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INTRODUZIONE
<< […]ogni individuo deve farsi carico egli stesso dei rischi del suo percorso
professionale divenuto discontinuo; deve fare delle scelte e operare per tempo delle
riconversioni necessarie. Anche qui, al limite, si ritiene che il lavoratore si faccia
imprenditore di se stesso […]>>.
Se per R. Castel è questo il riferimento di etica sociale del lavoratore flessibile,
contemporaneo, una domanda desta particolare interesse: che ruolo può avere il
sindacato nell’ esperienza lavorativa di questo soggetto? Una domanda a cui ne
seguono altre: quale forma assume la rappresentanza collettiva di un lavoro sempre
più frammentato, diviso, soggetto a spinte di individualizzazione? Quali sono i fattori
che disincentivano o motivano l’azione collettiva dei “nuovi lavoratori”? Che cosa
hanno fatto i sindacati italiani per avvicinare e tutelare una nuova fetta di lavoratori
con caratteristiche diverse da quelle del “lavoratore standard” (stabile e a tempo
indeterminato) a cui hanno fatto tradizionalmente riferimento?
Tentando di rispondere a questi interrogativi, in questo scritto si ricostruiscono
per linee generali le trasformazioni oggettive e soggettive che hanno interessato il
lavoro negli ultimi tre decenni, osservando quali effetti queste hanno avuto sul
terreno della rappresentanza.
Il mondo del lavoro sta vivendo un cambiamento profondo, secondo Accornero il
terzo nella storia del lavoro moderno. Il processo di flessibilizzazione e
destandardizzazione del lavoro, che giuda l’attuale fase di sviluppo capitalista,
definita post-fordista, ha infatti effetti rilevanti sulle modalità di lavoro, sulla sua
regolazione e sulla composizione dei mercati del lavoro.
In Italia, la flessibilizzazione del mercato del lavoro è stata realizzata attraverso
interventi di ri-regolazione che hanno riguardato, pressoché esclusivamente, le
modalità di acceso. A partire dalla metà degli anni Novanta, sono stati introdotti una
pluralità di strumenti contrattuali alternativi rispetto al contratto di lavoro
subordinato, a tempo pieno e indeterminato (standard). Per definire questi contratti,
si parla impropriamente di contratti di lavoro “atipici”. In realtà, essi non
costituiscono più un’eccezione, come il termine vorrebbe suggerire, rispetto al
grande corpo dei lavori tipici. Pertanto si è preferito usare la definizione di lavori
“non standard”.
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Tuttavia la possibilità stessa di contenere in un’unica definizione questa categoria
di nuovi lavori è contraddetta dall’ assoluta eterogeneità che li contraddistingue. Per
questo, all’interno del fenomeno dei lavori non standard, si è scelto di circoscrivere
l’interesse al lavoro temporaneo. Dal momento che costituisce il segnale più chiaro
di rottura sociale rispetto al modello del lavoro stabile e sicuro (“il posto fisso”). Si è
poi scelto come polo di interesse, all’interno del gruppo dei lavori a termine, quello
del lavoro parasubordinato. Le collaborazioni, infatti, oltre ad essere il risultato
diretto del processo di flessibilizzazione sono la forma di occupazione che rende più
evidente quel cambiamento avvenuto anche nelle aspettative e nei comportamenti dei
lavoratori, nell’ambito delle modalità di prestazione lavorativa postfordista.
Nel descrivere i rischi sociali prodotti dall’instabilità dell’occupazione e le sue
possibili forme di protezione, si evidenzia come, per il caso italiano, il problema
delle occupazioni instabili si traduce principalmente in un problema di welfare.
Infatti, se è aumentata la flessibilità del mercato del lavoro italiano dall’altro non si è
stati ancora in grado di mettere a punto un adeguato sistema di ammortizzatori sociali
per le nuove forme di lavoro temporaneo; escludendo di fatto questi lavoratori da una
adeguata rete di protezione sociale.
Forse è proprio per questo motivo che nel dibattito pubblico e politico il termine
“lavoro flessibile e temporaneo” si sovrappone spesso a quello di “lavoro precario”.
Diversamente dal concetto di flessibilità, però la categoria della precarietà si
riferisce alla dimensione soggettiva del lavoratore ed è sinonimo di insicurezza.
Viene qui identificata come il rischio sociale -in cui incorre l’individuo prima ancora
che il lavoratore- di essere escluso da un’adeguata protezione che tuteli la persona e
la libertà di scelta. In questo senso, i lavoratori temporanei e flessibili sono oggi
quelli più esposti al rischio di precarietà. E questo spiega appunto la tendenza a
sovrapporre i due significati.
Un aspetto considerato centrale, anche dal punto di vista della rappresentatività e
della tutela di questi lavoratori, è l’ambivalenza insita al lavoro instabile a causa di
evidenti rischi ma anche di possibili opportunità. Seguendo lo studio di Fullin
(2004), si è osservato che l’instabilità dell’ occupazione può essere utile a ridurre le
barriere all’entrata nel mercato del lavoro oppure come veicolo per l’ampliamento
delle possibilità di azione e dei margini di autorealizzazione.
