5
Ripercorrendo brevemente lo schema evolutivo dell’istituto “famiglia” nel diritto
italiano si osserva il passaggio della comunità familiare da luogo di esercizio della
supremazia di un coniuge sull’altro, a luogo di ricerca del consenso e dell’accordo; da
istituzione considerata di supremo interesse per lo Stato, a prima formazione sociale
ove si svolge la personalità umana e si estrinseca la libertà dell’individuo; da luogo ove
operano diritti e doveri sottratti alla disponibilità dei singoli, a luogo ove si va
affermando il principio di disponibilità negoziale. Con due sole parole, si è parlato di
“privatizzazione della famiglia”3, quale prodotto, appunto, non solo della riforma o dei
principi costituzionali, ma come fenomeno che trova le proprie radici nella mutata realtà
fenomenica.
Questo nuovo modello di aggregato familiare disciplinato dalla legge ordinaria viene a
corrispondere sempre più all’immagine costituzionale della famiglia (artt. 2, 3, 39 Cost.)
e, ciò che in questa sede più interessa, viene a fondare un nuovo modello di impresa,
quello di cui all’art. 89 l. 151/75, introduttivo dell’art. 230 bis c.c.. Curiosa è la
previsione, nell’ambito dei modelli organizzativi imprenditoriali, dell’impresa familiare,
prodotto nuovo che si presenta come archetipo che recupera, sotto il comune
denominatore del lavoro, la famiglia patriarcale, sia pure organizzandola secondo i
moderni parametri della “partecipazione” e della “concertazione”.
Al fine di reprimere gli abusi diffusi sino ad allora nell’ambito del lavoro familiare, la
riforma ha finito col valorizzare le relazioni stesse e portare ad eque conseguenze il
principio della mutua solidarietà nella famiglia, rendendo i familiari lavoratori partecipi
dei profitti dell’impresa e della sua direzione. L’intento era di rafforzare, anziché
svalutare, il vincolo familiare, di sviluppare l’idea della famiglia come comunità (in
coerenza con l’instaurato regime legale di comunione dei beni fra i coniugi), pur
facendo salva l’ipotesi di un “diverso rapporto” fra i familiari, ossia di lavoro o di
società.
La disciplina introdotta dall’art. 230 bis c.c. ha quindi come oggetto specifico la
prestazione di lavoro effettuata a favore di un imprenditore da parte di un familiare di
quest’ultimo e contiene la prima regolamentazione positiva di un fenomeno
estremamente diffuso, ma i cui confini erano stati sempre incerti: il lavoro familiare.
Ed è proprio questo il merito riconosciuto al riformatore.
Necessario ed interessante è quindi analizzare se e, in caso affermativo, di quale
considerazione giuridica il lavoro familiare godesse prima dell’entrata in vigore della l.
151/75. Bisogna innanzitutto ricordare che il lavoro familiare, ovvero quello prestato
dai familiari del datore (di lavoro), si trovava menzionato in una serie di norme che,
disciplinando diversi aspetti, specie previdenziali, del rapporto di lavoro subordinato,
escludevano dal loro ambito di applicazione determinati congiunti del datore stesso,
purché conviventi e a suo carico (art. 1, l. 370/34 sul riposo domenicale e settimanale;
art. 2, lett. a) e b), d.P.R. 797/55 approvante il Testo Unico delle norme concernenti gli
assegni familiari). Se ne deduce che anche prima del 1975 il lavoro dei familiari aveva
una espressa disciplina legislativa, tuttavia frammentaria e occasionale, soprattutto
negativa, che si limitava ad escluderlo dall’ambito di operatività di norme dettate per il
lavoro subordinato in genere.
Considerando, invece, la disciplina positiva, l’orientamento assolutamente dominante
nella giurisprudenza, che trovava concorde anche la dottrina, riguardava l’assoluta
gratuità del lavoro familiare, nel senso che alla prestazione del lavoratore non
3
C. RIMINI, Seminari pavesi sul tema famiglia e diritto a vent’anni dalla riforma , in Famiglia e Diritto,
3, 1996.
6
corrispondeva alcun corrispettivo del datore di lavoro. Interessante a questo proposito è
la massima che L. Bonaretti4 ha estrapolato al termine di una rassegna su sentenze di
merito e della Corte di Cassazione emanate fra il 1938 e il 1970 in tema di lavoro
familiare gratuito: “Il lavoro prestato nell’abitazione o nell’azienda del capofamiglia fra
persone legate da stretti rapporti di parentela o coniugio, conviventi, si presume
normalmente gratuito; tale presunzione è iuris tantum e l’accertamento giudiziale del
rapporto subordinato deve essere eseguito caso per caso e sorretto da adeguata e
rigorosa dimostrazione”. Non sempre convergenti erano però le spiegazioni di questo
trattamento sfavorevole riservato al lavoratore familiare, privo di ogni diritto alla
retribuzione e alla tutela previdenziale: vi era chi5 -e ciò avveniva nella maggioranza dei
casi, tanto da proporsi come ipotesi tipica- individuava una prestazione effettuata
benevolentiae vel effectionis causa, chi6 si limitava a riferirsi ad un fondamento etico di
solidarietà che escludeva quindi la possibilità di controversie o di un diritto al
compenso; altri7, infine, faceva corrispondere la prestazione di lavoro da parte del
familiare all’adempimento di uno specifico dovere correlato al diritto al mantenimento.
Per quanto riguarda i primi tentativi di spiegazione in senso positivo di questa
generalizzata presa di posizione, i giudici e gli studiosi distinguevano il piano della
subordinazione da quello dell’onerosità, nel senso dell’astratta configurabilità di una
prestazione subordinata e nel contempo gratuita. Solo così acquisiva un significato la
presunzione semplice di onerosità che la giurisprudenza ricollegava alla prova della
subordinazione, salvo poche eccezioni, tra cui il lavoro familiare. Secondo una massima
tralaticia, per quest’ultimo operava una presunzione di gratuità, e la sua causa era
individuata, nonostante la prova della subordinazione, nell’affectio e nella benevolentia.
Questa presunzione era oltrettutto superabile solo attraverso una prova “precisa e
rigorosa” ex art. 2697 c.c.: il familiare che assumeva di essere stato parte di un rapporto
di lavoro subordinato e oneroso non poteva quindi giovarsi della praesumptio di cui
sopra e limitarsi a provare la subordinazione, ma doveva provare anche l’onerosità1, ed
in assenza della prima gli era preclusa anche la possibilità della prova “precisa e
rigorosa” della seconda 2.
Questa situazione di sostanziale e grave ingiustizia si verificava non solo nel rapporto
diretto datore di lavoro-lavoratore, ma soprattutto nel rapporto fra quest’ultimo e i suoi
familiari che non prestavano la propria opera a favore dello stesso familiare, in
occasione di un’eventuale divisione ereditaria.
Qualche passo in avanti è stato compiuto, a partire dagli anni Sessanta, quando echi nel
mondo giuridico hanno indotto ad interventi correttivi nel senso di un diverso e migliore
trattamento del familiare lavoratore, tramite la sua sottoposizione alla medesima
disciplina del lavoro subordinato in generale (ad es. in materia di tutela del lavoro dei
fanciulli e degli adolescenti).
