INTRODUZIONE
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Introduzione
“L‟innovazione è ciò che distingue un leader da un follower”
(cit. Steve Jobs)
Il post-fordismo è stato caratterizzato dal susseguirsi di trasformazioni
socio-economiche al centro dei dibattiti moderni sugli assetti economico-
produttivi. Ha investito appieno i paesi industriali avanzati a cavallo tra la fine
degli anni Settanta e gli anni Ottanta e il passaggio dal fordismo ai successivi
paradigmi ha interessato non soltanto aspetti meramente economici, ma anche
tecnici e soprattutto sociali. Meglio ancora sarebbe parlare di relazioni sociali,
visti i mutamenti che concernono le condizioni di lavoro, i cambiamenti
organizzativi adottati dalle imprese e la riorganizzazione dei rapporti sindacali.
In questo elaborato si cercherà di fornire una visione dell’innovazione
come caratteristica essenziale e fondamentale delle moderne economie
capitalistiche le quali, per sopravvivere in un quadro di crescente competitività
globale, hanno di volta in volta adottato modelli produttivi differenti, più
congeniali alle loro caratteristiche istituzionali, sociali ed economiche. L’analisi
dei processi innovativi, soprattutto negli ultimi anni, è una delle aree che è stata
maggiormente studiata non solo dagli economisti dunque, ma anche da studiosi
delle organizzazioni, giuristi e tecnologi, solo per citarne alcuni. Alla base di tutto
ciò vi è la constatazione che le organizzazioni sono prima di tutto entità sociali più
che economico-produttive e dalle quali discende l’idea che l’innovazione è
innanzitutto frutto della genialità delle persone, delle loro conoscenze e delle loro
esperienze. E’ questo mix di elementi che fa di una persona un innovatore, come a
loro volta lo sono stati Frederick Winslow Taylor, Henry Ford e Taiichi Ohno.
Il presente studio nasce pertanto dall’interesse di approfondire la
conoscenza dell’innovazione, dei suoi aspetti tecnici e sociali oltre le implicazioni
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che essa produce nel mondo produttivo. Nasce da domande quali: “come può
l‟avvento di una tecnologia cambiare il modo di organizzare il lavoro?” o ancora
“quanto è importante l‟innovazione tecnologica per un‟impresa che voglia
competere a livello globale?” E “l‟innovazione organizzativa che ruolo ricopre in
tutto questo?”.
Per rispondere a queste preliminari domande, mi occuperò dapprima di
studiare e fornire una definizione il più possibile ampia e condivisa di
“innovazione”, tenendo conto del carattere eterogeneo e multilivello del termine.
Cercherò innanzitutto di spiegare perché un tema come quello dell’innovazione
nelle imprese è così importante e soprattutto perché lo è nel post-fordismo, cosa
significa innovare, quali vantaggi offre alle imprese che decidono di intraprendere
questa strada, talvolta dispendiosa, e quali possono essere le difficoltà e i nodi
critici che si rischiano di incontrare. Stabilito il carattere vantaggioso e di
necessità dell’innovazione per le imprese post-fordiste, approfondirò il tema
attraverso la rassegna delle fonti di innovazione quali: imprese, individui,
università e le relazioni che intercorrono tra queste entità. Infine un aspetto che
ricorrerà nella parte finale dell’elaborato, immancabile quando si parla di
innovazione, è quello rappresentato dall’attività valutativa. Poiché innovare è
tanto efficace quanto dispendioso, è opportuno valutarne i costi, le modalità e il
grado di intensità, operazione realizzabile, per esempio, attraverso indicatori di
input e output come il Pil e la spesa in Ricerca e Sviluppo.
Per comprendere in che senso l’innovazione così intesa si inserisce nel
quadro dei nuovi modelli produttivi definiti post-fordisti, ritengo, oltre che
interessante, anche necessario, prendere in considerazione l‟excursus storico dal
quale essi nascono. Si tratterà di analizzare il terreno fertile da cui la produzione,
in particolar modo quella automobilistica, ha iniziato il suo corso e dalla quale
questi modelli dichiarano di discostarsi più o meno radicalmente. Nel secondo
capitolo, pertanto, si analizzerà il modello artigianale in contrapposizione a quello
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della produzione di massa, caratterizzanti rispettivamente il periodo pre-
industriale e industriale diffuso. Si passerà così ai principi tayloristici che sono
alla base della rivoluzione scientifica del lavoro per concludere con la
presentazione delle risposte post-fordiste. Soluzioni, quest’ultime, fornite perlopiù
per rispondere alle incongruenze e alle difettosità di un modello produttivo
pesante, eccessivamente burocratizzato e alienante da un lato, e di un mercato che
di lì a poco stava differenziandosi insieme alle preferenze dei consumatori e dei
lavoratori. E’ l’avvento di modelli “flessibili” e “snelli”, in netta contrapposizione
con la standardizzazione, la produzione “grassa” e di massa dei grandi volumi.
