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Introduzione
La ricerca di uno stato emotivo di tensione ed eccitazione ha caratterizzato le attività
ricreative umane da secoli. Lo sport in questo senso, ha rivestito ottimamente il ruolo
di gioco catartico, in grado di offrire e permettere di scaricare forti emozioni. Basti
pensare al panem et circensens offerto al popolo dagli imperatori romani, passando
dai giochi olimpici della Grecia antica, al rudimentale calcio dell’epoca medioevale,
fino ad arrivare allo sport moderno. Essi hanno in comune non soltanto l’aspetto
ludico ma anche quello passionale e, non meno importante, una certa componente
“spettacolare”. Non risulta affatto fuori luogo infatti, il paragone tra una folla eccitata
in un’arena di gladiatori e una curva gremita di ultras intenti a supportare la propria
squadra.
Appare chiaro ora, l’errore commesso da molti, giornalisti e studiosi, di considerare
la violenza legata allo sport, in particolare al calcio per l’importante ruolo sociale
che esso ricopre nel nostro paese, un fenomeno recente. Lo sport, come ha
dettagliatamente analizzato Norbert Elias, è un’attività fortemente competitiva e
come tale, tende ad incoraggiare l’aggressività (Elias, Dunning 1989), che in alcuni
casi può essere esasperata al punto tale da diventare manifesta, tra gli sportivi, come
tra gli spettatori. La soglia di violenza socialmente tollerata nelle diverse discipline
sportive cambia a seconda dei tempi e dei luoghi. Nell’ultimo secolo, nelle società
occidentali essa si è notevolmente abbassata, al punto che comportamenti
comprensibili e tollerabili in una determinata cornice (quella sportiva) sono stati
catalogati come devianti dall’opinione pubblica. Ciò che è recente in questo contesto,
è la comparsa di una forma organizzata di tifo calcistico: i gruppi ultras. Questo
movimento aggregativo giovanile è stato indubbiamente uno dei più complessi e
discussi fenomeni sociali degli ultimi trent’anni, sia per le contorte dinamiche che lo
regolano, sia per l’enorme impatto sociale e mediatico che esso ha avuto sulla
società. Più volte è stato liquidato dai mezzi di comunicazione come uno dei tanti
fenomeni di devianza giovanile, o peggio come l’iniziativa di giovani teppisti, senza
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cercare di andare oltre le definizioni da manuale e tentare di collocare questo fatto in
un quadro più ampio.
Questo lavoro di ricerca si propone di inserire tale movimento nel contesto socio-
culturale degli ultimi anni, analizzando non solo il fenomeno in sé ma anche ciò che
lo circonda e lo influenza.
Dopo una breve storia della nascita, dello sviluppo e delle tappe principali del tifo
organizzato, si prenderanno in analisi gli aspetti sociologici di questo fenomeno: le
metafore, i rituali, i simboli utilizzati dagli ultras nello spazio reale e simbolico dello
stadio. Gli ultimi due capitoli si focalizzeranno invece, sulle relazioni che i tifosi
hanno sviluppato negli anni con l’esterno: il mondo politico, quello delle istituzioni e
quello dei mezzi di comunicazione. Quest’ultimo punto sarà cruciale per sciogliere il
nodo delle questioni che più frequentemente preoccupano l’opinione comune,
nonché gli esperti del settore e le stesse istituzioni: perché lo fanno? Come si può
risolvere il problema della violenza negli stadi?
Ovviamente, questo lavoro non intende proporre soluzioni definitive, ma piuttosto
offrire una nuova prospettiva di analisi, meno circoscritta e più flessibile, che
permetta di mettere in relazione questo fenomeno all’intera società. A tal proposito
nella seguente ricerca, non sarà possibile prescindere dai profondi e decisivi
mutamenti che l’azione pervasiva e l’ampia diffusione dei mass media ha attuato
sull’odierna società dell’informazione e sugli individui che ne fanno parte. Pertanto,
evidenziare i cambiamenti che i mezzi di comunicazione hanno contribuito a creare
all’interno del movimento ultras e l’influenza che su di esso hanno avuto, si
configura l’obiettivo primario di questo studio.
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1.La storia del movimento ultras italiano
E’ convinzione assai radicata nell’opinione pubblica contemporanea che il calcio, in
quanto sport, debba essere considerato esclusivamente una mera attività ludica e non
un fatto sociale e culturale. Ridurre un fenomeno che da sempre smuove interessi
economici e politici, per non parlare del gigantesco numero di tifosi,occasionali e
non, ad un “gioco”, rischia di trascinare nell’errore coloro che intendono approcciarsi
ad esso e all’aspetto del tifo da una prospettiva sociologica, cercando di inserire lo
sport all’interno di una cornice culturale più ampia.