Ma la tappa più importante verso il riconoscimento giuridico del lavoro familiare è stata
l’ammissione della possibilità di un contratto di lavoro subordinato fra coniugi e
soggetti legati da vincoli di parentela. A ciò hanno contribuito sia la magistratura sia il
4
L. BONARETTI, Il lavoro a titolo gratuito secondo la giurisprudenza , Mi, 1978, pag. 88ss.
5
A. MAZZOCCA, Prestazione di lavoro “affectionis vel benevolentiae causa” fra persone conviventi
“more uxorio”, in Giustizia Civile, 1977, I , pag. 1191ss.
6
A. LUCIANI, Il lavoro familiare, in Rivista di Diritto del Lavoro, 1962, I , pag. 109-118.
7
F. SANTORO-PASSARELLI, Nozioni di diritto del lavoro, 14° ed., Na, 1962, pag. 86.
1
F. MATTIUZZO, A. PELLARINI, G.G. PETTARIN, L’impresa familiare. Aspetti di diritto
commerciale, finanziario e previdenziale, Giuffré, 1990, pag. 24.
2
V. nota precedente.
7
legislatore che hanno espressamente ammesso in taluni casi questa possibilità, non
quale intervento diretto nei rapporti, ma come qualificazione di una determinata
fattispecie, per far godere al familiare lavoratore il beneficio delle assicurazioni sociali,
garantendo effetti secondari solo nei confronti di un terzo e non fra le parti.
Si sono spinti oltre alcuni giudici i quali, anche se solo in via incidentale, hanno
riscontrato a volte, nell’ambito di un’impresa, un rapporto di lavoro subordinato
instaurato ex contractu fra il titolare ed un suo familiare3. Non sempre chiari ne
appaiono i motivi, ma certamente ci si trova di fronte, in un certo senso, ad un
precedente dell’articolo 230 bis c.c. e dei suoi limiti: si era infatti rilevata
l’incompatibilità logica fra una prestazione gratuita di lavoro e l’attività d’impresa, che
si assume esercitata per uno scopo di lucro.
Alla medesima esigenza di tutela del lavoro familiare è riconducibile, fra l’altro,
l’estensione dell’istituto della comunione tacita familiare, prevista dall’art. 2140 c.c.,
dal settore agricolo a quello non agricolo4.
Questo è il quadro di riferimento nel quale si colloca l’intervento del riformatore del
1975, e il suo significato più profondo si coglie riconoscendo all’istituto dell’impresa
familiare una natura residuale e suppletiva, in quanto diretta ad apprestare una tutela
minima ed inderogabile a quei rapporti di lavoro che si svolgono nell’ambito degli
aggregati familiari e non altrimenti qualificati5.
Ciò significa che, almeno nei limiti di operatività dell’art. 230 bis c.c., non vi è più
spazio per il lavoro familiare “gratuito”6, avente cioè causa liberale, bensì per una
disciplina inderogabile lato sensu onerosa, salva la ricorrenza di altri rapporti, anch’essi
onerosi (societario o di lavoro subordinato).
Ma la nuova previsione non poteva comunque cancellare la peculiarità del lavoro
familiare per assoggettarlo tout court alla disciplina del lavoro subordinato svolto fuori
dalla famiglia: vi ostava l’origine storica della norma e un argomento logico. Al di fuori
dell’articolo de quo, infatti, il lavoro familiare continua a non presumersi oneroso e le
situazioni corrispondenti si presumono come gratuite. Ciò ha indotto alcuni autori7 ad
interpretare estensivamente la nuova disposizione, ricomprendendovi anche il lavoro
svolto esclusivamente fra le mura domestiche e non nell’impresa, allargando la
categoria dei familiari legittimati alla partecipazione, riferendo i gradi di parentela e
affinità a ciascun membro, e non facendo discendere l’estinzione del rapporto dal venir
meno dello status familiare.
L’ammissibilità o meno di questo procedimento ermeneutico dipende, però, dalla
qualificazione dello stesso art. 230 bis c.c. in termini di specialità o eccezionalità: alcuni
3
C. Cassazione, sez. penale, 5 aprile 1968, n. 628, in Rivista di Diritto del Lavoro, 1968, II , pag. 171 con
nota di SIMONETTO. Così anche C. Cassazione, 17 marzo 1971, n. 751, in Massimario della
Giurisprudenza Italiana, 1971.
4
Pacificamente ammessa da una consolidata giurisprudenza. Da ultimo C. Cassazione, 30 novembre
1978, n. 5662, in Massimario della Giurisprudenza Italiana, 1978.
5
Da ultimo C. Cassazione, 26 giugno 1984, n. 3722, in Giustizia Civile, 1984, I ,2746 con nota di
FINOCCHIARO. Così anche C. Cassazione, 8 aprile 1981, n. 2012, in Giurisprudenza Commerciale,
1982, II , pag. 127ss con nota di MISCIONE, confermata da C. Cassazione, 9 giugno 1983, n. 3948, in
Giustizia Civile, 1983, 2625.
6
C. Cassazione, 10 marzo 1988, n. 2138, in Massimario Foro Italiano, 1988 secondo cui “al familiare
che effettui prestazioni lavorative nell’impresa familiare viene riconosciuto il diritto di partecipazione agli
utili e la liquidazione in denaro alla cessazione delle stesse, escludendosi una presunzione di gratuità delle
dette prestazioni lavorative”.
7
C.M. BIANCA, Diritto Civile, II, 1981, pag. 316. Così anche A. BELLELLI, I soggetti dell’impresa
familiare, in Nuovo Diritto Agrario, 1977, pag. 165ss.
8
interpreti8 propendono per la prima soluzione, negando, quindi, l’applicazione analogica
della disciplina ivi contenuta (“alcuna disposizione comporta l’inapplicabilità all’istituto
de quo dei principi generali del nostro ordinamento: i concetti di titolarità,
rappresentanza, amministrazione e gestione sono quelli propri del diritto commerciale e
non trovano alcuna eccezione qui”). Di contrario avviso la Suprema Corte9 che vi
riconosce natura eccezionale, in quanto la norma si porrebbe come eccezione, appunto,
alle norme generali in tema di prestazione lavorative, e pertanto sarebbe insuscettibile di
interpretazione analogica (in materia di convivenza more uxorio). In nota alla sentenza,
Luigi Balestra10 ritiene che erroneamente i giudici abbiano proceduto a
quell’interpretazione: la disciplina dell’impresa familiare, con esplicita enunciazione del
suo carattere residuale, mirerebbe ad apprestare una tutela minima a tutta una serie di
situazioni sfornite di protezione in passato, “sicché occorrerebbe parlare di norma a
copertura generale”.
Il riformatore del ‘75, con la previsione di cui all’art. 230 bis c.c., non ha, però,
inventato l’impresa familiare. Esso si è limitato a recepire e regolamentare un fenomeno
ampiamente conosciuto nella pratica, quello della collaborazione familiare, soprattutto
del coniuge e dei figli, nell’impresa: si tratta di un fenomeno che, in precedenza, la
giurisprudenza tendeva a racchiudere, con non poche forzature, laddove non ravvisasse
tutti gli elementi di un rapporto di lavoro subordinato, entro lo schema della società di
fatto, valorizzandone i profili associativi.