Nel contesto attuale del capitalismo postfordista, reticolare e cognitivo, il lavoro
parasubordinato è infatti la frontiera e l’emblema della trasformazione del lavoro
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vivo. La flessibilità diviene lo strumento privilegiato degli stessi collaboratori per
organizzare la presenza e i moventi nel mercato del lavoro. Tale disposizione
sedimenta così un nuovo modo di vivere e fare esperienza del lavoro. Produce un
nuovo immaginario del lavorare, più mobile e individualizzato. In questo modo si
acquista un’autonomia e una capacità di autodeterminazione (per quanto, in alcuni
casi potenziale o illusoria) a cui non si vuol rinunciare. Anzi, si chiede che sia
promossa e salvaguardata. Così, il modello tradizionale, fordista, di organizzazione
sociale del lavoro costruito intorno alla figura del lavoratore salariato stabile è
rifiutata dagli stessi lavoratori.
Per le organizzazioni sindacali, che si sono consolidate proprio grazie a questo
modello, la consapevolezza di questa trasformazione è la precondizione per
avvicinarsi ai nuovi lavoratori. Il sindacato invece, si trova come <<accerchiato>> da
una serie di fattori esogeni che lo pongo a dura prova, sfidando il suo ruolo sociale.
Con il mutamento delle logiche di produzione verso modelli più flessibili, la
terziarizzazione dell’occupazione e il parallelo ridimensionamento dei grandi
comparti industriali, decresce quantitativamente la classe operaia tradizionale e il
modello di fabbrica fordista. Questo indebolisce la stessa radice associativa del
sindacato. Si osserva una crisi della sua rappresentanza, ovvero una crescente
difficoltà delle organizzazioni sindacali di essere riconosciute dai lavoratori come
interpreti e portavoce dei loro problemi, nel rapporto di lavoro e rispetto ai loro
bisogni nella società. La continua decrescita, a partire dagli anni Ottanta, dei tassi di
sindacalizzazione ne è un chiaro indicatore.
Tuttavia, proprio l’analisi di questa crisi e dei suoi possibili fattori dimostra come
di fronte al lavoro, che si trasforma nei suoi confini operativi e sociali, il sindacato,
pur trovandosi innegabilmente spiazzato, continua a mantenere la sua ragion
d’essere. Una ragione d’essere che vale proprio nei confronti degli inediti bisogni di
tutela e rappresentanza di cui sono portatori i nuovi profili lavorativi. Si è cercato di
dimostrare tutto ciò affrontando il tema della rappresentanza dei lavoratori
temporanei.
Al sindacato è richiesto di fornire risposte a istanze inedite e in parte diverse da
quelle tradizionali. Difatti, proprio alla temporaneità dell’impiego si lega una
condizione di <<nomadismo>> da cui derivano le oggettive difficoltà di intercettare,
aggregare e rappresentare lavoratori e lavoratrici. Come già detto, il fenomeno del
lavoro temporaneo risulta eterogeneo; ciò ha un’importante conseguenza in termini
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di segmentazione del mercato del lavoro, non solo rispetto ai lavoratori con contratti
standard, ma anche all’interno di questo gruppo. Ciò indebolisce gli incentivi
identitari e conseguentemente l’azione collettiva, riflettendosi sulla scelta di aderire
al sindacato. Inoltre, il diffondersi di un orientamento di tipo individualistico e il
crescente desiderio di autonomia nella gestione del proprio rapporto -evidente nel
caso dei collaboratori- oltre a trasformare il modo di relazionarsi con il proprio
lavoro, cambia anche il modo di relazionarsi al sindacato. Questo spiega il
diffondersi di esperienze di autotutela e la tendenza di questi lavoratori ad un
rapporto pragmatico e strumentale con le organizzazioni sindacali.
Tuttavia, pur nella propria specificità, questi soggetti possiedono un evidente
potenziale di domanda sindacale. Oggi, i lavoratori temporanei rappresentano il
soggetto debole e maggiormente esposto del mercato del lavoro. Per quanto
differenziate e ancora poco esplicite, da questo gruppo sociale provengono richieste
sia di tutele contrattuali sia, soprattutto, di maggiori prestazioni nel campo delle
politiche sociali. Quindi proprio il sostegno e la protezione di un soggetto debole e
vulnerabile del mercato del lavoro costituisce un obiettivo forte e possibile per le
organizzazioni sindacali. Legittimando, per certi versi rafforzando, la loro ragione
d’essere.
In effetti, a partire dagli anni Novanta, il sindacalismo confederale si è mosso nel
tentativo di includere e difendere questo gruppo di lavoratori che andava via via
emergendo. Le tre Confederazioni sono intervenute, ripensando e innovando le
proprie forme di rappresentanza, con la creazione di veri e propri sindacati degli
atipici. Esperienza che, è utile ricordare, non ha eguali in altri paesi europei. Questi
Organismi, ponendosi in discontinuità con le preesistenti categorie sindacali, hanno
cercato di sperimentare nuove modalità di contatto, di comunicazione e di
aggregazione. NIdiL CGIL, ALAI CISL (ora FeLSA), CPO UIL (ora UIL Tem.p
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sono organizzazioni nuove, dal momento che la base della loro rappresentanza
risiede non nella comune appartenenza a un settore produttivo, ma nella specificità
del contratto di impiego. Di conseguenza si caratterizzano per non agire nell’ambito
di un settore merceologico ma ponendosi come interlocutori dei nuovi lavori
trasversalmente al mondo della produzione.
Tentando una sorta di bilancio di un percorso che oramai è più che decennale, si
possono indicare alcuni aspetti di reale innovazione, pur ancora con evidenti limiti.