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INTRODUZIONE
Studiato, commentato e discusso da tutti, il caso Moro ha
rappresentato e continua a rappresentare uno degli avvenimenti più
drammatici della storia della Repubblica italiana.
A trentaquattro anni da quel terribile 9 maggio 1978, giorno in cui
venne ritrovato il corpo senza vita dell’onorevole Aldo Moro, il tema continua
a far discutere. La sua lezione politica, il suo impegno civile, la memoria della
sua sofferenza e della sua morte è legata profondamente al suo disegno inteso
a consolidare la difficile democrazia italiana, ad allargare il respiro della vita
democratica del nostro paese attraverso lo sforzo congiunto di forze politiche,
sociali e culturali diverse.
La strage, il sequestro, la detenzione, i coinvolgimenti e le manovre
intorno alle cause e ai metodi della sua eliminazione, ancora non sono
chiaramente identificabili in tutti i loro dettagli, malgrado parecchi processi e
numerose indagini separate, condotte sia all'interno del paese che a livello
internazionale.
Il caso Moro rientra nel periodo più travagliato della storia della
giovane Repubblica Italiana, quello dei cosiddetti “anni di piombo”, un
periodo che va dalla contestazione degli anni ’60 fino agli anni ’80,
nell’intervallo che va dalla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969
all’attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Questa locuzione
generica, “anni di piombo”, viene a mediare tra una serie di definizioni che si
sono nel tempo sovrapposte, come: "terrorismo di sinistra", "stragismo di
destra", "stragismo di stato”. Termini così contrastanti da farci comprendere
immediatamente quale fosse il livello di tensione e di sospetto verso ogni
gruppo con radici estremiste e quale fosse il senso di fiducia nei confronti
delle istituzioni.
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A tal proposito Pier Paolo Pasolini, poco prima di morire scrisse un
articolo di denuncia nel quale affermava: “[...] Io so tutti questi nomi e so
tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io
so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un
intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di
conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o
che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi
disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che
ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il
mistero. [...]”.
Secondo Pasolini era il suo mestiere di letterato a fornirgli gli
strumenti per la ricerca di una verità che altrimenti sarebbe rimasta nascosta
da una classe politica dove maggioranza e opposizione vanno via via
confondendosi e dove il mestiere del giornalista, almeno in Italia, è arroccato
su posizioni garantiste di comodo.
L'agguato di via Fani, l'eccidio della scorta e il sequestro dell'onorevole
Moro, lo scenario tragico dei luoghi della strage, la rivendicazione e i
successivi comunicati delle Br, la prigionia di Moro in un luogo sconosciuto e
il processo cui questi veniva sottoposto, gli appelli sempre più pressanti e
drammatici dell'ostaggio, il disconoscimento ufficiale della loro "autenticità",
il rifiuto della trattativa, la sterile polemica che si aprì tra i fautori di questa e i
sostenitori della fermezza, l'immane mobilitazione dell'apparato istituzionale
di sicurezza, il senso di vittoriosa impunità degli autori del sequestro,
l'avvitarsi della vicenda verso il suo tragico epilogo, il macabro rinvenimento
della salma di Moro in un luogo centrale della capitale dello Stato,
equidistante dalle sedi dei due maggiori partiti presenti in Parlamento, le
dimissioni del Ministro dell'Interno: sono queste le tessere che hanno
composto un mosaico visibile degli eventi, dove il delitto Moro, valutato
come fatto storico, apparve come il momento di maggiore intensità offensiva
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del partito armato e, specularmente, come il momento in cui lo Stato si rivelò
più impotente nel dare risposta appena adeguata all'aggressione eversiva.
Per 55 giorni, dal 16 marzo 1978, giorno del rapimento, al 9 maggio,
giorno dell’uccisione, l’Italia ebbe la sensazione di sprofondare in un incubo
senza fine. La sua lunga prigionia sembrò distorcere la stessa percezione della
realtà. Le Brigate Rosse, che apparvero come una potente e infallibile
macchina da guerra, nel giro di pochi anni erano destinate a crollare,
schiacciate dal peso dei pentiti e dalle loro stesse contraddizioni. Il sistema
politico si schierò più o meno in maniera compatta sul fronte della fermezza,
quasi a voler dimostrare la forza e la solidità delle istituzioni repubblicane. E
invece dietro quella fermezza si aprivano le prime crepe della grande slavina
che nel decennio successivo avrebbe travolto tutti i partiti della Prima
Repubblica.
Trattandosi di un tema molto ampio e largamente discusso e
approfondito, ho deciso di focalizzare la mia attenzione sui libri, sui
commenti e sugli articoli di alcuni intellettuali del Novecento che hanno
vissuto quel tragico evento o lo hanno raccontato e studiato in seguito.