Per cogliere il significato specifico della riforma in materia d’impresa, il Prof. A. Piras11
ha ripercorso l’evoluzione del diritto italiano in questo specifico settore, individuando,
al riguardo, due fasi distinte: una prima, risalente all’originaria formulazione del codice
del ‘42, nella quale non si fa riferimento diretto all’impresa familiare, e una seconda,
successiva appunto al 1975, anno in cui questa nuova figura è stata tipizzata.
Nell’intervallo, però, non si può certo negare l’esistenza di forme di organizzazione
d’impresa nelle quali sia implicato, in posizione di rilievo, il lavoro familiare, le quali,
sebbene intese non nel senso proprio di “impresa familiare”, si connotano tuttavia come
“imprese a necessaria e spiccata caratterizzazione familiare”.
Nella fase precedente la grande innovazione rappresentata dalla riforma, l’attenzione e
la disciplina legislativa erano rivolte esclusivamente ai rapporti delle realtà
imprenditoriali con i terzi, ignorandone invece i rapporti di organizzazione interna,
lasciati o al diritto comune o, addirittura, completamente ignorati dal punto di vista
giuridico.
Di immediata percezione è il parallelismo operato dall’autore con la figura del piccolo
imprenditore, dove il lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia prevale
rispetto agli altri fattori organizzativi, quali il lavoro altrui e il capitale: il legislatore si é
preoccupato, infatti, di elaborare uno statuto in favore di questa ipotesi, garantendo
l’immunità dal fallimento e da determinati obblighi. Ma si tratta di aspetti solo esterni.
Quanto alla connotazione interna della struttura, ne verbum quidem. Allora il pensiero
deve rivolgersi all’art. 2086 c.c., quale modello di organizzazione interna dell’impresa
in generale, a valenza anche familiare: qui l’imprenditore è il capo dell’impresa, dal
8
V. nota 5. Così anche M. DAVANZO, L’impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia, Cedam, 1981.
9
C. Cassazione, 2 maggio 1994, n. 4204, in Giurisprudenza Italiana, 1995, I , 1, 845 con nota di
BALESTRA.
10
L. BALESTRA, Sulla rilevanza della convivenza more uxorio nell’ambito dell’impresa familiare,
v. nota precedente.
11
A. PIRAS, Riflessioni sull’impresa familiare e sull’azienda gestita da entrambi i coniugi, in Diritto e
Giurisprudenza , 1980, pag. 40ss.
9
quale dipendono gerarchicamente i collaboratori, ovvero i terzi legati da un rapporto di
lavoro subordinato, ma anche gli stessi componenti della famiglia. Anche nei confronti
di questi ultimi, quindi, si applica il principio di subordinazione all’imprenditore, senza
garanzia alcuna e senza alcun titolo da far valere.
Ne deriva, quindi, che il modello di impresa a caratterizzazione familiare del codice
civile del 1942 è un modello improntato a una concezione gerarchica, che estromette i
familiari da qualunque potere decisionale e da qualunque garanzia patrimoniale.
Sono proprio questi i principi che nel 1975 si sono voluti capovolgere, dando avvio a
quella seconda fase cui si è accennato prima, fase che privilegia soprattutto il momento
interno dell’organizzazione d’impresa. La nuova figura dell’impresa familiare viene
così ad inserirsi nella disciplina generale dell’impresa, condividendone principi, ma
differenziandosene sotto altri aspetti, fondamentali, dovuti all’adeguamento del modello
imprenditoriale ai criteri della “famiglia”, quale emersa nella nuova realtà sociale e
nella riforma.
Si è perciò parlato di “familiarizzazione”12 dell’impresa, di attenuazione, se non
sovvertimento, del principio gerarchico e introduzione di determinate garanzie sul
terreno patrimoniale, secondo l’ottica egualitaria della pari dignità dei membri, prima
negata.
Fra le ipotesi di prestazione di lavoro fornite da parte di familiari nell’ambito di una
comune attività economica dedicata ai bisogni comuni si sono venuti diversificando
distinti modelli di famiglia, che mutano in relazione alle finalità perseguite: fra queste,
la famiglia artigiana, nella quale, ai fini del calcolo dei limiti dimensionali, possono
essere “computati i familiari dell’imprenditore, ancorché partecipanti all’impresa
familiare di cui all’art. 230 bis c.c.”, la famiglia del coltivatore diretto in cui emerge la
figura del coadiuvante e il consortium ercto et non cito o comunione tacita familiare.
L’impresa familiare non detta un ulteriore modello di famiglia, ma si preoccupa solo di
tutelare il familiare che vi presti il proprio lavoro, lasciando irrisolti problemi di
coordinamento con le altre tre forme, salvo escludere, per l’ultima citata, la disciplina
effettuale che contrasti con quella dettata dall’art. 230 bis c.c.. Proprio a quest’ultima, la
comunione tacita familiare, va riconosciuto un ruolo fondamentale nella genesi del
nuovo istituto, cosicché due orientamenti si sono creati in dottrina riguardo la
coesistenza delle due fattispecie normative: un primo indirizzo13, ferma la disciplina
prevista dagli usi vigenti, sostiene la loro sostanziale identificazione, essendo l’impresa
familiare non altro che la comunione tacita familiare regolata dalla legge; l’altro14, al
contrario, nega qualunque coincidenza ed evidenzia, piuttosto, le differenze.
Secondo la prima opinione, in seguito alla riforma del diritto di famiglia, la comunione
tacita familiare è divenuta una species del genus impresa familiare, disciplinata dall’art.
230 bis c.c. e dagli usi agricoli. Unitarie sarebbero quindi la regolamentazione primaria,
la natura giuridica e la struttura fondamentale, e se una differenziazione si dovesse
rinvenire, questa riguarderebbe l’ipotesi, marginale, della mancata tutela satisfattoria del
12
A. PIRAS, op. cit., pag. 44.
13
F.D. BUSNELLI, L’impresa familiare e l’azienda gestita da entrambi i coniugi, in Rivista Trimestrale
di Diritto e Procedura Civile, 1976, pag. 1397. Così anche G. TAMBURRINO, L’impresa familiare e la
comunione tacita familiare in agricoltura a seguito della riforma del diritto di famiglia (l. 19 maggio
1975, n. 151), in Giurisprudenza Agraria Italiana, 1976, I , pag. 200. In giurisprudenza Trib. Milano, 23
maggio 1977, in Foro Italiano, 1978, Voce Famiglia, n. 68.
14
G. OPPO, Dell’impresa familiare, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia sub art. 89,
diretto da L. Carraro, G. Oppo, A. Trabucchi, 1977, Pd, Cedam, pag. 518-519. Così anche
C.A.GRAZIANI, L’impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia: prime considerazioni, in Nuovo
Diritto Agrario, 1975, pag. 219-221.
10
familiare: nel caso dell’impresa familiare, infatti, si dovrebbe ricorrere ad istituti affini o
principi generali, mentre nell’altro agli usi.
Secondo l’altro orientamento dottrinale, peraltro dominante, i due istituti sarebbero,
invece, diversi e regolati da normative distinte, ed il richiamo presente all’ultimo
comma del nuovo articolo servirebbe unicamente ad estendere l’applicazione anche alla
comunione tacita familiare di quel minimo di tutela disposto dall’art. 230 bis c.c..