Grazie al famoso volume “La macchina che ha cambiato il mondo”, gli studiosi
del Mit (Womack, Jones, Roos, 1991) portano alla luce la scoperta del modello
giapponese, fondato su pilastri come il “just in time”, la qualità totale (total
quality) e il miglioramento continuo (kaizen). Un modello che, dall’altra parte del
mondo rispetto al nuovo continente, stava rivoluzionando l’industria e portando
alla ribalta un nuovo modo di produrre, quello toyotista.
Nel terzo capitolo l’attenzione si sposterà perciò ad analizzare quali sono i
principali modelli produttivi che la storia della produzione industriale ha
conosciuto e conosce tuttora. Il contributo di cui mi avvarrò è quello dei
regolazionisti francesi Boyer e Freyssenet (2005). Si tratta di analizzare le diverse
strategie di profitto, quali sono le condizioni che permettono la loro attuazione e
stabilire se vi è una one best way come idealizzata da Taylor oppure una diversità
di modelli attuabili a seconda della diversità storica, istituzionale ed economica
dei diversi sistemi nazionali. Infine, in questo capitolo si approfondirà
l’argomento del cambiamento nelle imprese, della riorganizzazione in chiave
competitiva e quali siano gli aspetti da tenere in considerazione quando il
management decide di intraprendere questa strada. Tutto questo tenendo conto del
ruolo delle risorse umane, singole e non, che del cambiamento organizzativo ne
sono allo stesso tempo artefici e attori.
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La quarta parte è sicuramente quella dai risvolti più pratici in quanto
finalizzata all’analisi più concreta del caso Fiat. Quest’ultima, attraverso un
ridisegno organizzativo, sta tutt’oggi attraversando un periodo di forti
cambiamenti già iniziati all’incirca trent’anni fa. Tenendo conto degli argomenti
trattati nei capitoli precedenti, in questa sezione conclusiva si passerà in esame la
storia organizzativa dell’azienda torinese, a partire dalle trasformazioni
tecnologiche che hanno caratterizzato gli anni Ottanta ovvero quelli della
cosiddetta “Alta Automazione”. Un periodo, questo, di importanti innovazioni di
processo e di prodotto, nonché della semplificazione del lavoro operaio, oltre che
degli aumenti in termini di profitto. Gli anni a seguire vedranno la crescente
automazione entrare però in conflitto con i vecchi schemi organizzativi, ormai
obsoleti e inadatti a contenere una siffatta complessità produttiva. Per questo
motivo la Fiat, come la maggior parte delle imprese occidentali, viene investita
dalle nuove concezioni giapponesi disegnando sulla propria pelle un nuovo
modello: quello della fabbrica integrata. L’ennesimo, ma non ultimo
cambiamento, precursore dell’assetto attuale voluto dall’amministratore delegato
Fiat Sergio Marchionne, ovvero il World Class Manufacturing (Wcm),
rappresentante l’evoluzione più recente del modello giapponese.
Si prenderanno quindi in esame gli obiettivi e gli strumenti di questo
modello, dapprima in via teorica grazie al contributo di alcuni autori come Keegan
(2008), Tuccino (2010) e Pero (2010) per poi concludere la tesi con i principali
risultati ottenuti dalla Fiat grazie all’applicazione del Wcm. L’elaborato si
concluderà dunque, con l’analisi cruciale delle implicazioni che il modello Wcm
ha prodotto, e continua a produrre, sul nostro sistema di relazioni industriali.
Le fonti utilizzate per questo lavoro sono di diversa natura e per la
maggior parte si tratta di monografie sui diversi argomenti, grazie alle quali ho
potuto conoscere la letteratura in merito alle tematiche di mio interesse. In
aggiunta si farà ricorso ad articoli giornalistici del Sole 24 Ore, del Fatto
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Quotidiano, articoli pubblicati su riviste sociologiche come “Sociologia del
Lavoro”, documenti sindacali ed interviste, come quelle rilasciate da Sergio
Marchionne (Volpato, 2011) e Luciano Pero (Bertoncin, 2010). Altresì, di
importanza rilevante, sono stati il sito della Fiat S.p.A e quello della Chrysler,
soprattutto in merito ai risultati quantitativi dell’applicazione del Wcm e dai quali
ho potuto esaminare relazioni e presentazioni quali quelle di Ketter (2010) e
Massone (2011).
