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INTRODUZIONE
Quando si parla di “clausola di irrilevanza del fatto” si intende fare riferimento a due diverse
disposizioni dell’ordinamento processuale penale italiano, rispettivamente l’art.27 del d.p.r. 22
settembre 1988, n.448 e l’art.34 del d.lgs. 28 agosto 2000, n.274, in virtù delle quali un fatto
preveduto dalla legge come reato non subisce la sanzione penale o, addirittura, l’intero processo,
se giudicato tenue e occasionale.
Dai decreti sopra citati si evince come il legislatore abbia introdotto la fattispecie
dell’irrilevanza solamente di recente – se si considera che la legislazione penale minorile risale
al 1934 – confinandola però a due particolari ambiti processuali: il rito penale minorile e il rito
penale che si svolge avanti il giudice di pace. In ogni caso, è bene precisare che la dottrina è
pressoché unanime nell’affermare l’opportunità di introdurre una clausola “generale” di
irrilevanza del fatto destinata a operare anche nei confronti di persone maggiorenni, indagate o
imputate per aver commesso un reato diverso da quelli rientranti nella competenza del giudice
di pace. Ad oggi, infatti, la discussione dottrinale verte soprattutto sui contenuti di un’eventuale
disposizione codicistica, ovvero sui presupposti che legittimerebbero la declaratoria di
irrilevanza del fatto nell’ambito del procedimento penale ordinario.
Alla base della previsione dell’art.27 del codice di procedura penale minorile (c.p.p.min.) vi
è l’idea di sottrarre il minore, che occasionalmente commette una bagatella, alla celebrazione
del processo e, conseguentemente, all’irrogazione della pena. In quest’ottica, il processo svolto
a causa della commissione di un fatto esiguo, e pertanto tollerabile, è assimilato a una vera e
propria pena e il minore che lo subisce è trasformato in vittima. Come sarà illustrato meglio in
II
seguito, nell’ambito del rito penale minorile, il principale obiettivo della declaratoria di
irrilevanza è di non nuocere al minore, garantendogli la rapida fuoriuscita da un processo che
risulta sproporzionato rispetto al fatto per cui si procede e, come tale, ingiusto e pregiudizievole
per la sua maturazione e crescita psicosociale.
Lo scritto che segue la presente introduzione è volto ad analizzare, in primo luogo, gli aspetti
strettamente processuali che connotano l’irrilevanza del fatto nel rito minorile, per poi passare
attraverso una rassegna di tutti gli altri istituti giuridici previsti dall’ordinamento interno che
impediscono allo Stato di esercitare la pretesa punitiva nei confronti dei minorenni. Questa
analisi si propone di capire sulla base di quali criteri e valutazioni il giudicante è in grado di
scegliere, nel ventaglio delle formule di proscioglimento che l’ordinamento mette a
disposizione, lo strumento che appare più rispondente alla condizione minorile e quindi più
idoneo a rivestire valore pedagogico: il giudice, in particolare, nel determinare la misura penale
o “clemenziale” da adottare in concreto, è tenuto dapprima a verificare la sussistenza dei
presupposti e delle condizioni stabiliti dalla legge in relazione a ciascun istituto, per poi
acquisire elementi di conoscenza sulla personalità del minore, ossia sulle condizioni e sulle
risorse personali, familiari, sociali e ambientali che caratterizzano il suo vivere.
In tal senso, gli accertamenti e le indagini personologiche prescritte all’art.9 c.p.p.min.
rappresentano una sorta di passaggio obbligato, un elemento valutativo di cui l’interprete non
può fare a meno nell’adottare qualsiasi formula definitoria del procedimento penale minorile. È
proprio grazie agli accertamenti sulla personalità che il giudice e i servizi sociali possono
predisporre quello che è definito “programma processuale”, un progetto con il quale
individuare, dopo un’attenta valutazione della persona e dell’ambiente sociale di provenienza, la
risposta processuale più adeguata.
