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CAPITOLO 1
INTRODUZIONE
1.1 La microbiologia applicata al settore dei Beni Culturali
I beni culturali sono sottoposti ad una aggressione quotidiana di natura fisica, chimica e
biologica dal momento in cui entrano a fare parte del nostro pianeta.
I microrganismi giocano un ruolo importante nei processi di biodeterioramento dei Beni
Culturali (Hueck, 1965, 1968) in quanto rappresentano, nella maggioranza dei casi, gli organismi
responsabili delle alterazioni che si sviluppano sul manufatto. I materiali organici sono deperibili e
suscettibili di divenire il substrato per funghi e batteri saprofiti. Particolari condizioni ambientali
possono favorire il processo di trasformazione biologica, che ne modifica sia la struttura che la
composizione, e che in zone a clima caldo-umido risulta notevolmente amplificato.
E' necessaria dunque un’azione di conservazione al fine di ridurre la velocità del processo di
deterioramento in modo da aumentare il “tempo di vita” dell’opera. Questo implica una serie di
operazioni, di diagnosi e di prevenzione e talvolta di intervento, per evitare o quanto meno
rallentare questi processi naturali. Fondamentale perciò è una conoscenza preliminare del bene
stesso, dell’ambiente di conservazione e dei fattori deteriogeni, responsabili, ovvero, del
deterioramento.
Lo studio delle interazioni tra mondo biologico e opere di interesse culturale sono gli
argomenti cardine della biologia applicata ai beni culturali. Si parla di biodeterioramento come
l'insieme dei processi indotti dalla crescita di organismi che, trasportati dall'aria o dall’acqua,
riescono a colonizzare le superfici di interesse artistico causandone l'alterazione.
Il biodeterioramento può essere definito come “un qualsiasi cambiamento indesiderato nelle
proprietà di un materiale, causato dall’attività vitale degli organismi” (Caneva et al., 2002). Questo
termine è spesso confuso con la biodegradazione che consiste in un processo nel quale un
organismo vivente converte il materiale organico in altri prodotti più semplici.
In base alla diversa composizione chimica dei materiali si possono avere differenti tipologie
di biodeterioramento. Le opere d’arte costituite da materiali organici (carta, legno, tessili, cuoio,
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ecc.) vengono attaccate soprattutto ad opera di microrganismi eterotrofi, capaci di degradare
enzimaticamente le sostanze organiche. I materiali inorganici sono attaccati più facilmente da
microrganismi autotrofi, quasi sempre affiancati da eterotrofi.
Con il termine biodeteriogeni ci si riferisce ad una notevole varietà di organismi e di
microrganismi con modalità di attacco estremamente diversificate. Citiamo uccelli, roditori (tra gli
animali), insetti, alghe, funghi, licheni e batteri.
Tra gli organismi viventi che suscitano maggiori preoccupazioni per la salvaguardia dei beni
culturali i microrganismi occupano un posto di rilievo. Lo studio della microbiologia applicata ai
problemi della conservazione dei beni culturali è di primario interesse sia nella fase di diagnostica
sia per lo sviluppo di metodi innovativi di restauro (bio-restauro).
L’approccio metodologico per una diagnosi corretta e che permetta al tempo stesso di
individuare strategie utili per un eventuale intervento di restauro, deve necessariamente tenere conto
dell’intera comunità microbica presente sul bene. Successivamente, l’identificazione dei singoli
microrganismi coinvolti e la conoscenza delle loro proprietà metaboliche completeranno la
comprensione del biodeterioramento in atto o potenziale e le possibili soluzioni, come ad esempio,
la scelta di prodotti biocidi e ad azione specifica su certi gruppi di microrganismi. Lo studio
microbiologico consente di seguire l’andamento dell’intervento al fine di monitorare l'efficacia a
lungo termine: infatti il trattamento con biocidi può non essere sufficiente, perché potrebbe causare
solo alterazioni della comunità microbica favorendo in un secondo tempo lo sviluppo di altri gruppi
biodeteriogeni, che possono rivelarsi anche più pericolosi (Rölleke et al., 1996, 2000). Tale
approccio permette inoltre di pianificare strategie preventive contro la colonizzazione microbica e i
suoi effetti.
Il biodeterioramento delle opere d’arte e i suoi protagonisti sono stati ampiamente studiati negli
ultimi anni, inizialmente con le “tecniche classiche”, basate sull’ isolamento dei microrganismi e la
coltura su terreni appropriati, e in seguito con l’affiancamento di tecniche più integrative ed
avanzate, come la microscopia ottica ed elettronica a scansione, la microanalisi e le analisi
molecolari. La procedura diagnostica per lo studio del biodeterioramento dei beni culturali
dovrebbe sempre prevedere l’utilizzo di più tecniche analitiche per effettuare una corretta
interpretazione dei risultati, e tener conto delle caratteristiche storiche e strutturali dell’oggetto e
dell' evoluzione di esse nel tempo.
