremo a scoprire. In questo breve
estratto troviamo già molti spunti di riflessione che riprenderemo trattando
la teoria wendersiana sulla visione (e sulle immagini) e sul fare cinema, o
meglio, sulla “scrittura cinematografica”.
* Il rapporto tra l’immagine e la storia: autenticità
e falsificazione
Il problema della narrazione nel cinema, del raccontare oppure non
raccontare delle storie attraversa l’intera filmografia wendersiana,
evidenziando una dicotomia ben precisa tra due istanze: L’Immagine e la
Storia. Per Wenders, che non ha mai mancato di ricordare la sua giovanile
passione per la pittura e la sua formazione prettamente figurativa,
l’immagine è, o almeno è stata per un lungo periodo della sua carriera,
un’entità capace di aderire perfettamente al reale, il luogo cioè dove è
possibile ritrovare depositata la verità. Al contrario la Storia è una struttura
contrapposta ad essa, che lavora contro l’immagine, manipolandola e di
conseguenza facendole smarrire l’originaria e immediata aderenza al reale.
Nel libro fotografico Una volta Wenders afferma:
…è una cosa che non si riesce ad evitare: appena
accosti due quadri, se soltanto accosti due immagini
1
Peter Handke, Il mio anno nella baia di nessuno, Milano, Garzanti, 1994, p. 26.
10
l’una all’altra, l’effetto è quello dell’inizio di un
racconto. D’altra parte non mi sono mai fidato molto
di quest’aspetto dell’operazione, nel senso che il
montaggio non mi è mai piaciuto, l’ho sempre
considerato un po’ come un sacrilegio contro ogni
singola immagine. In un certo senso sono diventato
narratore contro la mia volontà, e credo che dai miei
primi film emerga con chiarezza questa mia sfiducia
nelle storie. Mi pareva che introducessero
immediatamente un elemento di bugia, come
un’assenza di verità, mentre invece ogni singola
immagine possiede in sé tutta la verità necessaria,
che va subito persa appena quella stessa immagine
viene inserita in un contesto…
2
Oltre a “falsificare” il reale, la Storia molto spesso impedisce addirittura
di vedere, condiziona gli eventi, ingabbia i personaggi dentro un intreccio.
Si tratta, in ultima istanza, di un rapporto conflittuale che è soprattutto
contrapposizione tra due linguaggi: quello del cinema americano e quello
del cinema europeo, o comunque non americano, se consideriamo i
riferimenti wendersiani al cinema giapponese, di Ozu in particolare.
L’ideologia wendersiana è distante da quell’eccessiva dipendenza
dall’intreccio e dai suoi imperativi, va alla ricerca di un modo
anticonvenzionale di narrare, che rifiuti gli stereotipi della drammaturgia
classica e prediliga i cosiddetti “tempi morti” dell’azione, utilizzi la
narratività insita nelle singole immagini e, soprattutto, invece dell’abituale
contrapposizione tra istanza descrittiva e istanza narrativa, assuma la
‘descrizione’ come altra forma di ‘narrazione’
3
. L’esempio più significativo
è dato dal rapporto con il paesaggio: la cui descrizione, specie quando si
2
Il brano è tratto dall’intervista di Wenders con Leonetta Bentivoglio inserita con il titolo
“Viaggio tra immagini parole e città” nel volume Wim Wenders, Una volta, Roma, Socrates, 1993,
p. 385.
3
Filippo D’Angelo, L’atto di narrare – Scrittori, angeli, detective nel cinema di Wim Wenders, in
AA.VV., Wim Wenders: il cinema dello sguardo, Firenze, Loggia de’ Lanzi, 1995, p. 24.
11
tratta di paesaggi tedeschi, costituisce uno dei momenti fondamentali della
storia del film.
* Il primo Wenders: la prevalenza delle immagini
Soprattutto nei primi film a Wenders interessa collezionare immagini e
lasciare che parlino da sole, e ad esse legare poi qualche commento
musicale adeguato. Un approccio fenomenologico nei confronti della realtà,
teso a rispettarne la continuità spazio temporale. L’idea di cinema del
giovane Wenders è tutta in questo atteggiamento contemplativo adottato al
cospetto del reale, che comporta il rifiuto della parola e la paura, già
sintomatica, di ‘tagliare’, manipolare le immagini, di costringerle a servire
una storia:
È maggiormente il fatto di contemplare che mi ha
affascinato facendo dei film, che il fatto di
trasformare, di muovere o di mettere in scena. Che si
possa scoprire qualcosa, che qualcosa possa colpirci,
trovo ciò molto più importante che fare qualcosa di
preciso. Ci sono dei film nei quali non si può scoprire
niente perché non c’è niente da scoprire; tutto salta
agli occhi e tutto è fatto perché si comprenda e si
veda sotto tale angolazione e in maniera univoca.