La fattispecie della comunione tacita familiare è così rimasta invariata a seguito della
riforma, essendo modificato, nei limiti anzidetti, il suo regolamento (usuale) solo
riguardo ai poteri, e non anche ai diritti patrimoniali riconosciuti al familiare. Difatti, il
diritto al mantenimento e ai proventi erano già riconosciuti dalle consuetudini (il
secondo, anzi, in termini di diritto di comproprietà anche sui beni acquistati a nome di
alcuni soltanto dei partecipanti), mentre innovative sono la regola della parità di
trattamento del lavoro dell’uomo e della donna e il regime delle decisioni, da adottarsi a
maggioranza dei partecipi sugli oggetti e con le conseguenze di cui all’art. 230 bis,
comma 1 c.c.. Resta ovviamente fermo ogni maggior diritto attribuito ai singoli
familiari dagli usi rispetto alla disposizione in esame.
Secondo un’interpretazione “di mediazione”15 fra i due indirizzi sopra citati, l’istituto
più risalente acquisterebbe rilevanza come species del genus regime patrimoniale della
famiglia, rispetto alle ipotesi tipiche della comunione legale e dell’impresa familiare,
ma ciò non significherebbe comunque identità.
Menzione legislativa espressa della comunione tacita familiare si trovava nell’art. 2140
c.c., abrogato dall’art. 205 della novella 151, secondo il quale “le comunioni tacite
familiari nell’esercizio dell’agricoltura sono regolate dagli usi” (usi agrari, tanto
generali quanto locali). La sua disciplina vigente è invece rappresentata dal comma 5
dell’art. 230 bis c.c. (la cui norma non ha efficacia retroattiva e trova applicazione solo
per le collaborazioni familiari svoltesi in epoca successiva all’entrata in vigore della
legge di riforma16) e dalle consuetudini compatibili, non necessariamente coincidenti
con la disciplina dettata per l’impresa familiare, ma nemmeno pregiudizievoli rispetto a
quella, ovvero che neghino in tutto o in parte un diritto riconosciuto dalla legge al
familiare.
Secondo P. Marini17 la comunione tacita familiare può definirsi come “gruppo di
soggetti legati da vincoli di parentela che solidalmente condividono tetto e mensa e che
esercitano in comune l’agricoltura su terre proprie e indivise o di terzi, contribuendovi
con il proprio lavoro e mantenendo in stato di proprietà indivisa un nucleo di beni, di
solito senza obbligo di rendiconto. Il patrimonio è attribuito a tutti i componenti senza
distinzione di quote: di conseguenza gli utili e le perdite rimangono in comune ed i beni
in comunione sono di proprietà indivisa di tutto il gruppo familiare. La mancanza di
suddivisione e, di solito, di un obbligo di rendiconto dipendono sia dal carattere
fiduciario del rapporto, che dalla materiale impossibilità di effettuare una distinzione dei
diritti degli uni e degli altri, dimodoché gli utili e le perdite rimangono in comune ed al
singolo è inibita la possibilità di disporre di beni compresi nel patrimonio comune”. Da
questa nozione si evincono i caratteri essenziali e strutturali della fattispecie, identificati
15
M.C. ANDRINI, Proprietà e impresa nell’art. 230 bis c.c., in Rivista del Notariato, 1983, pag. 1197ss.
16
La giurisprudenza di legittimità e di merito è al momento pacifica nel ritenere che la disciplina di cui
all’art. 230 bis c.c. sia inapplicabile ogniqualvolta l’attività o comunque la collaborazione sia cessata
anteriormente al 20 settembre 1975, data di entrata in vigore della l. 151/75. Così C. Cassazione, 18
ottobre 1976, n. 3585, in Giustizia Civile, 1980, I, 930 con nota di FINOCCHIARO. Da ultimo
C. Cassazione, 23 ottobre 1985, n. 5195, in Giurisprudenza Italiana, 1987, I , 1, 1126.
17
P. MARINI, L’impresa familiare, 1982, Rm, pag. 36ss.
11
dall’elaborazione giurisprudenziale, nel silenzio dell’art. 2140 c.c., nell’agire comune di
un consorzio familiare (non limitato ai vincoli di parentela e affinità richiesti dall’art.
230 bis c.c.), nella direzione da parte di un capo, nella comunione di vita e
nell’esistenza di un patrimonio indiviso la cui amministrazione è collettiva e senza
rendiconto; il tutto finalizzato al mantenimento della reciproca assistenza materiale dei
componenti, piuttosto che all’incremento delle sostanze patrimoniali.
La diversa ragione giustificatrice non è l’unico elemento differenziale dell’istituto con
l’impresa familiare: laddove quest’ultima partecipa della dimensione industriale, ove la
titolarità dei beni aziendali non è più necessariamente in capo all’imprenditore, e il
binomio proprietà-impresa è risolto, nel primo domina la logica della proprietà, e più
propriamente quella della proprietà collettiva. Quindi, da una comunità di godimento e
di limitata attività si è passati alla famiglia nel suo aspetto dinamico, alla famiglia quale
produttrice di beni e servizi, non per il proprio consumo ma per lo scambio con gli
estranei, ove il principio della produzione prevale e nel quale trova la più ampia
possibilità di esplicazione l’autonomia e la personalità dei singoli familiari, i quali tutti
concorrono non solo alla produzione, ma anche alle scelte direzionali.
La tutela apprestata per l’impresa familiare si pone, così, come prevalente rispetto a
quella consuetudinaria prevista per il suo “antecedente storico” e questo, secondo
alcuni18, consentirebbe di superare l’antico dilemma se la comunione tacita familiare sia
ipotizzabile in attività diverse dall’agricoltura: questa possibilità è ormai pacificamente
ammessa dalla giurisprudenza19, che riconosce l’estensione di questa figura “di
immensa importanza” creata dalla prassi20 a tutti i nuclei familiari, anche non agricoli.
Paragrafo 2 Il travagliato iter di approvazione dell’art. 89 l. 151/75
L’istituto dell’impresa familiare, nei termini in cui è stato concepito nell’art. 230 bis
c.c., non era contemplato nei vari progetti di legge che si sono susseguiti nel periodo
antecedente la riforma del diritto di famiglia. Esso è infatti nato come proposta di un
senatore, il Prof. Luigi Carraro, al termine del lunghissimo e travagliato iter
parlamentare che ha condotto al varo della l. 19 maggio 1975, n. 151.
Tuttavia, il dibattito sulla necessità di apprestare forme di tutela della prestazione di
lavoro svolta a favore di familiari, soprattutto nell’ambito delle attività agricole, aveva
preso avvio già da dagli anni Sessanta e, precisamente, il 24 ottobre 1964, quando
l’onorevole Emilio Sereni aveva presentato una proposta di legge formulata in undici
articoli, il cui scopo era quello di “modificare il coevo assetto giuridico della famiglia
contadina, in modo che ciascun componente fosse posto in grado di partecipare in
condizione di parità alla soluzione di tutti i problemi di impresa, e potesse così svolgere
in pienezza il ruolo di lavoratore e produttore”21. Questa proposta non ebbe alcun
seguito, ma fu significativa perché segno di quella tendenza ad eliminare la struttura
rigidamente gerarchica della famiglia coltivatrice, ad imitazione di quanto era in fatto
successo nelle famiglie delle grandi città industriali.
