9
INTRODUZIONE
L’Unione europea costituisce un esempio di organizzazione internazionale unico nel
suo genere. Senza addentrarci però su questioni relative ad un infinito dibattito sulla sua
natura, che poco hanno a che fare con la ragione d’essere di questo studio, ciò che a noi
interessa sottolineare è che l’UE ha istituito numerose politiche che coinvolgono tutti gli
(attualmente 27) Stati membri. Tra queste, parziale oggetto di questo studio è una politica
di importanza unica, che coinvolge le intere superficie e popolazione dell’Unione europea
1
e che si serve di un bilancio settennale che nel corrente periodo di programmazione (2007-
2013) è pari a 347 miliardi di euro
2
corrispondenti allo 0,38% del PIL totale dell’UE.
Seconda politica europea dopo la PAC
3
in ordine di assorbimento delle risorse, essa è la
politica di coesione, e ne descriveremo qui i principali metodi valutativi usati in ambito
scientifico, concentrandoci specialmente sull’approccio quantitativo utilizzato in ambito
macroeconomico. Questo si serve, come strumenti di analisi, specialmente di modelli
macroeconometrici, alcuni dei quali saranno il principale oggetto della nostra riflessione
nello svolgersi dello studio.
Il testo è suddiviso in tre capitoli, ai quali si aggiungono alcune considerazioni
conclusive. Ogni capitolo di questo studio, con l’ovvia eccezione del terzo, è congegnato in
modo da fornire al lettore un insieme di conoscenze e nozioni utili a fornire un contesto il
più possibile completo al nodo della trattazione, identificabile con il terzo capitolo.
Il primo capitolo è dedicato alla presentazione della politica di coesione dell’UE. In
esso per prima cosa si cerca di spiegare i motivi politici ed economici che hanno portato i
governi degli Stati dell’allora Comunità europea a creare di concerto questa politica
comune, il cui obiettivo generale è quello di ridurre il divario di sviluppo e ricchezza tra le
varie regioni europee. In secondo luogo, poi, ci si soffermerà a lungo sull’attuale periodo
di programmazione 2007-2013 illustrando l’architettura attuale della politica, i propri
obiettivi di fondo ed i criteri di suddivisione, spesa e valutazione delle risorse ad essa
attribuite. Le informazioni contenute in questa parte centrale del capitolo costituiscono il
1
L’UE si estende su una superficie totale di oltre 4.300.000 km
2
e comprende nell’anno 2012 una
popolazione totale di oltre 503 milioni di cittadini europei (Eurostat).
2
Prezzi dell’anno 2007.
3
Politica agricola comune.
10
punto di partenza per capire il funzionamento della politica e dei propri strumenti,
conosciuti come Fondi strutturali e Fondo di coesione, e saranno riprese più avanti nella
trattazione. Negli ultimi due paragrafi del capitolo viene inoltre brevemente effettuata
un’indagine cronologica sui documenti di maggiore importanza in tema di politica di
coesione pubblicati nel corso del presente settennato di programmazione, unitamente alla
presentazione delle proposte legislative per il settennato 2014-2020 pubblicate
nell’autunno 2011 dalla Commissione europea. Dall’analisi di questi documenti di impulso
e di proposta si cercherà sinteticamente di capire quale sia l’avvenire di questa politica dal
punto di vista del rapporto con l’attuale crisi economica e politica nel quadro generale
dell’UE, degli obiettivi di fondo, delle risorse attribuite e dei criteri di azione.
Nel secondo capitolo si inizierà ad affrontare il tema dei metodi valutativi dell’impatto
della politica di coesione. In questo capitolo l’obiettivo sarà quello di schematizzare i vari
metodi utilizzati e descriverli sinteticamente uno ad uno, sempre mantenendo un punto di
vista generale e cercando di non scendere troppo nel dettaglio. Un’avvertenza appare qui
necessaria: cercare di capire se gli interventi abbiano sortito effetti positivi è un’operazione
che non può essere portata a termine correttamente se non si tiene conto allo stesso tempo
di quali siano gli obiettivi della politica e i risultati che essa si pone di raggiungere.