Nello specifico, è possibile affermare che tra gli accertamenti sulla personalità del minore
(art.9 c.p.p.min.) e la clausola di irrilevanza penale del fatto (art.27 c.p.p.min.) intercorre un
rapporto di funzionalità, poiché conoscere la personalità e la psicologia del giovane reo è utile e
funzionale alla formulazione del giudizio di rilevanza, o irrilevanza, sociale del fatto. Come si
III
dirà nel terzo capitolo, le risultanze di tali accertamenti rivestono un ruolo essenziale nella
valutazione di tutti e tre i presupposti applicativi della clausola in parola, ossia il presupposto
oggettivo della tenuità del fatto, quello soggettivo dell’occasionalità del comportamento e
quello teleologico rappresentato dal pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può
recare alle esigenze educative del minore, e ciò in quanto essi assumono una rilevanza
psicologica e pedagogica, oltre che giuridica. Ad ogni modo, si deve precisare che la clausola di
irrilevanza del fatto presuppone che il giudice verifichi preliminarmente la sussistenza di tutta
una serie di condizioni implicite o c.d. premesse logiche: in particolare, se il fatto per cui si
procede costituisce reato, se il minore è imputabile e colpevole e, infine, se ha prestato il
consenso alla definizione anticipata del processo.
Affinché siano salvaguardati, e quindi non pregiudicati, i processi educativi in atto nel
minore è indispensabile che la verifica dei presupposti legittimanti l’applicazione della clausola
sia fondata su di una prognosi individualizzata. In ogni caso, il fatto che il giudice minorile
debba adottare decisioni “personalizzate” non deve indurlo a trascurare né il fine istituzionale
del processo penale, vale a dire l’accertamento dei fatti e la loro attribuibilità in capo
all’imputato, né le garanzie costituzionali di un giusto processo.
Prima di illustrare su quale terreno normativo e giurisprudenziale la clausola di irrilevanza
penale del fatto ha preso forma, è bene chiarire che, nel rito minorile, essa non costituisce un
automatismo di cui ciascun minore può sempre e comunque beneficiare in caso di commissione
di un fatto di lieve entità, ma rappresenta piuttosto uno strumento di diversion attuabile ogni
qual volta il giudice non ravvisi l’utilità del processo e la necessità di sottoporre il minore reo ad
un percorso che, anche grazie all’ausilio della famiglia e dei servizi sociali, gli permetta di
comprendere l’antigiuridicità della propria condotta e il disvalore delle proprie azioni.
1
CAPITOLO I
LA CLAUSOLA DI IRRILEV ANZA PENALE DEL FATTO
1. L’irrilevanza del fatto nel sistema della giustizia penale
1.1. Dall'irrilevanza “sociale” all'irrilevanza penale del fatto
Seguendo le logiche di una concezione prettamente giuridica della criminalità è possibile
affermare che il crimine è qualcosa che non esiste in natura; non sarebbe infatti possibile trattare
il crimine alla stregua di un fenomeno del tutto naturale, prescindendo da quei meccanismi
"sociali" che conducono alla sua definizione. Il crimine altro non è che il prodotto di un
processo di definizione molto particolare consistente nella creazione della norma penale,
fenomeno che tra l'altro risente enormemente dell'influenza del tempo e dello spazio
1
Se ciò è vero, senza diritto penale non esisterebbe crimine alcuno
.
2
1
A. SBRACCIA, Devianza e ordine sociale, in A. SBRACCIA - F. VIANELLO, Sociologia della devianza e della
criminalità, Bari, 2010, p. 7. Della stessa opinione A. FORZA, Il processo del fatto ed il processo della personalità, in
AA.VV., Difendere, valutare e giudicare il minore. Il processo penale minorile, manuale per avvocati, psicologi e
magistrati, a cura di A. FORZA – P. MICHIELIN – G. SERGIO, Milano, 2001, p. 192, che definisce il crimine come un
“ente giuridico” e non come un fatto naturale.
, ma solo condotte
offensive dell'integrità fisica, del patrimonio, della morale etc., più o meno socialmente
riprovevoli. Tuttavia, gli stessi che accolgono una simile concezione della criminalità non
negano che taluni comportamenti, pur non essendo qualificati come reati dal codice penale,
2
F. VIANELLO, Reazione sociale e sistema penale, in A. SBRACCIA - F. VIANELLO, Sociologia della devianza e della
criminalità, cit., p. 43-44.