18
In senso contrario all’estensione P. MARINI, op. cit., pag. 37.; M. DAVANZO, op. cit., pag. 124ss.
19
Da ultimo C. Cassazione, 26 febbraio 1972, n. 569, in Giurisprudenza Italiana, 1973, I , 1, 1599 con
nota di MASI.
20
R. SACCO, Il manuale per le matricole, in Rivista di Diritto Civile, 1975, II , pag. 322ss.
21
C.A. GRAZIANI, op. ult. cit., pag. 199ss.
12
Comunque, eliminato questo isolato precedente, la nascita dell’impresa familiare si
colloca nell’ambito delle discussioni che hanno accompagnato l’emanazione della
riforma del ‘75.
Innanzitutto, il disegno di legge approvato dalla Commissione Giustizia della Camera
dei Deputati il 1 dicembre 1971 conteneva una norma, all’art. 55, in cui testualmente si
prevedeva che “quando nelle aziende a conduzione familiare prestano la loro attività
altri componenti la famiglia, costoro partecipano alla comunione in proporzione alla
quantità e qualità del lavoro svolto. Il lavoro della donna è considerato equivalente
all’uomo”. Si tentava una prima, embrionale, tutela del lavoro familiare e si inseriva la
disposizione nell’ambito della disciplina della comunione dei beni fra coniugi; essa,
anzi, veniva concepita come corollario dell’“azienda a conduzione familiare”,
quell’azienda nella quale prestano attività entrambi i coniugi, prevista nel medesimo
articolo, ma che è divenuta oggetto del vigente art. 177 c.c.. Siffatta previsione fu
fortemente criticata sia dai commentatori della riforma, che ne rilevavano l’estrema
genericità, ambiguità e incompletezza, sia dalle massime organizzazioni contadine
tendenti ad una maggiore e precisa tutela della famiglia e dei partecipanti alla
comunione. Passato successivamente il progetto all’esame della Commissione Giustizia
del Senato, esso ha subito modifiche rilevantissime: è stato infatti proposto dal senatore
L. Carraro, membro della Commissione stessa, nella seduta del 16 gennaio 1975,
l’emendamento per la nuova sistemazione della materia, che ha portato alla separazione
della disciplina del lavoro dei familiari in genere da quella della comunione dei beni dei
coniugi. È stata così creata, da un lato, la fattispecie azienda coniugale (art. 177, comma
1, lett. d) e comma 2 c.c. nov.) che, nell’ambito della comunione legale, comprende la
gestione di un coniuge nell’impresa dell’altro e, dall’altra, l’azienda familiare (art. 89 l.
151/75), alla quale, invece, é stata riservata una norma apposita da inserirsi nel codice
civile come art. 2083 bis. Si voleva così porre l’accento più sull’attività che sul
patrimonio, sul diritto d’impresa più che su quello di proprietà, componendo l’antica
dicotomia fra materia agricola e forma commerciale, in successione concettuale con la
piccola impresa.
Si è verificato, fra l’altro, per ragioni di sedes materiae, un mutamento terminologico
importante: dall’“azienda familiare” si è passati, infatti, all’“impresa familiare”.
Passata la proposta all’esame, prima della Commissione in sede referente, e poi
dell’Assemblea di Palazzo Madama, essa ha subito ulteriori modifiche. In particolare la
disciplina del lavoro familiare è stata riportata nel Libro Primo del codice civile,
costituendo un’apposita sezione del Capo Sesto (dedicato al “Regime patrimoniale della
famiglia”) del Titolo Sesto, come art. 230 bis. Dal punto di vista sostanziale, la modifica
di maggior rilievo è stata l’attribuzione di uno specifico potere amministrativo ai
familiari nei confronti del patrimonio aziendale.
Se l’improvvisazione ha caratterizzato il sorgere della norma e costituisce la causa
principale delle lacune ed imperfezioni della tecnica legislativa, bisogna però
riconoscere l’evoluzione rispetto all’originario modello di disciplina dell’azienda a
conduzione familiare, e il valore di questa prima organica risposta all’esigenza
profondamente sentita di tutela del lavoro familiare.
Paragrafo 3 Origine e ratio legis della norma
Alla comunione tacita familiare, come sopra accennato, va riconosciuto un ruolo
fondamentale nella genesi del nuovo istituto familiare. E’ da essa, infatti,
dall’inadeguatezza della sua disciplina, che l’abrogato art. 2140 c.c. affidava
13
integralmente agli usi, che ha preso le mosse l’attuale art. 230 bis c.c.. L’esistenza di
consuetudini che attribuivano ogni potere al capo-famiglia, oppure che sancivano un
deteriore trattamento della donna rispetto all’uomo, si era rilevata inadatta ai tempi e
aveva provocato gravi conseguenze sociali, scoraggiando i giovani appartenenti a
famiglie contadine dal partecipare all’attività economica del nucleo di appartenenza.
Ciò, unito ad un dato sociologico di progressivo allentamento dei rapporti familiari, in
sintonia con lo sviluppo della “società industriale”, ha segnato la crisi dell’agricoltura
italiana e del corrispondente istituto, emergendo su più fronti la necessità di una
disciplina del lavoro familiare.
Questa origine, per così dire “agraria”22, dell’art. 230 bis c.c. ha portato ad una
formulazione della disposizione che risente dei problemi e delle istanze di quel mondo.
L’introduzione nel nostro ordinamento giuridico dell’istituto dell’impresa familiare ha
significato, nell’ambito della grande stagione di progresso culturale e sociale segnata
dalla riforma, il riconoscimento del valore del lavoro reso dal congiunto nell’ambito
dell’impresa gestita con l’apporto dei componenti il gruppo familiare.
Mario Finocchiaro23 ha ripercorso sinteticamente le impressioni che tale novità
legislativa ha suscitato nei vari commentatori, ed in particolare la ratio che essi vi hanno
individuato. Secondo una prima ricostruzione24, l’articolo rappresenterebbe “uno dei più
seri e risoluti tentativi di attuazione di un insieme di norme costituzionali, risoltesi fino
ad allora in sterili enunciazioni di principio”, in particolare degli artt. 1 e 29 (che
dichiarano la Repubblica fondata sul lavoro e sulla famiglia, come società naturale),
dell’art. 3, comma 2 (che consacra il principio di uguaglianza sostanziale), dell’art. 4,
comma 1 (che riconosce ad ogni cittadino il diritto al lavoro), degli artt. 35, 36 e 37
(posti a tutela dei diritti fondamentali del lavoratore) e, infine, dell’art. 46 (che sancisce
il diritto del lavoratore alla collaborazione nella gestione dell’azienda). In senso non
difforme, altri25 intendono pilastri della struttura normativa il rispetto della persona
umana, il principio di uguaglianza, la promozione morale e sociale del lavoro, la
salvaguardia dell’autonomia e dell’indipendenza economica del familiare che presta
un’attività di lavoro nella famiglia, nonché le esigenze democratiche radicate nella
coscienza dei cittadini per ogni settore della vita, incluso quello familiare. Secondo altri
autori26 si è voluto sanare, ovvero proteggere, situazioni ricorrenti di collaborazione ad
una attività imprenditoriale individuale che ha titolo in un rapporto più o meno stretto di
parentela o affinità con l’imprenditore, per cui il fondamento risiederebbe nella tutela
del lavoro. Fra questi vi è chi27 riconosce nella nuova disciplina la protezione non solo
del lavoro familiare, ma delle stesse imprese familiari, costituendo essa “un forte
incentivo a ricercare sul mercato del lavoro una più adeguata retribuzione con l’effetto
di favorire la diffusione di tale tipo di impresa”.