CAPITOLO 1 – L’INNOVAZIONE NELLE IMPRESE
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CAPITOLO 1
L’INNOVAZIONE NELLE IMPRESE
1.1. Perché innovare? L’importanza del cambiamento tecnologico e del ruolo
della ricerca e sviluppo
Il tema dell’innovazione delle imprese, indubbiamente, porta con sé
un’ampia varietà di argomenti e riflessioni. Si tratta di un concetto che tocca
discipline diverse e spesso complementari tra loro quali, ad esempio, l’economia,
la sociologia e il diritto. E’ alla base di ricerche teoriche e mezzo concreto
attraverso il quale, una moltitudine di attori, mira a perseguire obiettivi strategici.
Quello dell’innovazione, inoltre, è un tema che negli anni, soprattutto negli
ultimi, ha assunto un’importanza crescente e si è imposto come principio cardine
e fattore dominante per imprese e manager che, nell’era della globalizzazione,
puntano a sopravvivere e rendersi maggiormente competitivi. Alle imprese,
motore del progresso economico, la strada dell’innovazione pone allo stesso
tempo, un elevato numero di opportunità, ma anche sfide difficili. E’ tuttavia
questa la strada da seguire se si vogliono raggiungere maggiori margini di
profitto, una visibilità nel mercato globale e, più in generale, successo in campo
produttivo.
È ormai consolidata l’idea che la globalizzazione, talvolta vista come una
minaccia, ha contribuito ad accrescere la competizione internazionale, ponendo le
economie nazionali nella condizione di dover superare una sorta di esame costante
per non crollare. A questo proposito Marino Regini mette in luce come il
fenomeno della globalizzazione non sia l’unico fattore di pressione sulle
economie nazionali, ma anche l’unificazione monetaria europea, non permettendo
più ai vari Paesi il ricorso ad un vasto repertorio di strumenti di politica
CAPITOLO 1 – L’INNOVAZIONE NELLE IMPRESE
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economica
1
, pone l’esigenza di accrescimento competitivo attraverso un
cambiamento dei propri regimi regolativi
2
.
Come conferma Melissa Schilling (2005) innovare è diventato, quindi,
l’imperativo strategico, sia per acquisire posizioni di leadership sia per recuperare
condizioni di svantaggio competitivo. Le stesse dichiarazioni della Fiat Auto per il
triennio 2003-2006 furono di voler passare da una quota del 25% ad una dell’80%
dei ricavi generata da nuovi prodotti, con ben 21 nuovi modelli di auto. Volpato
(2011), allo stesso modo, mette in luce che la condizione necessaria per il rilancio
della Fiat Auto, entrata in una fase di crisi negli anni Novanta, sia proprio da
ricercare attraverso una spinta innovativa, praticamente inesistente negli anni
precedenti. Ciò che conta, a differenza dell’epoca della standardizzazione fordista,
è offrire un numero sempre maggiore di beni e servizi diversificati, cercando,
oltretutto, di conciliare l’innovazione tecnologica con un’innovazione
organizzativa in grado di massimizzare i profitti e, allo stesso tempo, ridurre i
costi. La diversificazione crescente nasce così dalla doppia esigenza di essere più
aderenti alle preferenze dei clienti da un lato e dominare nel quadro delle imprese
concorrenti dall’altro. A dispetto di ciò va ricordato che sono parecchi gli
elementi in grado di determinare la crescita di un dato sistema economico in uno
specifico momento storico, ma quello su cui ci si concentra negli ultimi anni, o ci
si dovrebbe concentrare, è la capacità di creare innovazione attraverso le
conoscenze tecnico-scientifiche unite all’intelligenza e alla creatività umana,
cosicché la produttività non vada più ricercata attraverso incrementi quantitativi
bensì anche qualitativi.
Strumento fondamentale ed indispensabile per conseguire tutto questo è
sicuramente la leva della ricerca e sviluppo, una serie di attività in cui sono
interessate risorse umane e finanziarie orientate alla creazione e al miglioramento
1
Come ad esempio forme di protezionismo nascosto e la svalutazione monetaria.
2
REGINI, M. (2003), Modelli di capitalismo, Roma-Bari, Laterza, p. 3
CAPITOLO 1 – L’INNOVAZIONE NELLE IMPRESE
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sia di processi che di prodotti. Purtroppo, proprio su questo fronte, va segnalata
l’arretratezza, da sempre, del nostro Paese, in particolare se confrontata con i
principali paesi avanzati. Nonostante un aumento della spesa in ricerca e sviluppo
negli ultimi anni, quella italiana rimane, dunque, al di sotto non solo di USA e
Giappone ma anche della media europea come si può notare dai grafici seguenti:
Fonte: rielaborazione Eurostat
3
3
Per il calcolo della media EU-15 sono stati presi in considerazione i seguenti paesi: Austria,
Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda,
Portogallo, Spagna, Svezia, Inghilterra.