2
producono danni sociali rilevanti. Ciò cui essi si oppongono, è piuttosto una estensione
potenzialmente illimitata che il concetto di crimine comporta laddove non sia ancorato a una
norma giuridica
3
. Così come esistono in natura delle condotte socialmente offensive e
riprovevoli ma penalmente irrilevanti, esistono altresì, all'interno del diritto penale, delle
fattispecie che sanzionano comportamenti che, dal punto di vista astratto, potrebbero offendere e
ledere gravemente un certo bene giuridico ma, dal punto di vista concreto, si rivelano
socialmente irrilevanti, perché inoffensivi e privi di allarme sociale. Si pensi ad esempio
all'alcolismo, alla tossicodipendenza, alla prostituzione, al vagabondaggio etc. - tra l'altro
condotte che oltre ad essere di grande allarme sociale sono anche distruttive della personalità
individuale
4
In questa prospettiva ci si interroga su come avviene il passaggio da una condotta
socialmente riprovevole ad una condotta penalmente rilevante; in altre parole, come avviene il
-, quali esempi di forme di devianza offensive della convivenza sociale, che però
non si esprimono in comportamenti penalmente rilevanti. Per quanto riguarda invece quelle
forme di devianza che non offendono la convivenza sociale, ma che sono sanzionate penalmente
si pensi, ad esempio, al furto di una mela dal banco di un supermercato. Ai sensi dell'art.624 c.p.
il reato di furto si perfeziona quando un soggetto si impossessa di una cosa mobile altrui,
sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri. Dal disposto normativo
non è dato evincere se la cosa mobile altrui debba essere suscettibile di valutazione economica
affinché possa dirsi compiuto il reato di furto e possa dirsi offeso il bene giuridico del
patrimonio, con la conseguenza che anche la sottrazione di una cosa mobile altrui di infimo
valore integra la fattispecie incriminatrice.
3
F. VIANELLO, Reazione sociale e sistema penale, ibidem.
4
A. C. MORO, Manuale di diritto minorile, a cura di L. FADIGA, IV ed., Bologna, 2008, p. 500. A tal proposito, si veda
anche il contributo di S. DI NUOVO - G. GRASSO, Diritto e procedura penale minorile. Profili giuridici, psicologici e
sociali, II ed., Milano, 2005, p. 104, i quali rilevano come “uno stesso atto può essere considerato fuori norma da un
punto di vista giuridico e quindi sanzionato come reato, anche se la coscienza sociale non lo considera gravemente
deviante (si pensi ad esempio, entro certi limiti, all’inquinamento ambientale o all’evasione sociale); viceversa, molti
comportamenti considerati socialmente non appropriati non costituiscono reato, benché possano ricevere una
sanzione sociale“.
3
passaggio dalla reazione informale della società, nei confronti di comportamenti devianti, alla
reazione istituzionalizzata consistente nell'intervento del diritto e delle istituzioni penali. Per
rispondere a questo interrogativo è necessario fare riferimento non solo all’attività di produzione
normativa
5
posta in essere dal legislatore, sulla base di scelte di politica criminale, ma occorre
riferirsi anche all'attività di polizia, che seleziona i comportamenti conformi alle statuizioni
legislative, e all'attività dei tribunali che, accertando i fatti e verificando la sussumibilità della
fattispecie concreta a quella astratta, applicano la legge e infliggono la sanzione penale
6
. Di qui
emerge come un ruolo decisivo sia svolto sia dai processi di penalizzazione e di
depenalizzazione, sia dai successivi processi di applicazione delle regole da parte delle agenzie
di controllo, ossia dagli organi di polizia giudiziaria e dalla magistratura
7
Da queste brevi premesse emerge come la rilevanza o l'irrilevanza penale di una certa
condotta dipenda essenzialmente da una decisione politica; infatti, è proprio dalla legge penale
che discende la distinzione tra azioni politicamente legittime e azioni criminali
.