R. Costi28 pone invece l’accento sull’istanza sociale che si è voluto codificare come
meritevole di tutela, ovvero quella di “colmare una lacuna dell’ordinamento, definendo
22
V. COLUSSI, voce Impresa familiare, in Digesto delle Discipline Privatistiche, sez. commerciale, VII ,
UTET, To , pag. 174.
23
M. FINOCCHIARO, Fondamento e natura (individuale o collettiva) dell’impresa familiare, in Vita
Notarile, 1977, II , pag.875.
24
A. DELL’AMORE, La prestazione di lavoro nell’impresa familiare, in Rivista di Diritto del Lavoro ,
1976, I , pag. 15.
25
C.A. GRAZIANI, op. cit. pag. 83.
26
N. FLORIO, Famiglia e impresa familiare, Bo, 1977. Così anche V. COLUSSI, Impresa familiare,
lavoro familiare e capacità di lavoro , in Giurisprudenza Commerciale, 1977, I , pag. 702.
27
V. PANUCCIO, L’impresa familiare, Mi, 1976, pag. 50-51.
28
R. COSTI, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di famiglia, Mi, 1976, pag. 77.
14
una serie di situazioni di fatto che si erano già prodotte, e disciplinarle conformemente
alle regole che la prassi aveva già provveduto a darsi”.
Giungendo alle estreme conseguenze, G. Tamburrino29 ritiene che, oltre alla posizione
del familiare nell’impresa familiare, nell’art. 230 bis c.c. sia stata prevista anche la
posizione generica del familiare che presta la sua attività continuativa di lavoro nella
famiglia e per la famiglia, indipendentemente da un’impresa e da un’azienda: esempio
classico sarebbe la prestazione di attività (normalmente domestica) da parte di figli o
parenti conviventi non anche partecipanti all’impresa, o perché questa non c’è o perché
non vi collaborano.
M. C. Andrini30 restringe questo ultimo panorama e parla di tutela unicamente rivolta al
familiare partecipe, cioè “il contraente più debole”, e non all’imprenditore egemone, la
cui protezione si risolve in autotutela: solo così si evidenziano e valorizzano nell’ambito
del gruppo familiare gli elementi solidaristici, e si avalutano, viceversa, i fini
speculativi.
Si riporta, anche se viziata di incompletezza, la tesi di A. Palazzo31, secondo la quale la
disciplina di cui all’art. 230 bis c.c. rappresenta uno strumento giuridico per
l’applicazione dei “risultati ottenuti dalla socio-psichiatria, secondo cui la donna troverà
gioioso il lavoro domestico, come ritorno al lavoro nel mondo della produzione”.
Infine si riporta l’osservazione di V. Panuccio32 che, in contrasto con quanto sopra,
sottolinea fra l’altro un “eccesso legislativo rispetto alla realtà”, riferendosi ai “poteri
assai ampi e di dubbia costituzionalità attribuiti ai familiari soprattutto in campo
decisionale”.
Volendo comunque ricondurre ad unum la rassegna di cui sopra, l’istanza sociale che si
è voluta codificare, come meritevole di tutela, è stata quella di disciplinare in diritto le
comunità di lavoro familiare, traducendo in termini giuridici quelle posizioni che nella
realtà economica spettano a coloro che nell’impresa collaborano in posizione di
dipendenza rispetto ad un imprenditore, contribuendo col proprio lavoro allo sviluppo,
in assenza di un titolo che qualifichi giuridicamente questo loro comportamento
produttivo. Il legislatore ha quindi codificato quel diritto giurisprudenziale che aveva
esteso la disciplina della comunione tacita familiare ad ipotesi nuove e non previste dal
codice del 1942 e, su questa via, anziché recepire le tralaticie affermazioni dei giudici,
ha introdotto nuove norme che non possono non essere in armonia con gli altri principi
affermati dalla riforma del diritto di famiglia fra cui, in particolare, la parità di diritti di
tutti i membri, con ripudio di ogni visione gerarchica della famiglia, e la valorizzazione
al massimo del lavoro in contrapposizione al capitale33.
Questo intervento di protezione speciale è stato giustificato dalla presenza di un tipo di
vincolo familiare quale quello previsto dall’art. 230 bis, comma 3 c.c.34, e questa
esigenza di tutela della “comunità paritaria di lavoro”35 si connota quindi, oltre che
come motivo ispiratore, anche come principio interpretativo della nuova previsione
29
G. TAMBURRINO, Il lavoro nella famiglia, nell’azienda e nell’impresa familiare a seguito della
riforma , in Massimario Giurisprudenza del Lavoro , 1976, I , 2 , pag. 138-144.
30
M.C. ANDRINI, Brevi note sulla soggettività giuridica dell’impresa familiare, in Giurisprudenza
Commerciale, 1977, I , pag. 132ss.
31
A. PALAZZO, Il lavoro nella famiglia e nell’impresa familiare, in Diritto e Famiglia, 1976, pag. 827.
32
V. PANUCCIO, op. cit.
33
M. FINOCCHIARO, op. cit., pag. 878.
34
R. COSTI, op. cit., pag. 74-75.
35
C.M. BIANCA, Regime patrimoniale della famiglia e attività d’impresa , in Il Diritto di Famiglia e
delle Persone, 1976, 3, pag. 1240.
15
normativa, soprattutto di fronte ai problemi e alle lacune sorti nella ricostruzione
dell’istituto.
Questo riconoscimento del legame fra lavoro e status, a differenza di quanto avveniva
nella comunione tacita familiare, non corrisponde altro che ad una nuova rilevanza del
momento economico della famiglia, nel quale la tensione fra le due esigenze di tutela,
del gruppo e del singolo, viene solo in parte soddisfatta dalla normativa in esame:
quanto alla protezione apprestata per il gruppo (inteso non come soggetto autonomo, ma
come insieme di interessi individuali accomunati dall’identico scopo produttivo), questa
non è stata realizzata appieno; dall’altro lato, invece, la tutela del singolo è assicurata,
non solo nella sua componente economica, ma anche in quella più profonda e nascosta
del diritto alla dignità della persona.
Il riconoscimento e la garanzia costituzionale dei diritti inviolabili dell’uomo “sia come
singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” non consente di
unificare la tutela del singolo e quella del gruppo, ancorché il primo sia parte
dell’insieme, e di rafforzarle a vicenda, ma crea due distinte forme di tutela, spesso
anche contrapposte. Ad esempio, nell’ambito dell’impresa familiare, il gruppo si
difende dal singolo vietandogli di trasferire ad estranei il diritto di partecipazione (art.