In realtà, il calcio ha smesso da tempo di essere soltanto un gioco. Gli anni del
ventennio fascista sono un esempio di come questo sport venne utilizzando come
strumento di prestigio politico, a fine propagandistico. Anche in Argentina, come
suggerisce Dal Lago (Dal Lago 1990), l’interdipendenza tra calcio e azioni di
governo, ha avuto un peso non indifferente, soprattutto per quanto riguarda il periodo
dittatoriale (mentre guardando a tempi più recenti, basta ricordare la decisione
dell’ex presidente Menem di interferire con le scelte del commissario tecnico della
nazionale). E’ soprattutto con l’avvento dei mezzi di
comunicazione di massa, della televisione e della radio in particolare, che il calcio
diventa lentamente un vero e proprio spettacolo, e in seguito un genere di consumo.
L’attenzione di cui inizia ad essere oggetto da parte dei media, lo trasforma in un
bene comune (Porro 2008) e questa visibilità coinvolge anche quel pubblico per il
quale il calcio non aveva mai soltanto rappresentato uno sport, bensì qualcosa di
molto più complesso. Stiamo parlando ovviamente dei tifosi organizzati, i militanti,
gli ultras. La visibilità che il gioco del calcio ha acquisito grazie ai media ha mutato
profondamente le dinamiche del tifo organizzato, non solo perché esso è diventato
oggetto di indagine, ricerca e critica, ma anche perché gli stessi ultras hanno
intravisto nella sfera mediatica la possibilità di avere un palcoscenico e di acquisire
una visibilità non indifferente, per affermare la propria identità di ‘dodicesimo
giocatore in campo ’.
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Ovviamente non è sempre stato così. Il tifo organizzato è nato lontano dalle
telecamere e dalle testate sportive e il suo avvento sulla scena sociale è relativamente
recente: possiamo considerare la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 come il
periodo di formazione di numerosi gruppi di tifo organizzato. Naturalmente, non ci
stiamo riferendo al tifo generico legato al calcio, fenomeno già frequente da tempi
ben antecedenti a quelli sopra citati. Il calcio ha infatti origini antichissime: in Italia
lo si pratica a partire negli anni rinascimentali, in particolare nella città di Firenze.
Successivamente una versione più moderna giunse dall’ Inghilterra nelle città
portuali come Genova e Livorno (chiaramente, con usi e regole diverse da quelle
odierne). Fu però sotto il regime fascista, come già riportato in precedenza, che
conobbe il suo massimo splendore, diventando lo sport nazionale (durante il
ventennio, venne creato il Coni, Comitato Olimpico Nazionale). In questi anni, il
pubblico che assisteva alle competizioni era prevalentemente di estrazione borghese
o comunque relativamente benestante. Dopo la seconda guerra mondiale, quando
l’equilibrio economico-sociale si stabilizza almeno in parte, la passione per questo
sport si diffonde anche fra le classi lavoratrici ed è allora che nasce il vero e proprio
tifo calcistico. La trasformazione del calcio in bene di consumo non è del tutto esente
da connessioni con l’avvento del sistema capitalistico. A sostegno di tale tesi, Robert
Redeker definisce lo sport del pallone come un prodotto del capitalismo “con il quale
condivide due aspetti fondamentali: il culto della competizione e il fanatismo della
misura del quantitativo” (Redeker 2002, p. 10) .
Tuttavia, è necessario precisare che non è mai stato il tifoso generico o occasionale, a
finire sotto i riflettori della stampa. Ancora più raramente, esso si è ritrovato
protagonista di episodi legati alla violenza e se ciò è avvenuto, si è trattato di
qualcosa che è parte integrante dell’atmosfera da stadio e pertanto tollerata .Il
teppismo calcistico vero e proprio è peculiare di un’altra tipologia di tifoso, un
individuo per il quale assistere ad una partita non corrisponde ad un semplice evento
sportivo, ma presenta caratteri rituali di affermazione della propria identità,
all’interno di quella che egli vive come una vera e propria guerra. Prima di analizzare
le sottili e fitte trame sociali che si intrecciano durante un evento sportivo nelle curve
degli stadi, occorre però fare un passo indietro e cercare di capire quando tutto questo
è stato portato alla luce, ovvero i tempi e i modi in cui il movimento ultras si è
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imposto sul panorama sociale italiano. Quando inizia l’ascesa del tifo organizzato?
Quando e come fa la sua comparsa sul territorio italiano, questa particolare forma di
aggregazione giovanile, forse la più importante degli ultimi trent’anni?