Vedremo come i metodi di valutazione dell’impatto della politica di coesione possano
essere suddivisi lungo due direttrici principali, quella relativa alla forma del risultato nel
report di valutazione (qualitativo vs quantitativo) e quella relativa alla dimensione
geografica di investigazione (microeconomica vs macroeconomica). Un terzo criterio di
classificazione è rappresentato, poi, dal momento in cui il metodo viene applicato, ovvero
se prima (ex ante) o dopo (ex post) gli interventi. In base a questi criteri descriveremo per
primo un metodo di raccolta di informazioni a livello micro chiamato case studies, utile
per valutazioni di tipo qualitativo. Se queste ultime si caratterizzano per il proprio stile
puramente narrativo, gli altri metodi di valutazione descritti in seguito tentano di fornire
una risposta che faccia leva su giustificazioni basate su numeri. I metodi quantitativi per
primi descritti sono quelli a livello microeconomico, rispettivamente utilizzati ex ante per
la selezione di interventi alternativi ed ex post per la valutazione del loro impatto mediante
lo strumento teorico del controfattuale. Passando poi al campo di nostro maggiore
interesse, ovvero quello della disciplina macroeconomica, il paragrafo 2.5 si occupa di
offrire al lettore una panoramica delle caratteristiche principali di un modello
11
macroeconometrico, dei passi da seguire nel procedimento valutativo e del perché questo
metodo si fa preferire in alcuni aspetti piuttosto che in altri. Questo paragrafo risulterà
particolarmente utile per affrontare il capitolo successivo. Chiudono il capitolo i risultati di
alcune ricerche empiriche sulla convergenza del PIL nelle regioni europee ed alcune
considerazioni conclusive.
Il terzo ed ultimo capitolo affronta quello che può essere definito il tema principale di
tutta la trattazione: un confronto tra i modelli macroeconometrici più rappresentativi nella
valutazione macroeconomica dell’impatto dei programmi della politica di coesione.
Nonostante esso sia il capitolo più voluminoso e impegnativo, la sua struttura è piuttosto
semplice. Un paragrafo introduttivo descrive in primo luogo attraverso quali canali di
trasmissione vengono inseriti, solitamente, i flussi finanziari legati ai Fondi della politica di
coesione. Successivamente, i paragrafi dal 3.2 al 3.6 analizzano singolarmente i cinque
modelli macroeconometrici scelti: Hermin, Quest III, EcoMod, Rhomolo e GIMF. In
ognuno di questi paragrafi ogni modello viene dapprima descritto nella sua struttura
generale, per poi passare a come essi includono al proprio interno i Fondi strutturali e ai
risultati prospettati nelle loro simulazioni. I risultati quantitativi da essi prodotti spaziano
su più fronti: dalla crescita del PIL ai risvolti su occupazione, investimenti, produttività dei
fattori, bilancia commerciale e molti altri indicatori macroeconomici. Vari grafici e tabelle
permetteranno di visualizzare gli effetti quantitativi previsti dai cinque modelli. Il
paragrafo 3.7, posto in conclusione del capitolo, effettua una comparazione tra i cinque
modelli su due livelli: quello della loro struttura e quello dell’intensità dei benefici previsti
in particolare riguardo la crescita del PIL e dell’occupazione. Per correttezza anticipiamo
qui che la scelta dei modelli è stata dettata da considerazioni relative alla diffusione del
loro utilizzo ed alla presenza di documenti aggiornati al presente settennato di
programmazione (2007-2013).
Alcune considerazioni riassuntive chiudono il testo. Nelle conclusioni si riflette in
maniera sintetica sui risultati delle simulazioni dei modelli presentati nel terzo capitolo e
sul ruolo importante e difficoltoso svolto dai costruttori di modelli macroeconometrici.
Crediamo che tali metodi di valutazione abbiano caratteristiche assolutamente uniche
poiché cercano di riprodurre la complessa rete di interazioni esistente in vaste aree
12
economiche e di fornire, non senza una dose di sana audacia, risultati quantitativi per un
importante numero di indicatori macroeconomici.