4
Il fluire della realtà e lo scorrere del tempo sono troppo importanti per
essere manipolati. Spesso Wenders suggerisce possibili narrativi ma li
confina nell’inespresso, azzera la centralità del personaggio, che viene
privato di importanza e trattato come una “cosa”, quasi appiattito sullo
sfondo che lo circonda. La storia diventa non più il punto di partenza, rigida
4
Filippo D’Angelo, Wim Wenders, Milano, Il Castoro, 1994, p.4.
12
griglia nella quale disporre i personaggi e lo sviluppo degli eventi, ma il
prodotto finale, raggiungibile solo “dopo”, alla conclusione di un percorso.
“Preferisco che le storie o le azioni si addizionino e formino alla fine
una storia”- dichiara uno dei due protagonisti in viaggio di Im Lauf der Zeit
(Nel corso del tempo, 1975).
E il viaggio come condizione esistenziale è necessario perché questo
possa avvenire, è la concretizzazione, la figurativizzazione di questo
processo; è una catena di immagini che usa la storia come pretesto per
crearne continuamente di nuove.
* Il recupero della storia per guarire la “malattia
delle immagini”
Ma sorge un problema fondamentale: nell’epoca post-moderna le
immagini sono ridotte a simulacro di se stesse e la storia potrebbe assumere
per esse valore di antidoto in questa situazione: da una parte consente
infatti di sfuggire all’estetismo delle immagini, allo stereotipo
dell’immagine fine a se stessa; dall’altro, svanita progressivamente la
capacità dell’immagine di rivelare il mondo, offre una nuova opportunità di
descrivere e comprendere il reale.
Poco prima del finale di Bis ans Ende der Welt (Fino alla fine del
mondo, 1991) il narratore annuncia: “Non conoscevo la cura per la malattia
delle immagini, ma credevo nel potere delle parole e delle storie.” Per
coloro che conoscono Wenders sin dai suoi primi film, queste parole
segnano quasi un’esplosione. Wenders stesso è d’accordo con questa
sensazione: “Mi sarei stupito più di chiunque altro sentendo quello che dice
13
il narratore se lo avessi sentito qualche anno fa…”
5
Sembra che il regista
tedesco sia giunto ad apprezzare gli elementi narrativi nel cinema, come
qualcosa che “mette ordine” nella confusione generata oggi dalle nuove
immagini video, digitali, ad alta definizione.
Questa immagine si fa “infida e maledetta”, come la definisce Fernaldo
Di Giammatteo
6
, e incombe in molti film dell’ultimo Wenders
7
sotto forma
di riproduzione e di doppio: qua e là schermi televisivi e monitor, anche
spenti, ma non per questo meno inquietanti, ricordano che l’universo in cui
si muove oggi l’uomo non è più quello della natura e si carica di ambiguità
e di mistero che celano il vero senso della realtà. Si tratta di una tipologia di
immagini che possiamo ricollegare all’ “oggettiva densa” individuata da
Vincenzo Buccheri
8
: vengono messi in scena monitor e schermi video che
indicano una sorta di sguardo raddoppiato del film, che torna su se stesso,
dimostrando che anche la presunta realtà può rivelarsi qualcosa di ambiguo
e ricostruito, dal momento che l’immagine che viene presentata dal video è
analoga a quella della cinepresa.
Due presenze costanti del cinema wendersiano, da un lato il senso di
perdita che va catturato, affidato all’immagine perché si costituisca in
memoria, dall’altro la spinta ad una sorta di “ricominciamento”, un bisogno
di ritrovare un originario potenziale che si è andato consumando nella
‘malattia dell’immagine’. La MALATTIA è provocata dalla quantità delle
immagini: questo eccesso ha prodotto una perdita di differenze, forse una
5
Intervista a Wenders di S. Levy, Until the end of the world, pubblicata in “American Film”,
XVII/1, gennaio-febbraio 1992; pp. 51-52.
6
Fernaldo Di Giammatteo, Un cinema della fragilità, in AA.VV., Wim Wenders, il cinema dello
sguardo,cit., p. 18.
7
Si veda ad esempio la vicenda al centro del film The End of Violence (Crimini invisibili, 1997).
8
Vincenzo Buccheri, Vent’anni dopo, in “Segnocinema”, n. 82, novembre-dicembre 1996, pp. 2-3.
14
estetizzazione totale che ha reso tutto omogeneo, impoverendo, riducendo
lo spessore, rendendo l’occhio solo ricettivo e quasi saturo. È questo il
cinema “pornografico” di cui si parla in Im Lauf der Zeit e sono
significative le parole che, nel film, Wenders fa pronunciare alla donna che
gestisce il cinema “Weisse Wand” (Schermo bianco): “…Mio padre diceva
che il cinema è l’arte del vedere. Per questo non posso più mostrare questi
film che sfruttano solo ciò che è ancora sfruttabile, nella testa e negli occhi
della gente. Non mi costringeranno a mostrare film da cui la gente esce
indurita e abbruttita dalla stupidità. Film che distruggono ogni gioia di
vivere e annientano ogni sentimento del mondo e di se stessi…”
9
Parole
pesanti e cariche di significato soprattutto in ragione di quello che sta
avvenendo nel cinema contemporaneo.