Attraverso la posizione assunta da questi cinque intellettuali è possibile capire
ancora meglio come siano andate veramente le cose.
La tesi è suddivisa in sette capitoli. Dopo il primo, che vuole essere una
ricostruzione della situazione storica che ha fatto da cornice al rapimento del
presidente democristiano, oltre che una panoramica sulle vicende politiche dei
55 giorni dal sequestro all’uccisione ed una presentazione di Aldo Moro,
uomo e politico, la mia attenzione si rivolge agli intellettuali che hanno
raccontato quel fatto. Il mio obiettivo è stato quello di ricostruire quanto
detto e scritto sulla morte dell’onorevole Moro da alcuni degli intellettuali più
in vista del Novecento italiano, Leonardo Sciascia, Alberto Arbasino, Italo
Calvino, Umberto Eco e Giovanni Testori.
Se Pasolini, non può scrive nulla sul caso Moro, a causa della sua
morte avvenuta nel 1975, Sciascia sembra seguire in parte la strada tracciata
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da Pasolini, interrogandosi sulla possibilità di distinguere verosimile, reale e
realtà stravolgendone i rapporti. Nel suo L’affaire Moro ripercorre con spirito
critico quei terribili giorni, sulla base dei comportamenti dei politici e delle
lettere che Moro fece pervenire ai compagni di partito ed altri.
Sciascia ha l’impressione che tutto l’affaire accada in una dimensione
letteraria, una perfezione da messa in scena che non può che appartenere
all’immaginazione. Le parole di Moro sono l’oggetto dell’indagine. Sciascia
cerca di spezzare il linguaggio di Moro, di giungere ad una sua
decodificazione, di trovare il legame che sussiste fra il Moro dei discorsi in
Parlamento, estremamente criptico ed enigmatico, e il Moro rapito che
gradualmente viene spogliato del potere fino a raggiungere il livello di
creatura. La sua eccellenza nel nascondere all’evidenza i fatti con il linguaggio
del potere determina nel Moro prigioniero la capacità di inserire nei suoi
messaggi dalla prigione del popolo qualcosa che, secondo Sciascia, doveva
essere decodificato e che invece è stato lasciato a livello del “non detto”.
Un’analisi attenta la compie anche Italo Calvino, che non si pronuncia
nei giorni del sequestro, ma lascia la sua testimonianza dopo la morte del
leader democristiano. Calvino risponde: “Ciò che è accaduto va al di là delle
parole. Abbiamo esaurito ogni capacità di commento. Che cosa si può dire?
Sono molto preoccupato per il futuro delle nostre libertà democratiche che
oggi sono il bersaglio di un complotto di vaste proporzioni la cui matrice
rimane sempre più oscura. Comunque un fatto positivo sono le
manifestazioni dell’altro ieri: si sente crollare tutto ma la gente ha reagito
bene”.
L’intellettuale e scrittore ligure cerca di ricostruire una narrazione che
possa fare a meno di “ciò che non si sa o che si tace”, della prova che continua
a essere insufficiente. Nell’articolo intitolato Le cose mai uscite da quella
prigione, pubblicato sul “Corriere della Sera”, dopo nove giorni dal
ritrovamento del corpo di Moro, Calvino fissa i termini del problema, il cuore
di tenebra costituito dal rapporto tra il sequestrato e i suoi carcerieri.
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Se Sciascia cerca “coincidenze” e “somiglianze” che presuppongono un
rapporto simpatetico tra lo stato d’animo e i fatti, Calvino cerca spiegazioni
per ogni cosa, anche per quelle che all’apparenza non ce l’hanno. Calvino non
dice mai espressamente se sia stato o no a favore delle trattative, dice che
Moro sarebbe stato in ogni caso ucciso. Calvino, nel recensire L’affaire Moro
di Sciascia conferma la sua convinzione, che le Brigate rosse non avevano
alcuna vera volontà di trattare.
Se tutti gli intellettuali guardano al sequestro e ai suoi sviluppi, Alberto
Arbasino sceglie di guardare la società italiana, soffermarsi su quello che
pensa, dice e fa, perché è proprio "durante i grandi spasimi come questi",
sostiene lo scrittore, che "l'Italia smaschera più sfrenatamente i propri
caratteri e connotati più autentici, e i più profondi fantasmi".