Ma lo scopo di questo intero studio non è tanto comparare i vari modelli per vedere,
come in una competizione, quale sia il “migliore” tra di essi. Quello che invece ci si è
posto di fare in questa trattazione è capire come i modelli macroeconometrici possano
essere utilizzati nel contesto della valutazione di una politica pubblica, nella fattispecie
quella di coesione dell’UE. Nella loro complessità e varietà si è cercato inoltre di
individuare, attraverso la rassegna di alcuni esempi, quali siano le loro peculiarità rispetto
agli altri metodi di valutazione. L’auspicio da parte di chi scrive è che ci si sia riusciti con
chiarezza.
13
CAPITOLO I
LA POLITICA DI COESIONE DELL’UE
In questo primo capitolo tratteremo gli aspetti principali della politica di coesione
dell’Unione Europea. Piuttosto che illustrare l’evoluzione di questa politica attraverso una
panoramica storica che poco si collegherebbe con il resto della trattazione, il presente
capitolo cerca di offrire una risposta ai quesiti seguenti riguardanti questa politica: perché,
a cosa serve, con quali mezzi, e quali sono le sue prospettive. Ci concentreremo soprattutto
sul presente periodo di programmazione e sui segnali, provenienti dal dibattito sul tema e
dalle proposte legislative della Commissione, riguardo quella che potrebbe essere la
politica di coesione in prospettiva 2020. Prima di cominciare però, appare corretto fare
chiarezza tra i termini “politica regionale” e “politica di coesione”. I due termini in realtà
sono spesso scambiati nella letteratura in materia e persino nelle pubblicazioni della
Commissione europea, ma non sono sinonimi. La differenza sta nel fatto che la politica di
coesione è finanziata dal FESR, dal FSE e dal Fondo di coesione, e perciò è un concetto
più ampio della politica regionale, la quale è collegata specificatamente alle attività del
FESR. Ci riferiremo quindi a quella di coesione come la politica unitaria ed organica che
scaturisce dalla riforma dei fondi strutturali attuata nel 1988 dalla Commissione presieduta
allora da Jacques Delors, e che compirà perciò 25 anni di vita con la scadenza del presente
periodo di programmazione coincidente con il Quadro Finanziario Pluriennale 2007-2013.
Il presente capitolo vuole affrontare in primo luogo le ragioni di fondo dell’esistenza di
questa politica europea. Ragioni di molteplice natura, principalmente politiche ed
economiche, che verranno discusse rispettivamente nei paragrafi 1.1, di impianto più
generale, e 1.2, con maggiore attenzione alle teorie economiche alla base. Il paragrafo 1.3
affronta la rivoluzione dell’allargamento dell’Unione europea verso i paesi dell’Europa
orientale ed accenna brevemente a quali siano state le conseguenze principali sulla
geografia e sull’impianto di fondo della politica di coesione. Una più ampia panoramica
della corrente periodo di programmazione della politica di coesione è illustrata nel
paragrafo 1.4. Per quanto ricca di nozioni, si è cercato di rendere la trattazione sintetica ed
essenziale, data la complessità della materia, per cui alcuni elementi come il ruolo della
Banca europea per gli investimenti (BEI) sono stati volontariamente trascurati. Da lì si è
proceduto seguendo un filo cronologico, pertanto i paragrafi successivi 1.5 e 1.6 si
incentrano sul dibattito verso una politica di coesione post 2013. Il paragrafo 1.5 presenta
14
una serie di idee incluse in documenti istituzionali che hanno dato impulso al dibattito
pubblico sul tema, ed hanno ispirato in buona parte le proposte legislative che la
Commissione europea ha adottato nell’ottobre 2011. Queste ultime sono oggetto di una
breve descrizione dal successivo ed ultimo paragrafo del capitolo (1.6).
1.1 Perché una politica di coesione in Europa?
Esistono disparità notevoli tra le regioni dell’UE per quanto riguarda sia il prodotto
interno lordo, sia i livelli di occupazione e di reddito. Le regioni più ricche rispetto alla
media UE sono principalmente concentrate in Gran Bretagna, in Olanda, in Belgio, nel
sudovest della Germania, nell’Austria occidentale e nell’Italia del nord, mentre la parte sud
est del territorio europeo che raggruppa Italia meridionale, Grecia e PECO registra un
livello di PIL generalmente ben al di sotto della media UE. La politica di coesione dell’UE
esiste in ragione della presenza di queste disparità economiche e sociali interregionali ed il
suo scopo è quello di ridurle.