Di fronte a questo stato di cose Wenders propone un’operazione che va
in duplice direzione: per un verso si interroga sulla natura (e quindi sulla
funzione) del proprio linguaggio, per l’altro (e conseguentemente) indica
una necessità di recupero dell’originarietà perduta. L’interrogativo del
regista mira ad estendersi, a coinvolgere più generalmente, i linguaggi della
riproduzione, quel ‘mettere in doppio’ la realtà che è atto tutt’altro che
meccanico e ‘innocente’.
* L’immagine come memoria, l’immagine come
autenticità
Già l’osservazione denota la visione come operazione complessa,
problematica (ecco i riferimenti wendersiani a Ozu e ad Antonioni), come
intervento e percorso nel tempo: un vero e proprio atto, un agire che è anche
9
Il brano qui riportato è citato nell’opera Wim Wenders, L’idea di partenza, Firenze,
Liberoscambio, 1983, p.150-151.
15
intervenire sul reale. Concetto che Wenders fa enunciare anche (ancora) dal
detective Dean Brock ‘Doc’ (Loren Dean) di uno dei suoi film più recenti,
The End of Violence (Crimini invisibili, 1997), in un dialogo con Paige
(Andie McDowell): “Pensi, è sufficiente guardare una cosa per alterarne la
natura. La si può perfino distruggere. È come accendere la luce per vedere
l’oscurità. E ciò che guardiamo può alterare noi.”
In Wenders, come afferma Paolo Bertetto, “vedere è appropriarsi del
mondo e darne una appropriata rappresentazione, per questo la visione è
origine e centro del cinema: il regista lavora sulle immagini, riflette sui
contorni opachi delle cose per far apparire l’esistere nascosto”
10
. In questo
senso l’osservazione del regista è interpretazione del mondo, ma
interpretazione profonda e accurata di uno sguardo attivo e insaziabile, e
che non deve provocare selezioni. Anche per questo raccontare per
Wenders è un problema: perché significa correre il rischio della limitazione,
la tendenza alla semplificazione.
Ecco dove la dilatazione della visione indicata da Antonioni influenza
Wenders: lo sguardo è un segno inquieto che risponde alla dilatazione degli
avvenimenti stessi, si prolunga nel tempo, sperimenta la lunghezza del
vedere o il vedere come lunghezza ‘orizzontale’ nello spazio e nel tempo.
Mostra qualcosa che va al di là del momento. Occorre lasciare alle cose il
tempo di manifestarsi interamente e mostrare così la propria faccia segreta,
restare sulle cose, prolungare l’osservazione perché “appaiano dietro i
contorni opachi degli eventi le linee essenziali dell’inespresso. Dilatare il
tempo filmico è l’unico modo perché sia possibile realizzare in profondità
una scomposizione analitica del reale, una decostruzione del vivente senza
10
Paolo Bertetto, Questo deserto è una fata morgana, introduzione a Wim Wenders, L’idea di
partenza, cit., p. 13
16
perdere la misura espressiva e senza venir meno alle regole codificate del
narrare cinematografico.”
11
Lo sguardo è un percorso alla ricerca di una identità, ed è un confronto
con il tempo. Al fondo dell’immagine c’è un’autenticità da riconquistare, la
semplicità di cui parla Wenders, che vuole indicare l’apertura dello
sguardo, la sua enorme potenzialità iniziale. Lo sguardo permette infatti di
riappropriarsi dello spazio e del tempo: e in questo il cinema è apertura, non
definisce ma svela queste coordinate.
Era logico che in questo percorso riqualificante Wenders si ponesse, e
ponesse, interrogativi riguardanti il racconto: si può ancora raccontare una
storia? Ha senso? Perché nel film deve esserci sempre una storia compiuta
se nella vita il tempo passa senza coagularsi mai in una vera storia?
12
Il punto cruciale è proprio qui, nel rapporto tra immagini e racconto. Ma
Wenders non ha risposte sicure perché le domande vanno calate nel
contesto di una progressiva invasione di immagini; e allora si capisce come,
in seguito, sia proprio nel racconto, nella sua capacità di organizzare
l’informe, che il regista sembrerà vedere l’ancora di salvezza. Lo sguardo
capace di creare un ordine in un mondo sempre più confuso.
11
Paolo Bertetto, La dilatazione, l’ellissi, in Wim Wenders, Materiali del Circuito Cinema a cura
dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Venezia, 1985; pp. 2-3.
12
Giorgio Tinazzi, L’insaziabilità dello sguardo, in AA.VV., Wim Wenders, il cinema dello
sguardo, cit., p. 53.