Altra analisi viene da Umberto Eco. Lo scrittore appare improntato ad
un ottimismo di fondo, a lui interessa poco soffermarsi sulla persona del
leader democristiano, vuole smontare punto per punto il ragionamento dei
brigatisti. Nel suo articolo La sanguinosa scalata a un paradiso disabitato,
Eco compie un’analisi estremamente lucida, quasi orwelliana: “[...] Il sistema
delle multinazionali non può vivere in una economia di guerra mondiale (e
atomica per giunta), ma sa che non può nemmeno ridurre le spinte naturali
dell'aggressività biologica o dell'insofferenza di popoli o di gruppi. Per questo
accetta piccole guerre locali, che verranno di volta in volta disciplinate e
ridotte da oculati interventi internazionali, e dall'altro lato accetta appunto il
terrorismo. [...] Se le Br hanno ragione nella loro analisi di un governo
mondiale delle multinazionali, allora devono riconoscere che esse, le Br, ne
sono la controparte naturale e prevista. Esse devono riconoscere che stanno
recitando un copione già scritto dai loro presunti nemici. Invece, dopo aver
scoperto, sia pure rozzamente, un importante principio di logica dei sistemi,
le Br rispondono con un romanzo di appendice ottocentesco fatto di
vendicatori e giustizieri bravi ed efficienti come il conte di Montecristo. Ci
sarebbe da ridere, se questo romanzo non fosse scritto col sangue.”
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Altro capitolo è quello dedicato all’analisi del caso Moro compiuta da
Giovanni Testori, che definì l’attentato come la tragicità di una «realtà senza
Dio» e che rivendica la necessità di non leggere il caso Moro in sola chiave
politica.
L’ultimo capitolo, il settimo, è un insieme di voci, che va dalla lettera
di Elsa Morante alle Brigate rosse, all’editoriale di Franco Fortini e all’articolo
di Alberto Moravia.
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CAPITOLO PRIMO
IL CASO MORO
Sono passati trentaquattro anni da quel giovedì 16 marzo 1978,
giorno in cui le Brigate rosse raggiunsero l’apice della loro strategia del
terrore: “Portare l'attacco al cuore dello Stato”.
Alle 9.02 del mattino, in via Fani all'incrocio con Via Stresa, nel
quartiere Trionfale a Roma, un commando composto da circa 19 brigatisti
rapisce il Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro e uccide i cinque
componenti della scorta: il Maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi,
l’appuntato Domenico Ricci, il Brigadiere Francesco Zizzi, l’agente Raffaele
Jozzino e l’agente Giuliano Rivera.
Il presidente della Dc Moro uscì di casa pochi minuti prima delle
nove, per andare alla messa nella vicina chiesa di Santa Chiara e poi
raggiungere Montecitorio in tempo per la votazione al voto di fiducia alla
Camera al quarto governo Andreotti. Ma alla Camera non arrivò mai. Ad
ostacolarlo l’agguato di via Fani, “un lavoro militare di altissima
specializzazione”.
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Il mistero Moro è una delle più grandi "ombre" dello Stato italiano.
Ha rappresentato il culmine di una "stagione di piombo" che si è protratta
dal dicembre del 1969 all'agosto del 1980 in corrispondenza di due
avvenimenti che hanno sconvolto la nazione: le stragi di Piazza Fontana del
12 dicembre 1969 e della stazione centrale di Bologna del 2 agosto 1980.
In quest'intervallo di tempo, denominato "Anni di Piombo", l'Italia
intera fu colpita da gravi atti terroristici. Una “stagione di piombo” che ha il
1
I. Montanelli – M. Cervi, Storia d’Italia - L’Italia del Novecento, Fabbri Editori, Milano, 2001, p. 481.
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suo bilancio, un bilancio che come ricorda un gran maestro del giornalismo
Sergio Zavoli "...non potrà mai essere a misura delle vite distrutte, delle ferite
ancora aperte; ma occorre farlo, perché quanto detto si possa tradursi, alla
fine, anche in qualcosa di assolutamente incontestabile come la fredda
oggettività dei numeri".
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L’agguato di via Mario Fani colpì i sentimenti popolari per la violenza,
l’efferatezza dell’azione, la chirurgica precisione con cui venne condotto
l’attacco. Le immagini di uno dei cinque poliziotti trucidati dall’azione
terroristica e lo stato angosciante di incertezza e timore per la sorte del leader
politico determinarono fenomeni di solidarietà su scala nazionale che
sfociarono nello sciopero generale come atto simbolico per la difesa della
democrazia.
1.1 Aldo Moro: l’uomo e il politico
Il leader democristiano, definito da Italo Mancini “Il più pio e il più
laico degli uomini politici”, oltre ad essere uno degli artefici della
Costituzione, rappresentava la soluzione alla terza principale crisi di governo.
“Era un cattolico osservante e praticante e la sua fede in Dio si rispecchiava
nella sua vita politica”. Moro era considerato un mediatore tenace e
particolarmente abile nella gestione e nel coordinamento politico delle
numerose "correnti" che agivano e si suddividevano il potere all'interno della
Democrazia cristiana.