L’obiettivo della “coesione economica e sociale” fu una novità introdotta dall’Atto
unico europeo
4
che era destinata a trovare uno sviluppo nella creazione, sulla spinta della
Commissione Delors, di una riforma dei Fondi strutturali. La Commissione europea inviò
così alcune proposte di riforma al Parlamento europeo ed al Consiglio, tra le quali è da
sottolineare la Comunicazione del 15 febbraio 1987 intitolata “Portare l’Atto unico al
successo – Una nuova frontiera per l’Europa”, poi meglio conosciuta come primo
pacchetto Delors. In questo documento la Commissione suggeriva nuove regole che
migliorassero la disciplina finanziaria collegata all’uso dei Fondi, in particolare la
creazione di una prospettiva finanziaria pluriennale all’interno della quale racchiudere
armoniosamente la gestione dei Fondi. Alla luce delle conclusioni del Consiglio Europeo
di Bruxelles dell’11 e 12 febbraio 1988 le tre istituzioni conclusero il 29 giugno 1988 un
accordo interistituzionale che stabilì così per la prima volta una prospettiva finanziaria
della durata di 5 anni, dal 1988 al 1992. Questa rivoluzione del bilancio, oltre ad
accompagnare la nascita della politica di coesione, portò ad un consistente aumento delle
risorse destinate ai Fondi strutturali, passando così ad assorbire dal 16% al 30% del budget
4
Art 130 A (così come aggiunto dall’AUE al Trattato Cee): “Per promuovere uno sviluppo armonioso
dell'insieme della Comunità, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento
della sua coesione economica e sociale.
In particolare la Comunità mira a ridurre il divario tra le diverse regioni ed il ritardo delle regioni meno
favorite.”
15
UE. Anche il metodo di gestione degli strumenti finanziari subì una radicale
trasformazione. FESR, FSE e FEOGA avrebbero dovuto adesso finanziare dei programmi
ideati con approcci più bottom-up, quindi con maggiore coinvolgimento delle regioni, in
nome di quel principio di sussidiarietà che avrebbe trovato un posto importante nel
successivo Trattato di Maastricht (Comm., 2008 a).
Prima del big bang del 1988 molti temi e circostanze storiche infiammavano i modi di
fare policy making in seno alla Comunità europea. In primo luogo il momentum
istituzionale di particolare importanza. Il primo pacchetto Delors chiedeva agli Stati
membri che più avrebbero beneficiato del completamento del mercato unico uno sforzo
atto a finanziare maggiormente la nascente politica di coesione, la quale veniva percepita
come un meccanismo che alleviasse le distorsioni e le esternalità negative prodotte dalla
maggiore integrazione del mercato comune. In aggiunta i soldi provenienti dagli Stati
membri contribuenti netti sarebbero stati vincolati ad un controllo serio di
programmazione, valutazione e controllo esercitato dalla Commissione. In secondo luogo
si faceva strada l’approccio decentralista
5
delle politiche di sviluppo che portò tra l’altro
nel 1992 alla creazione del Comitato delle Regioni. In terzo luogo, con il balzo in avanti
prospettato dal mercato unico era necessario procedere con politiche che rappresentassero
un’integrazione non più solo “negativa” ma anche “positiva”. Vale a dire che dopo la lunga
fase della rimozione di barriere fisiche e giuridiche preliminare alla costruzione del
mercato unico, si sentiva la necessità di procedere con azioni che apportassero correzioni
alle conseguenze più spiacevoli che da solo, il mercato unico avrebbe esacerbato.
Varie teorie politiche, poi, hanno fornito spiegazioni all’accelerazione che portò alla
riforma dei Fondi strutturali. Dal punto di vista della scuola intergovernativista infatti la
riforma dei Fondi strutturali non fu nient’altro che una compensazione economica che gli
Stati membri più economicamente arretrati ricevettero per accettare l’ampliamento e
l’approfondimento dell’integrazione europea, e la successiva creazione di un’unione
monetaria. Successivamente all’entrata nella Comunità europea di Grecia nel 1981 e di
Spagna e Portogallo nel 1986, le disparità regionali venivano infatti ad ampliarsi in
maniera significativa. Questo fatto, sommato al rinnovato impulso che l’Atto unico
europeo imprimeva al completamento del mercato unico e ad una più profonda
5
Decentralismo, o più specificamente devoluzionismo è quel trasferimento amministrativo di autorità
decisionale dal governo centrale ad enti locali semi autonomi.