230 bis, comma 4 c.c.) e consentendogliene una disposizione limitata solo a favore dei
familiari indicati al comma 3 e con il consenso unanime; in caso di divisione per la
morte dell’imprenditore, ancorché l’impresa familiare venga meno nella sua
imputazione soggettiva, il gruppo ha ancora una possibilità di difesa, ovvero la sua
ricostruzione in capo ad un altro familiare, partecipe ai sensi del comma 1, il quale ha
diritto di prelazione sull’azienda (comma 5). In quest’ultima ipotesi, anzi, le due tutele
vengono a realizzare un interesse comune e a convergere.
L’interesse del singolo è rivolto non solo al riconoscimento della sua quota di capitale-
lavoro, ma anche alla possibilità di partecipare all’attività d’impresa: di qui l’utilità del
diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria, indipendentemente dal grado di
vocazione. A presidio della posizione del gruppo, nell’ipotesi in cui l’erede voglia
cedere l’azienda ad un estraneo, è stato comunque richiamato l’art. 732 c.c. “nei limiti
in cui è compatibile”.
Si sarebbe così realizzata nell’art. 230 bis c.c. l’autorevole previsione di Pietro
Rescigno36, secondo la quale “la società pluralista, che conduce le formazioni sociali al
massimo della libertà e riesce a creare un’ordinata distribuzione delle funzioni nei vari
ambiti della vita sociale, economica e politica elaborando in ciascun settore regole di
convivenza e di reciproco rispetto fra i gruppi, deve per necessità incontrare un
momento in cui lo Stato è costretto ad intervenire, se non vuole che il singolo sia
rimesso all’arbitrio del gruppo”.
Quanto descritto sinora si inserisce perfettamente nell’ambito del diritto di famiglia,
nella sua “euforia individualistica”37, ed aggrava la già esistente confusione fra i
concetti di proprietà e gestione, di partecipazione e responsabilità, di prestazione di
lavoro autonomo e a carattere subordinato. Interessante a questo proposito l’intervento
di E. Bertolli38 il quale, analizzando le due correnti di pensiero emerse in dottrina in
sede di analisi della nuova figura, l’una portatrice di istanze individualistiche che vede
prevalere la situazione giuridica soggettiva del singolo familiare lavoratore, e l’altra che
36
P. RESCIGNO in M.C. ANDRINI, Tutela dell’individuo e tutela del gruppo nell’impresa familiare, in
Rivista del Notariato, 1988, I , pag. 871ss.
37
L’espressione è di SPINELLI in Rivista di Diritto Civile, 1987, I , pag. 294.
38
E. BERTOLLI, Brevi spunti in tema di lavoro nell’impresa familiare, in Responsabilità Civile e
Previdenza , 1988, pag. 186ss.
16
considera dominante il momento collettivo, soprattutto in termini di potere decisorio,
sottolinea come entrambi gli orientamenti diano un’interpretazione riduttiva della nuova
realtà e ne propone una combinazione: convivrebbero così il diritto al mantenimento,
agli utili e agli incrementi, riferiti al singolo, e il potere decisorio relativo alla gestione
della società, affidato al gruppo.
Queste le aspettative sociali e la ratio legis originaria: per quanto riguarda però i
risultati, gli autori lucidamente rilevano come lo scopo non sia stato totalmente
realizzato, accusando “soluzioni scarsamente coerenti nel complesso”. Fra questi la
stessa M. C. Andrini e gli illustri A. Trabucchi e G. Oppo39.
Indipendentemente dagli esiti raggiunti, non si può comunque disconoscere il ruolo
dell’art. 230 bis c.c., attraverso il quale il lavoro familiare è entrato nel campo del diritto
del lavoro, assumendo una precisa connotazione di onerosità; nel processo di
giuridificazione, tra i segni più evidenti del nostro tempo, la legge è penetrata all’interno
della famiglia che lavora, contende i rapporti alle norme consuetudinarie e prevede
obblighi e diritti dove prima vigeva la regola della gratuità affettiva, sostituita ora dalla
solidarietà familiare connessa al principio egualitario40.
Paragrafo 4 Le critiche e le incertezze: gli “standards familiari” e la norma
determinativa
La disciplina dell’impresa familiare, così come delineata dalla riforma, se ha dato una
risposta a molti problemi, per lo più sociali, ne ha aperti tuttavia numerosi altri.
L’affrettata elaborazione legislativa, infatti, ha prodotto conseguenze notevoli: lacune
ed oscurità che rendono difficile il coordinamento della nuova norma con quelle
contenute in altre parti della stessa legge di riforma e, più in generale, con il sistema del
diritto privato attualmente vigente. È molto importante, quindi, supplire alle lacune e
chiarire le oscurità per poter meglio identificare questa figura giuridica “residuale” ma
“in espansione”41.
Dal punto di vista sostanziale, si è contestata la scadenza tecnica e l’infelice
formulazione dell’articolo, foriere di imprecisione e frammentarietà.
Per quanto riguarda, poi, la collocazione topografica scelta dal legislatore, pesanti
critiche sono state avanzate da gran parte degli interpreti42 e degli studiosi dell’istituto
cosicché, al giudizio negativo basato sull’imprecisione della norma, si è aggiunto quello
che fa leva sull’inesattezza di situare l’“impresa familiare” nel Libro del codice civile
dedicato alla famiglia, e non nel Libro che del lavoro e dell’impresa si occupa in via
specifica. Gli stessi giudici, sia di legittimità43 che di merito44, hanno rilevato sin
dall’inizio questa peculiarità.
39
M.C. ANDRINI, op. cit. Così anche L. CARRARO, G. OPPO, A. TRABUCCHI, Commentario alla
riforma del diritto di famiglia sub art. 89, a cura di, 1977, Cedam, I , 1, pag. 491ss.
40
G. GHEZZI, Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro , in Rivista di
Diritto Agrario, 1980, pag. 1535ss.
41
M. DAVANZO, op. cit., pag. 4-5.
42
N. IRTI, L’ambigua logica dell’impresa familiare, in Rivista di Diritto Agrario, 1980, I , pag. 531ss.
Così anche M. MISCIONE, La Cassazione sull’impresa familiare, in Giurisprudenza Commerciale,
1982, II , pag. 130; P.M. PUTTI, Spunti sulla natura giuridica dell’impresa familiare, in Giurisprudenza
Italiana, 1990, I , 2, pag. 691.
43
C. Cassazione, 8 aprile 1981, n. 2012, in Giurisprudenza Commerciale, 1982, I , pag. 127.
44
Pret. Bassano del Grappa, 21 giugno 1979, in Rivista Giurisprudenza del Lavoro , 1979, II , 1132.
17
Parzialmente dissente M. C. Andrini45, la quale sostiene che, se curiosa è la
rubricazione, la collocazione della norma è da ritenersi esatta, in quanto posta a
conclusione della parte dedicata alla disciplina dei rapporti patrimoniali della famiglia.
L’art. 230 bis c.c., infatti, apre -e chiude- la Sezione Sesta del Capo Sesto del Libro
Primo del codice civile, sezione intitolata appunto “Dell’impresa familiare” ed inserita
dalla novella 151 prima della “Filiazione”, con una numerazione che costituisce il “bis”
di un articolo abrogato (art. 230), e che succede immediatamente, stante l’eliminazione
degli articoli 220-230, all’art. 219.