2 G. Dell’Acqua, Dietro la morte del dirigente Dc uno spietato gioco delle parti, Le B.R. e l’assassinio di Moro,
www.storiain.net/arret/num114/artic4.asp
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Nato a Maglie, in provincia di Lecce, il 23 settembre 1916, si impegnò
fin da giovane nelle organizzazioni cattoliche e nel dopoguerra, iniziò la
carriera politica nelle file della Democrazia Cristiana.
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Conseguito il diploma di maturità classica al Liceo "Archita" di
Taranto, si laurea in Giurisprudenza presso l'Università di Bari nel 1938, con
una tesi su “La capacità giuridica penale”, che verrà ripresa ed approfondita, e
costituirà la sua prima pubblicazione scientifica, avviandolo alla carriera
universitaria, come docente di filosofia del diritto e di politica coloniale alla
stessa università nel 1941.
L'anno successivo svilupperà la sua seconda opera "la subiettivazione
della norma penale" e otterrà così la cattedra di professore di diritto penale.
Durante gli anni universitari partecipa ai Littoriali della cultura e dell'arte.
Nel luglio 1939 venne scelto, su consiglio di Giovanni Battista Montini, di
cui, proprio in quegli anni, divenne amico, come presidente dell'Associazione.
Mantenne l'incarico sino al 1942 quando fu chiamato a succedergli Giulio
Andreotti, sino ad allora direttore della rivista Azione Fucina. Sempre nel ‘42
entra a far parte della Federazione Universitaria Cattolica Italiana di Bari,
segnalandosi ben presto anche a livello nazionale. Dopo qualche anno di
carriera accademica, fondò nel 1943 a Bari, con alcuni amici, il periodico «La
Rassegna» che uscì fino al 1945.
Nel 1945 sposa Eleonora Chiavarelli con la quale ebbe quattro figli:
Maria Fida, Anna, Agnese e Giovanni. Nei primi anni cinquanta fu nominato
professore ordinario di diritto penale presso l'Università di Bari. Nel 1963
ottenne il trasferimento all'Università di Roma, in qualità di titolare della
cattedra di Istituzioni di Diritto e Procedura penale presso la Facoltà di
Scienze Politiche.
Tra il 1943 e il 1945 Aldo Moro aveva iniziato a interessarsi di
politica; in un primo tempo mostrò particolare attenzione alla componente
3
http://it.wikipedia.org/wiki/Aldo_Moro
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socialdemocratica del partito socialista, successivamente però il suo forte
credo cattolico lo spinse verso il costituendo movimento democristiano.
Nella Dc mostrò subito la sua tendenza democratico-sociale, aderendo
alla componente dossettiana. A guerra finita Moro diventa Presidente del
Movimento Laureati dell'Azione Cattolica e viene nominato direttore della
rivista "Studium".
Il 1946 è l'anno dell'Assemblea Costituente. Aldo Moro ne è eletto
membro. Fa parte della Commissione dei "75" incaricata di redigere il testo
costituzionale ed è relatore per la parte riguardante "i diritti dell'uomo e del
cittadino". E' anche vicepresidente del gruppo Dc all'Assemblea. Due anni
dopo, nelle elezioni del 18 aprile, viene eletto deputato al Parlamento nella
circoscrizione Bari-Foggia.
Nel 1953 viene rieletto al Parlamento e diventa Presidente del gruppo
parlamentare Dc alla Camera dei Deputati e nel '55 diventa ministro di
Grazia e Giustizia nel primo governo Segni. Ministero della Pubblica
Istruzione nei due anni successivi (governi Zoli e Fanfani), introdusse lo
studio dell'educazione civica nelle scuole.
Nel 1959, al VII Congresso della Dc, che si svolse a Firenze
conquistò la Segreteria del Partito, incarico riconfermatogli anche dal
successivo Congresso che si svolse a Napoli nel 1962 e che manterrà fino al
gennaio del 1964. In quella occasione, già convinto assertore dall'inizio degli
anni sessanta della necessità di un'alleanza tra il suo partito e il Partito
socialista italiano, per creare un governo di centro-sinistra, riuscì a portare su
questa posizione l'intero gruppo dirigente del partito.
Nel dicembre 1963 divenne, a soli 47 anni, presidente del Consiglio.
Formò il suo primo governo con una coalizione inedita: DC, PSI, PSDI e
PRI: il primo governo del centro-sinistra. La coalizione resse fino alle elezioni
del 1968. Il governo Moro III (23 febbraio 1966-5 giugno 1968) batté il
record di durata (833 giorni) e rimase uno dei più longevi della Repubblica.
Dopo le elezioni venne costituito un governo balneare in attesa del congresso