16
integrazione tra gli Stati membri, pose la questione di trovare un modo per controbilanciare
gli squilibri che sarebbero venuti ad aumentare ulteriormente. Una questione perciò
prettamente politica secondo questo punto di vista, che fu risolta con la riforma del 1988.
Ma se la politica di coesione fu solamente il risultato di un compromesso politico, per
quale motivo si è evoluta negli anni successivi, fino ad oggi e fino, nell’inquadramento a
cui successivamente faremo cenno, al 2020? Senza dubbio c’è nell’approccio
intergovernativo un fondo di verità, ma è pur vero che questa politica europea, assieme alla
valuta comune ed al mercato unico, ha contribuito a plasmare un modello europeo di
sviluppo che guidi e non sia guidato dalle sole forze di mercato, cercando di equilibrarle.
L’aiuto finanziario mirato a progetti che promuovano una crescita di lungo periodo basata
su infrastrutture moderne e sull’investimento in capitale umano ha come obiettivo la
convergenza economica tramite l’accelerazione della crescita nelle regioni più
svantaggiate. Un modello, questo, che poggia ormai stabilmente sul concetto di coesione
economica e sociale e che è oggetto di attenzioni anche dalle potenze emergenti come i
Bric
6
(Comm., 2008 a). Pertanto non si può interpretare la nascita e l’evoluzione della
politica di coesione come mera realpolitik, o almeno non solo descrivendola come un
compromesso politico che mise in moto un meccanismo redistributivo. Vi presero parte ed
ebbero un ruolo anche circostanze storiche, ideali e, last but not least, teorie
macroeconomiche.
1.2 Teorie economiche alla base
Gli sviluppi della teoria macroeconomica ebbero, così, grande peso nel convincere Stati
membri ed istituzioni europee che fossero necessari un aumento di budget ed una riforma
dei Fondi orientata all’aumento della crescita a lungo termine e volta a ridurre gli squilibri
di ricchezza. Un ruolo determinante fu ricoperto dalla riscoperta di teorie che si
focalizzavano sui processi di localizzazione geografica delle aree di sviluppo (Farole et al.,
2011). Infatti per buona parte del periodo tra gli anni ’60 ed ’80 del secolo scorso le teorie
del commercio e dell’integrazione non prendevano in considerazione la possibilità di
formazione di zone in cui la ricchezza e la produzione si concentrassero autonomamente in
agglomerati (cluster), sia a livello di città e regioni, sia a livello nazionale, e che questi
generassero divergenze di reddito di lungo periodo. I modelli neoclassici dell’epoca
6
Acronimo che sta ad indicare le iniziali dei paesi Brasile, Russia, India e Cina.
17
enfatizzavano l’equità e l’uniformità delle forze di mercato che, attraverso la riduzione di
barriere al commercio e l’integrazione economica, avrebbero portato ad un aumento
dell’efficienza nell’utilizzo dei fattori e quindi ad un aumento del reddito pro capite. Inoltre
la teoria neoclassica convenzionale prevede che le regioni più povere tendano ad una
maggior crescita rispetto alle regioni più ricche, poiché, e questo è il punto chiave,
entrambi i tipi di regioni convergono verso lo stesso livello di ricchezza. Ma il sostegno
empirico a queste teorie di convergenza “automatica” scarseggiava se prendiamo come
riferimenti le regioni più sviluppate d’Europa in rapporto a quelle più svantaggiate. Sul
finire degli anni ’80 appariva chiara la tendenza verso un aumento delle disparità tra le
regioni core e periphery
7
d’Europa. I modelli neoclassici avevano un altro tallone
d’Achille: la scarsa capacità di prevedere i meccanismi di crescita di lungo periodo. Infatti
il progresso tecnologico, considerata la variabile dominante nella creazione di questo tipo
di crescita veniva rappresentata come variabile esogena.