Fonte: rielaborazione ISTAT
0
5.000
10.000
15.000
20.000
25.000
milioni di €
Spesa per R&S, Italia
(prezzi correnti)
Spesa
0,00
0,80
1,60
2,40
3,20
4,00
% del PIL
Spesa interna lorda in R&S
Italia
Media EU-15
Giappone
Stati Uniti
Grafico 1 - Spesa in ricerca e sviluppo in Italia (1980-2010)
Grafico 2 - Confronto spesa interna lorda in R&S (1980-2007)
CAPITOLO 1 – L’INNOVAZIONE NELLE IMPRESE
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Come si cercherà di illustrare nel corso di questa tesi, i tempi del fordismo
e della produzione di massa sono ormai superati, e con essi il modello produttivo
fondato sul volume e sulle grandi quantità.
Ovviamente, concepire nuove idee non è sufficiente a garantire il
successo; è importante, effettivamente, tenere conto del fatto che un’innovazione
va pensata, strategicamente programmata, finanziata, sviluppata e gestita. Non è
cosa facile questa, basti pensare che, come suggerito da Schilling (2005),
occorrono circa 3000 idee prima di giungere ad un prodotto nuovo e di successo
nel mercato. Senza tener conto del periodo di tempo e dei finanziamenti necessari
affinché l’innovazione vera e propria si sviluppi.
1.2. Il concetto di innovazione
Nel voler esaminare e proporre alcune definizioni sul concetto di
innovazione, molti sono gli autori che è possibile prendere in considerazione. Nel
pensiero economico si è soliti citare Adam Smith (1975), il quale considera
l’innovazione come ‹‹la relazione tra cambiamento tecnologico, divisione del
lavoro e mutamento strutturale dell’economia››, concentrandosi non tanto sulla
generazione di innovazioni, quanto piuttosto sull’incorporazione del progresso
tecnologico nei beni capitali che porta ad un aumento della produttività.
Ricardo (1817) studia il progresso tecnologico sia dal punto di vista
endogeno, segnalando una relazione esistente tra innovazione, riduzione dei prezzi
e aumento della domanda, che dal punto di vista esogeno secondo il quale
l’innovazione avrebbe influenze sul livello di occupazione.
Marx (1982) sostiene, a sua volta, che l’innovazione sia incorporata nelle
macchine, ne enfatizza la natura sociale affermando, difatti, che essa non nasce da
inventori ma da un processo sociale fatto di scontri tra interessi contrapposti.
CAPITOLO 1 – L’INNOVAZIONE NELLE IMPRESE
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Interessante è anche il contributo del tecnologo Usher, con la sua visione
processuale dell’innovazione piuttosto attuale. Egli vede il processo innovativo
come frutto di una “sintesi cumulativa” che, partendo da un processo cognitivo di
sostanziale percezione di un problema, passa attraverso processi di ricerca della
soluzione e relativa invenzione, quest’ultima la quale, una volta scovata, andrebbe
necessariamente adattata al contesto attraverso una revisione critica.
Ad influenzare ulteriormente gli studi sull’economia dell’innovazione
sono stati gli importanti contributi di Schumpeter, il primo a schematizzare in
maniera sistemica il ruolo dell’innovazione.
Per Schumpeter (1971) l’innovazione è la ‹‹determinante principale del
mutamento industriale››. Sostiene la distinzione tra innovazione ed invenzione,
considerando quest’ultima come un qualcosa di meramente scientifico in
contrapposizione con l’innovazione che consiste, piuttosto, nel “far qualcosa di
nuovo”, prodotti o processi, senza derivare necessariamente da un’invenzione. In
altre parole, secondo l’economista, l’innovazione sarebbe la risposta creativa
attraverso qualcosa di nuovo, di diverso. Non sostiene alcuna esclusione su base
dimensionale, affermando che l’innovazione possa dunque verificarsi tanto nelle
piccole imprese quanto nelle grandi. In un caso sarà il singolo individuo, o meglio
l’imprenditore, il soggetto principale, nel secondo l’intera impresa o
organizzazione. Afferma altresì l’importanza di una prospettiva storica
dell’innovazione, fondata sullo studio e la raccolta di casi industriali, come fonte
indispensabile per la conoscenza. Questa sua convinzione è supportata dalla
concezione incerta che egli ha del processo produttivo, tant’è vero che
un’innovazione può essere osservata solo ex post e (quasi) mai ex ante. Ad
aumentare il grado di incertezza vi è inoltre la razionalità limitata
dell’imprenditore, il quale difficilmente, è in grado di prevedere gli esiti e le
conseguenze delle sue decisioni.