V. Colussi46, assumendo una posizione critica estrema, sin dai primi anni di
applicazione della disposizione, ha definito “groviglio inestricabile” le problematiche
interpretative poste dall’istituto. Nello stesso anno, la stessa M. C. Andrini47 si é riferita
all’impresa familiare come al “più recente esempio del complesso di insicurezza di cui
soffre il legislatore, che lo spinge a gratificarsi attraverso la produzione di schemi
normativi tipizzati, che nascono come vuote cornici da riempire con polemiche
dottrinarie”. Come conseguenza, l’autrice ha registrato la scelta sbagliata di voler
disciplinare in diritto le comunità di lavoro familiare comunque operanti con una norma
di principio, dalla quale sfuggono una serie di conseguenze rilevanti.
Ma come risolvere quel “groviglio inestricabile”, come riempire quella “vuota cornice”?
Da qui gli interrogativi se, al di là della formale allocazione, vi sia stata oppure o no
“familiarizzazione” dell’impresa e, in caso affermativo, in che cosa consista, ed inoltre
la necessità di indagare i legami e le mutue implicazioni fra famiglia e impresa.
Può essere utile, a tal fine, individuare i rami del diritto che si trovano coinvolti nella
materia dell’impresa familiare, ed anche in questo caso, i contrasti non sono mancati.
Taluno48, nella designazione stessa dell’istituto, rinviene il collegamento fra due realtà
giuridiche, la famiglia e l’impresa, collocate sul medesimo piano: l’“impresa”, che
diviene “familiare” e che va studiata in rapporto a quella presenza nuova, “il diritto di
famiglia che si incontra col diritto dell’economia, il diritto del gruppo domestico che si
annoda al diritto degli organismi produttivi”. Ne risulta, così, qualcosa di diverso e di
più maturo rispetto alla figura della piccola impresa, un peculiare modo di esercitare
anche l’attività economica. Anche V. Panuccio49 scrive “diritto di famiglia e diritto
commerciale si incontrano” al fine “di tentare un raccordo fra il cosiddetto interesse
della famiglia e il cosiddetto interesse dell’impresa: il primo, come interesse di ciascuno
dei partecipanti in vista di un interesse familiare comune di consolidamento dell’unità
del gruppo sotto il riflesso economico, il secondo, oscillante fra un concetto soggettivo
che lo fa coincidere con gli interessi dell’imprenditore e una distinzione fra interesse
dell’impresa e interesse all’organizzazione del lavoro”. I medesimi soggetti partecipano,
così, ad un duplice ordinamento giuridico, quello familiare e quello imprenditizio, non
sovrapposti e caratterizzati, rispettivamente, da vincoli affettivi ed economici50.
Per quanto riguarda l’interpretazione della nuova figura, l’operazione, si sostiene, è di
conoscenza e ricerca della verità, non opera di volontà, ovvero corrisponde al tentativo
di immaginare la fattispecie che il legislatore ha pensato e voluto disciplinare,
guardando non solo al passato, ma proiettandosi anche verso il futuro. Si avverte però il
45
M.C. ANDRINI, op. ult. cit., pag. 60.
46
V. COLUSSI, op. ult. cit. pag. 702.
47
M.C. ANDRINI, op. ult. cit., pag. 132.
48
G. GHEZZI, op. cit.
49
V. PANUCCIO, Impresa familiare, fattispecie e statuto, in L’impresa nel nuovo diritto di famiglia, a
cura di A. Maisano, Liguori, 1977, Na, pag. 102.
50
M.C. ANDRINI, v. nota 33, pag. 135.
18
giurista di non indugiare a ottiche troppo commercialistiche, lavoristiche o civilistiche, e
di non lasciarsi fuorviare da schemi noti, né da principi che, a contatto con i nuovi dati,
devono essere rivisti: l’impresa familiare è una novità e bisogna utilizzare schemi
necessariamente nuovi, secondo quanto confermato dall’inciso iniziale dello stesso art.
230 bis c.c..
C. M. Bianca
51
sottolinea anche la necessità di evitare che il tema venga dominato da
un’impostazione agraristica o comunque da impostazioni che potrebbero alterare
l’autonoma prospettiva dell’istituto: sarebbe “metodologicamente scorretto orientare le
soluzioni sull’esperienza della comunione tacita familiare, realtà che, sebbene con
aspetti positivi, non si offre come valido modello interpretativo”. Ulteriori suggerimenti
provengono da G. Tamburrino
52
, il quale denuncia una scadente tecnica legislativa e dal
punto di vista sostanziale lacune e una difficile interpretazione, da condursi, secondo
lui, seguendo i principi ermeneutici generali, non tralasciando però la considerazione
delle istanze sociali esistenti al momento dell’elaborazione della nuova legge, né
l’esame dei lavori preparatori, al fine di stabilire esattamente l’intenzione del
legislatore.
Come risultato, quindi, l’art. 230 bis c.c. quale “statuto dell’impresa familiare”
53
,
secondo una terminologia mutuata dalla tradizione commercialistica che, a sua volta, la
deriva dalla storia del diritto, e che significa, “statuto fisso”, ovvero regolamento della
fattispecie nei suoi profili costanti (diritti dei partecipanti, gestione e responsabilità),
mentre la parte variabile della disciplina deve essere determinata sulla base del tipo di
attività svolta in concreto dall’impresa.
Di una nuova ed interessante proposta interpretativa dell’impresa familiare si legge
nelle pagine di M. C. Andrini
54
, la quale riporta i risultati di una ricerca scientifica
americana, il cui promotore è R. Pound e alla quale è stato addirittura dedicato un
saggio da “uno dei più eminenti giuristi del tempo”
55
: l’utilità della ricerca risiede
nell’individuazione di un procedimento logico-ermeneutico che riconosce un rapporto
fra standards normativi e fattispecie giuridiche, fenomeno perfettamente rappresentato,
secondo l’autrice, dall’art. 230 bis c.c..
Oggetto di quella ricerca sono stati schemi comportamentali generali, giuridicamente
rilevanti e distinti dai modelli particolari previsti dalle norme giuridiche: schemi di
vario tipo e natura, designati dal pensiero giuridico anglo-americano “legal standards”,
ai quali il diritto formalizzato a volte fa esplicito riferimento, oppure che addirittura
presuppone.
Loro caratteri distintivi sono la generalità e l’indeterminatezza, temperate dal loro
fondamento pratico e dalla relatività in rapporto all’epoca, ai luoghi, alle circostanze e
in funzione del caso concreto.
La funzione di questi standards è fungere da strumenti di adattamento per la
concretizzazione della singola norma giuridica, nel nostro caso, quella che disciplina
l’impresa familiare.
51
C.M. BIANCA, Regime patrimoniale della famiglia e attività d’impresa , in L’impresa nel nuovo diritto
di famiglia, op. cit., pag. 35.
52
G. TAMBURRINO, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia italiano, Utet, 1978, pag. 243.
53
V. PANUCCIO, op. cit., pag. 105-106.
54
M.C. ANDRINI, op. cit., pag. 215ss.
55
A. FALZEA, Gli standards valutativi e la loro applicazione, in Rivista di Diritto Civile, 1987, II ,
pag. 1ss.