Il fallimento del modello base neoclassico nel fornire una spiegazione soddisfacente
alla crescita del reddito procapite di lungo periodo è stato il punto di partenza per le
“nuove” teorie che endogenizzavano la crescita. Esse si concentrano per spiegarla
sull’accumulo dei fattori, e possono essere suddivise in due rami, le teorie che enfatizzano
il ruolo del capitale umano e quelle che identificano il progresso tecnologico come
creazione di conoscenza innovativa. Questi fattori hanno rendimenti di scala non
decrescenti. Entrambe le teorie sulla crescita endogena sono caratterizzate da una qualche
forma di esternalità. La corrente che si basa sul capitale umano teorizza che il tentativo
dell’individuo di accrescere la propria abilità porti miglioramento della produttività anche
di altri lavoratori e del capitale fisico. Allo stesso modo, l’investimento in innovazione
accrescerà la quantità pubblica di conoscenza. L’esistenza di queste esternalità, perciò
implica che l’allocazione delle risorse operate dal mercato può non essere ottimale,
lasciando lo spazio ad un possibile intervento politico (Comm., 1997). L’integrazione
economica è perciò spiegata da questi teorici come un processo che, se non correttamente
7
Con i termini core e periphery si intendono aree geografiche (paesi, città, regioni, Stati…) tali che il primo
gruppo è rappresentato da quelle aree di maggior crescita e prosperità economica, mentre il secondo gruppo è
composto dalle aree periferiche, più stagnanti e povere. In breve, la teoria “core-periphery” sostiene che
l’attività economica non raggiunge da sola un equilibrio geografico e ciò implica l’impossibilità di un
livellamento e di convergenza tra le aree core e le periphery, descrivendo i gruppi come immobili nelle loro
disparità economiche, o addirittura prevedendo un aumento della divergenza nel tempo.
18
indirizzato, potesse provocare un ampliamento delle disparità economiche a tutto
vantaggio delle regioni più ricche all’interno degli Stati, ed a discapito di quelle più
povere.
Ricapitolando, sebbene l’integrazione europea avesse promosso una convergenza a
livello di Stati, era pur vero che le disuguaglianze interregionali all’interno degli Stati
stessi erano tendenzialmente aumentate. Queste tendenze alla divergenza di ricchezza sono
spiegate dalla teoria da:
l’assunto che tecnologia, l’innovazione e capitale umano generino crescita;
l’integrazione geografica dei mercati accompagnata dalla frammentazione
geografica della produzione;
la persistenza di differenze istituzionali nonostante l’integrazione.
Alla luce di ciò le tendenze all’agglomerazione geografica delle attività che generano
crescita di lungo periodo sono destinate a perseverare. Le forze di mercato che
effettivamente generano convergenza non sembrerebbero, secondo gli esponenti di questa
scuola, essere abbastanza forti per contrastare questo trend divergente.
Farole, Rodriguez-Pose e Storper (2011) individuano tre filoni di ricerca che si
occupano della comprensione dello sviluppo geografico generante contesti che seguono lo
schema core-periphery. Il primo è rappresentato dai modelli di “Nuova geografia
economica”, che sottolineano come l’integrazione del mercato, le economie di scala, i costi
di trasporto, ed il cosiddetto home market effect
8
concorrono alla concentrazione delle
attività economiche nelle regioni core. Inoltre, mercati del lavoro flessibili combinati con
le esternalità prodotte dal divario tecnologico rafforzano questa tendenza. Il secondo filone
è raggruppato dai modelli che endogenizzano la crescita, includendo e dando grande risalto
all’innovazione come motore di crescita tecnologica e qualitativa. Questi modelli
descrivono l’economia come una continua ricerca di maggior efficienza e di produttività
ma in cui il potenziale di riuscita è distribuito in maniera non uniforme geograficamente.
Essi hanno in comune con la “geografia economica” l’attenzione per l’innovazione ed i
processi di creazione della conoscenza, quel capitale umano che opera grazie alla sua
diffusione attraverso l’istruzione. Una terza scuola di ricerca sostiene che le istituzioni
8
L’home market effect è un prodotto della funzione di minimizzazione dei costi di trasporto, secondo la
teoria della nuova geografia economica. I produttori seguono un comportamento che li spinge a localizzarsi
in un luogo prossimo a quello della domanda finale, cercando di minimizzare il più possibile i costi di
trasporto.