8
5
F. VIANELLO, Reazione sociale e sistema penale, cit., p. 56, parla di "criminalizzazione primaria".
. Non solo: la
rilevanza o l'irrilevanza penale di un fatto appartiene, oltre che al processo di definizione di cui
si è già detto, anche al procedimento penale, ossia quello che si instaura dinanzi agli organi
giurisdizionali; è infatti l'autorità procedente a richiedere e quella giudicante a dichiarare
“irrilevante” un fatto che è definito dalla legge come reato, nei casi in cui, ovviamente, la legge
ammette una simile declaratoria. Per concludere dunque, l’irrilevanza di un fatto trova la propria
genesi in un procedimento di selezione delle condotte da perseguire e punire. Tale procedimento
di selezione è compiuto, in primo luogo, dal legislatore sulla base di valutazioni “astratte“ (si
pensi, ad esempio, alle condotte illecite di soggetti di età inferiore ai quattordici anni e, pertanto,
non imputabili) e, in secondo luogo, dal giudice penale sulla base di valutazioni “concrete” (si
pensi, ad esempio, alla condotta illecita posta in essere da un soggetto ultraquattordicenne che
sia giudicato incapace di intendere e di volere e, pertanto, non imputabile).
6
F. VIANELLO, Reazione sociale e sistema penale, ibidem, parla di "criminalizzazione secondaria".
7
F. VIANELLO, Reazione sociale e sistema penale, ibidem, p. 66.
4
Prima di enunciare ciò che formerà oggetto di indagine e approfondimento è opportuno
considerare come negli ultimi decenni si sia assistito - non solo a livello di ordinamento interno
ma, più in generale, negli ordinamenti giuridici della maggior parte degli stati europei - a una
vera e propria proliferazione delle norme penali causata, essenzialmente, da politiche di
"tolleranza zero" nei confronti di comportamenti devianti
9
. Nel corso del tempo si è verificato
un progressivo passaggio dallo Stato “sociale”, attento ai bisogni reali della collettività, allo
Stato "penale" che crede di poter soddisfare i bisogni della collettività allargando l'area
dell’illiceità penale, facendo un ampio ricorso al carcere, prevedendo reazioni severe
indipendentemente dall'effettiva gravità dei comportamenti posti in essere
10
8
F. VIANELLO, Reazione sociale e sistema penale, ibidem, p. 70.
. In simili realtà
giuridiche è stato impossibile evitare il verificarsi del fenomeno di "ipertrofia del diritto penale",
un fenomeno consistente in un’eccessiva produzione di precetti giuridici volti a sanzionare
penalmente la condotta umana. In dottrina si usa distinguere il fenomeno di ipertrofia del diritto
penale c.d. "verticale" da quello c.d. "orizzontale": entrambi i fenomeni non hanno nulla a che
9
Ai fini di una chiarificazione terminologica è bene precisare che la “devianza” non è una caratteristica insita in una
persona, ma è un giudizio di valore che, un sistema normativo violato pubblicamente, attribuisce a un certo
comportamento utilizzando una “etichetta linguistica” con cui la persona viene identificata. In genere, un
comportamento è giudicato deviante a seconda della tolleranza del sistema normativo verso lo stesso, a seconda del
fatto se tale comportamento generi o meno discredito per la persona che lo pone in essere ed, infine, a seconda del
fatto se susciti o meno reazioni personali e collettive volte ad isolare, punire o correggere il suo autore. Così
definiscono la “devianza” A. SALVINI – M. SALVETTI, La costruzione e la spiegazione del comportamento deviante:
dal modello eziopatogenetico a quello interazionista, in AA.VV., Difendere, valutare e giudicare un minore. Il
processo penale minorile, manuale per avvocati, psicologi e magistrati, a cura di A. FORZA – P. MICHIELIN – G.
SERGIO, cit., p. 48-49.
10
F. VIANELLO, Reazione sociale e sistema penale, cit., p. 80-81. Il processo penale minorile sembra ispirarsi ad un
modello di giustizia che prevede una netta separazione tra la sfera penale e quella sociale, ancorché via siano delle
disposizioni normative che prevedono l’intervento dei servizi sociali durante il processo. A questo proposito F.