Quale sia stato il primo gruppo organizzato non è dato sicuro. Alcuni parlano dei
‘Moschettieri nerazzurri’ dell’ Inter (1950), altri dei ‘Fedelissimi granata’ del Torino
(1951), altri ancora, la maggioranza, della Fossa dei Leoni del Milan (1968). Dal ’68
in poi il fenomeno del tifo organizzato esplose letteralmente. Anche gli episodi di
violenza risalgono pressappoco agli stessi anni, anche se sarebbe più corretto parlare
di ‘intemperanze’, dal momento che i tifosi si limitavano a invasioni di campo,
lancio di oggetti contro l’arbitro o insulti agli avversari, senza arrivare a dare vita a
veri e propri tafferugli. Gli anni ’70 in Italia, sono un periodo tutt’altro che
tranquillo; sono “gli anni di piombo”, divenuti tristemente famosi per il numero
elevato di episodi di lotta armata, perpetrati da gruppi organizzati, sia appartenenti ai
movimenti extraparlamentari di sinistra (Lotta Continua, il Movimento Studentesco
ma anche organizzazioni terroristiche quali le Brigate Rosse e Prima Linea), sia
legati all’estrema destra (Ordine Nero e i NAR). La rivalità calcistica, seguita a ruota
dalle violenze, inizia a prendere piede nella società proprio quando nelle curve
(tradizionalmente il settore “popolare”, dei meno abbienti) si insedia quel gruppo di
persone dell’antagonismo sociale e politico di piazza, soprattutto della sinistra
extraparlamentare e dei movimenti studenteschi. Il movimento ultras ha mutato dalla
politica “modi di agire e forme di organizzazione” e si è dotato “di strutture
organizzative stabili e complesse capaci sia verso le attività interne, sia verso le
attività esterne” (Roversi, Balestri 1999). In un periodo storico in cui una vasta fascia
giovanile sentiva la necessità di essere protagonista e “liberare” uno spazio che la
rappresentasse e che potesse divenire espressione di ideologie e pensieri, la curva si
offriva come luogo ideale da conquistare e difendere. Pur non essendo la politica la
colonna portante del movimento ultras, è indubbio che abbia sempre rappresentato
una componente rilevante di esso, anche se questo aspetto merita un ulteriore
approfondimento. La rivalità tra le diverse tifoserie che esiste in questo periodo, non
comporta necessariamente la violenza, anche se molti nomi dei vari gruppi
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rimandano al campo semantico della guerra: Commandos, Vigilantes, Brigate,
Armata, Fedayn, Rangers, Venceremos. Il termine ultras viene assegnato ai tifosi dal
un giornalista di un quotidiano torinese, che commentando i fatti di un Torino-
Lanerossi Vicenza li battezza proprio ‘ultras’. Il nome piacque ai tifosi che subito lo
adottarono (Pozzoni 2005).
1.1 I morti del calcio
Incidenti e scontri non sono, come abbiamo visto, una novità nel panorama storico
del calcio. Tuttavia, è solo con la nascita del tifo organizzato che le vittime della
violenza calcistica finiscono sotto i riflettori e vengono catalogate come “vittime del
tifo”.
Il 28 ottobre 1979 si gioca il derby Roma-Lazio. Dopo alcuni tafferugli sedati dalla
polizia, dalla curva Sud (quella romanista) partono tre razzi antigrandine. Il primo
finisce fuori dallo stadio. Il secondo anche. Il terzo finisce in Curva Nord, colpisce in
faccia Vincenzo Paparelli, laziale, trentatré anni, meccanico, seduto di fianco alla
moglie la quale cerca subito di estrarre il razzo dall’occhio sinistro, inutilmente.
Paparelli muore sull’ambulanza. A lanciare è stato un diciottenne, incitato dai
compagni, che quando si rende conto dell’accaduto scappa. Rimane latitante
quattordici mesi, poi si costituisce.
La morte di Paparelli cambia la percezione degli ultras da parte dell’opinione
pubblica. Potremmo considerarlo l’inizio dell’allarme perché da quel giorno,
l’opinione pubblica si accorge del fenomeno della violenza negli stadi e
dell’esistenza dei tifosi organizzati: gli ultras diventano protagonisti, vengono
analizzati, deformati, ingigantiti , mentre gli stadi vengono sottoposti ad un processo
di militarizzazione. Come ha fatto ad entrare un lanciarazzi allo stadio? Molto
semplicemente dagli ingressi, con striscioni e bandiere, grazie alla totale assenza di
controlli. Le risposte immediate dello Stato italiano sono perquisizioni, grate, porte e
barriere per impedire il contatto tra le tifoserie. Ci si rende conto insomma, che lo
stadio è un luogo potenzialmente pericoloso. Con il tempo però, i controlli si fanno