19
sono le variabili che più possono influenzare lo stato di vicinanza di una regione rispetto
alla sua frontiera tecnologica, in quanto sono le istituzioni a determinare la capacità di uso
e sviluppo delle proprie risorse disponibili. Fattori istituzionali possono così contribuire
alla concentrazione spaziale dello sviluppo economico dal momento che le capacità
istituzionali sono iniquamente distribuite, rafforzando la concentrazione delle attività più
avanzate particolarmente in contesti metropolitani. Proprio in questi luoghi si trovano
generalmente le risorse per attrarre capitale umano ed altre risorse che possano permettere
di investire in politiche di ricerca e sviluppo orientate ad una crescita duratura. Al
contrario, debolezze istituzionali e problemi amministrativi di varia natura possono dare
spazio a programmi di governo e politiche inappropriati al sostegno all’innovazione ed alla
crescita.
Tirando le somme, la nascita di una politica comunitaria atta a riequilibrare le differenze
di ricchezza attraverso l’investimento in innovazione ed allo sviluppo del capitale umano è
il risultato tradotto in azione politica di ricerche e progressi che varie scuole economiche
hanno apportato allo studio della geografia economica. Nel corso del tempo si è visto come
fino agli anni ’80 del secolo scorso il predominio teorico fosse appannaggio della scuola
neoclassica che prevedeva una convergenza dei livelli di ricchezza che avrebbe dovuto
prendere automaticamente piede a livello territoriale. Ma i cambiamenti strutturali
nell’economia mondiale nel decennio della deregulation
9
sembrano aver accentuato
l’importanza dell’innovazione per la crescita economica, e parimenti la tendenza verso una
formazione di agglomerati spaziali di ricchezza collegati anche all’azione qualitativa delle
istituzioni, le cui capacità di dare impulso all’innovazione sono distribuite in maniera
diseguale sul territorio, generalmente secondo lo schema core-periphery.
1.3 La questione dell’allargamento
Nel luglio 1996 la Commissione europea propose la cosiddetta “Agenda 2000” (Comm.,
1996), un documento che descriveva le prospettive di evoluzione per l’Unione europea e le
sue politiche, i problemi posti dall’allargamento e le linee guida per il quadro finanziario
9
Processo secondo il quale i governi eliminano le restrizioni al commercio e alla circolazione di capitali,
favorendo così, attraverso la rimozione di regole, gli effetti causati da una maggiore concorrenza. La
deregulation conobbe il suo momento di maggior impulso e diffusione negli anni ’80 sotto la spinta dei
governi Reagan negli Stati Uniti, e Thatcher in Gran Bretagna.
20
2000-2006. Un pacchetto legislativo in risposta al documento fu proposto nel marzo 1998 e
riguardava il nuovo quadro finanziario ed una riforma della politica agricola comune, della
politica di coesione e degli strumenti di preadesione. Ma il cambiamento maggiore della
struttura della politica fu simboleggiato da un nuovo “Regolamento generale”, per la prima
volta adottato dal Consiglio. Esso rimpiazzava il vecchio tipo di regolamento di
coordinamento, includendovi parte delle regole di implementazione. Proprio nel corso del
bilancio settennale 2000-2006 l’UE assistette al suo più massiccio allargamento con
l’entrata nell’Unione da parte di 10 nuovi Stati membri, i cosiddetti paesi PECO: Cipro,
Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca ed
Ungheria. Ciò ebbe anche delle implicazioni per la politica di coesione, non tanto riguardo
la sua architettura o i suoi principi guida, ma piuttosto per la distribuzione dei Fondi. La
popolazione dei cittadini dell’Ue aumentava del 20% a fronte di un aumento del PIL
dell’UE di solo il 5%. Ciò stava a significare che con questo così particolare allargamento
le disparità in reddito ed occupazione si trovavano a crescere enormemente. Basti pensare
che il PIL medio di questi paesi misurava meno del 50% della media UE 27, e il tasso di