PALOMBA, Il sistema del processo penale minorile, III ed., Milano, 2002, p. 110-111, afferma che solamente dagli
artt.27 e 28 c.p.p.min. si evince “il primato del sociale sul penale, il quale è chiamato a regredire se il proprio ruolo
non è necessario perché la condotta, o il soggetto, non appaiono di interesse penalistico”. Nella sua opera l’autore
esamina poi tre diversi modelli di rapporto tra sistema penale e sistema sociale di welfare: un primo modello riduce lo
spazio decisionale dei servizi sociali e conferisce all’apparato giudiziario il potere di specificare le condizioni
dell’intervento sociale; un secondo modello prevede una ampia delega di competenza alle istituzioni di servizio
sociale; un terzo modello, invece, si fonda su una netta separazione tra il sistema penale e quello sociale che
5
vedere con un incremento della cifra della criminalità lato sensu inteso, poiché il primo consiste
in un aumento della criminalità dovuto al fatto che la legge colpisce e punisce tutti quei fatti
conformi alle fattispecie legali, benché esigui, mentre il secondo consiste in un aumento della
criminalità dovuto al fatto che la legge prevede nuove fattispecie incriminatrici, volte a colpire
condotte prima tollerate
11
. Consapevoli del problema, gli ordinamenti giuridici di alcuni stati
europei (Austria, Germania, Francia, Portogallo, Italia)
12
comporta, a sua volta, il superamento della sanzione e della potestà rieducativa - correzionale.
hanno tentato di arginare il fenomeno
prevedendo tutta una serie di strumenti che si potrebbero accomunare col termine
"depenalizzazione". A tal proposito occorre distinguere due diverse species del genus
depenalizzazione: la depenalizzazione "in astratto", che consiste nella razionalizzazione del
sistema penale (quale, ad esempio, la trasformazione di illeciti penali in illeciti amministrativi e
la scelta di politica criminale di concentrare le risorse in quei settori della criminalità di
maggiore allarme sociale) e la depenalizzazione "in concreto" che, invece, consiste nella
esclusione della punibilità o nella improcedibilità di fatti concretamente esigui. Scopo primario
della depenalizzazione in concreto è quello di limitare l'ambito "verticale" di applicazione di
fattispecie incriminatrici che sanzionano fatti gravi, fatti medi, ma anche fatti lievi, ossia privi di
un significativo disvalore, così da riservare soltanto nei confronti dei primi due l'intervento
11
R. BARTOLI, L'irrilevanza penale del fatto. Alla ricerca di strumenti di depenalizzazione in concreto contro la
ipertrofia c.d. "verticale" del diritto penale, in Riv. It. di dir. e proc. pen., 2000, p. 1474-1476, individua e descrive le
principali cause dell'ipertrofia verticale. Il primo fattore riguarda i processi di democratizzazione e di laicizzazione
degli Stati moderni: il processo di democratizzazione, ampliando le libertà individuali avrebbe incrementato anche i
casi in cui i singoli possono deviare dai modelli comportamentali imposti; il processo di laicizzazione avrebbe invece
condotto ad una "relativizzazione" dei valori religiosi e morali (fattori istituzionali). Il secondo fattore riguarda la c.d.
perdita di identità dell'autore, dal momento che rispetto al passato la pena non è più in grado di produrre quegli effetti
di prevenzione generale derivanti dalla stigmatizzazione del condannato (fattore sociale). Un terzo fattore è
determinato dalla c.d. perdita di identità della vittima, che avrebbe favorito sia sul piano materiale che su quello
psicologico la commissione di reati di modesta entità (fattore legato al progresso tecnologico). Bartoli evidenzia poi,
quale principale inconveniente legato al fenomeno di ipertrofia verticale del diritto penale, l’incapacità della struttura
giudiziaria di affrontare la crescente domanda di procedimenti, con conseguenti effetti negativi sulla funzionalità
dell'intero sistema processuale.
12
Per un'analisi approfondita delle soluzioni adottate da alcuni ordinamenti europei in riferimento a fatti in concreto
esigui, si veda R. BARTOLI, L'irrilevanza penale del fatto. Alla ricerca di strumenti di depenalizzazione in concreto