occupazione della loro popolazione era del 56% contro il 64% dei paesi dell’UE 15
(Comm., 2008 a). Si verificava perciò un ribasso del PIL pro capite medio nell’UE, e fu
naturale conseguenza lo spostamento delle priorità di finanziamento territoriale. In altre
parole, erano adesso quasi tutte le regioni dei paesi nuovi arrivati a rientrare nei criteri di
eleggibilità
10
per l’allora obiettivo 1, quello che assorbiva il più alto livello di
finanziamenti della politica di coesione. Questa considerazione è da tener presente per la
prossima sezione in cui presenteremo il corrente periodo di programmazione della politica
2007-2013. Conseguentemente la gran parte dei paesi e regioni che erano stati beneficiari
fino al varo del corrente quadro finanziario ne hanno risentito, vedendosi ridotti gli
stanziamenti. Tra queste, molte regioni della penisola iberica e dei nuovi Länder tedeschi
annessi dopo l’unificazione. Di questo cambiamento per la politica di coesione avevano già
parlato Boldrin e Canova (2003) ed altri autori (CEPR, 2002) pochi mesi prima
dell’allargamento, proponendo alcuni percorsi di riforma. Uno sforzo quest’ultimo
piuttosto vano, poiché l’architettura della politica non è mutata. La preparazione
all’allargamento era comunque iniziata prima del 2004. Gli strumenti di preadesione atti a
preparare gli Stati candidati al migliore assorbimento dei Fondi dell’Unione, oltre che alla
10
Vedi par. 1.4.2
21
costruzione di un apparato amministrativo capace ed adeguato al compito, erano stati
attivati già dal quadro finanziario 1994-1999. Già quindi per il periodo 2004-2006, i nuovi
Stati membri hanno potuto godere di uno stanziamento complessivo di 22 miliardi di Euro
nel quadro della politica di coesione. Come vedremo, l’allargamento ha creato una
geografia della politica di coesione molto ben definita, trasformandola quasi in una politica
post-adesione con un’ alta concentrazione di stanziamenti proprio per i paesi ex PECO.
1.4 La politica di coesione 2007-2013
1.4.1 Il contesto finanziario
Nel febbraio 2004 la Commissione europea ha pubblicato un documento (Comm., 2004)
sul futuro dell’Unione allargata, includendovi una proposta per il bilancio settennale 2007-
2013. La proposta della Commissione disegnava un bilancio totale di 1.025 miliardi di
euro , di cui 336 da stanziare per i Fondi della politica di coesione. Dopo burrascosi e
complessi negoziati tra Commissione, Consiglio e Parlamento europeo, si è raggiunto un
accordo interistituzionale sul testo per il nuovo QFP, sancito dal Consiglio europeo nel
dicembre 2005. L’UE 27 si è così dotata di un bilancio per il periodo 2007-2013 di
974,769 miliardi di euro, pari all’1,03% del PIL dell’UE, di cui 347 miliardi destinati alla
politica di coesione
11
. Il bilancio ogni anno viene poi indicizzato automaticamente per
l’inflazione. La Tabella 1.1 mostra il bilancio espresso in prezzi del 2007. Come vediamo
si tratta di una somma di certo non esorbitante nonostante il sentire comune al riguardo,
pari a circa l’1% del PIL totale dell’UE 27. Gli interventi ed i progetti finanziati dal
bilancio UE rispecchiano le priorità stabilite dall’Unione. Essi sono raggruppati in
categorie di spesa, i cosiddetti “capitoli”. E’ perciò decisamente importante segnalare il
grande ruolo occupato dalla politica di coesione (voce 1b), pari al 35,7% del bilancio totale
dell’UE e allo 0,38 % del PIL totale dell’UE.
Ma come viene finanziato il bilancio? Viene infatti da chiedersi da dove provengano i
Fondi. Nella terminologia dell’Unione usa dire che essa abbia un sistema di “Risorse
proprie” (Comm., 2010 c). La realtà ci dice che non è esattamente così. Le entrate infatti
sono perlopiù risorse che giuridicamente spettano all’Unione ma che vengono raccolte
dagli Stati membri e trasferite al bilancio comunitario. Esse si suddividono in tre grandi
gruppi:
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Espresso in prezzi dell’anno 2007.