Di fronte all'alterazione di un oggetto di valore è necessario intervenire per comprendere la
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natura del fenomeno e per impedire l'ulteriore deterioramento del materiale.
Ciò che è richiesto nella routine delle pratiche di conservazione è la possibilità di indirizzare le
operazioni da effettuare nel corso del restauro e pertanto di poter definire due questioni
fondamentali: 1) se la causa è biologica; 2) se l'organismo è vitale.
La flora microbica, capace di adattarsi agli habitat più disparati, cresce e prolifera anche sulle
opere d’arte, utilizzando come substrato di crescita o direttamente i materiali di cui è costituita
l’opera, o i materiali di supporto o quelli impiegati per passati restauri. Grazie all’estrema versatilità
metabolica e adattabilità dei microrganismi, sono pochi i substrati costituenti beni artistici
invulnerabili al loro attacco (Dixon 2005).
Nel caso dei materiali inorganici, dove non c'è una diretta utilizzazione nutrizionale del substrato
da parte della microflora, a parte i sali minerali più o meno diffusi a seconda dei materiali
costitutivi, non sempre è possibile distinguere i danni biologici di natura estetica da quelli strutturali
che comportano conseguenze irreversibili, ovvero la disgregazione dei materiali. In alcuni casi la
presenza di organismi su un substrato non sembra causare alcun cambiamento rilevabile nella sua
composizione chimica o nelle caratteristiche fisiche (Realini et al, 1985; Pietrini et al, 1985), ma
molto dipende dal tempo. La crescita di alcuni organismi è infatti molto lenta e i danni potrebbero
manifestarsi solo dopo anni o decenni.
Al contrario, nel caso dei materiali organici, come la carta e il legno, quando sono attaccati dai
microrganismi eterotrofi cellulosolitici, il danno appare spesso grave ed evidente in tempi brevi, con
conseguente perdita delle caratteristiche meccaniche dei materiali.
Per capire i possibili effetti causati dai microrganismi è necessario identificare i
microrganismi coinvolti, capire il loro ruolo nel biodeterioramento e utilizzare le informazioni
raccolte per approntare strategie conservative (González & Saiz-Jiménez 2005).
Nello studio dell’interazione tra substrato (opera d’arte) e microrganismi, si possono
approfondire tre tematiche: la bioricettività dei costituenti organici ed inorganici, ovvero l’attitudine
di un materiale ad essere colonizzato da uno o più gruppi di organismi senza andare incontro al
biodeterioramento (Pinna & Salvadori 2005); l’ecologia delle comunità microbiche sviluppatesi sul
bene culturale; il controllo e l’uso dei microrganismi (Urzì 1999).
Tradizionalmente, la diversità microbica è sempre stata determinata attraverso la crescita su
terreni sintetici agarizzati, in alcuni casi preceduta da un’incubazione del campione in terreni liquidi
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in cui vengono favoriti o selezionati specifici microrganismi, il cui isolamento sarebbe impossibile
senza questo passaggio. Il grosso inconveniente dei metodi microbiologici classici, basati su metodi
coltura-dipendenti, è rappresentato dall’impossibilità di fotografare in maniera precisa ed accurata
la biodiversità di ecosistemi complessi, in quanto per la maggior parte dei microorganismi non si
conoscono ancora le condizioni necessarie per la crescita su terreni sintetici, ma anche perché le
condizioni di laboratorio e i terreni usati favoriscono la capacità di determinati microrganismi di
crescere più velocemente prendendo il sopravvento su altri che hanno esigenze nutrizionali e/o
tempi di crescita diversi. Per questo motivo le popolazioni numericamente meno importanti o in
condizioni stressate saranno molto difficilmente rilevate e identificate. Utilizzando solo metodi
coltura-dipendenti si corre il rischio di ottenere delle informazioni sull’ecologia microbica di
sistemi complessi molto lontane dalla realtà (Hugenholtz et al., 1998).
Nel raggiungimento di una conoscenza più approfondita, hanno avuto un ruolo
fondamentale i metodi di indagine molecolare, coltura-indipendenti, caratterizzati dal fatto che non
è necessario coltivare microrganismi in quanto vengono rilevati direttamente all’interno del
campione attraverso l’analisi del loro DNA e RNA.
Come altro importante vantaggio per l’integrità dell’opera i metodi molecolari permettono di
ridurre significativamente le quantità di campione da prelevare, consentono di ottenere un quadro
specifico e completo delle comunità microbiche presenti sull’opera d’arte, attraverso uno studio
filogenetico delle sequenze (Schabereiter-Gurtner C. et al. 2001) che permette di identificare le
specie già note e di individuare quelle ancora sconosciute (Palla & Anello 2006).
Le tecniche molecolari sono state utilizzate, con risultati positivi, su differenti substrati, sia
di natura organica che inorganica, con criteri di campionamento adattati, di volta in volta, alla
natura dell’opera. L’uso delle nuove tecniche molecolari ha permesso di ottenere una visione più
realistica della biodiversità delle comunità microbiche sotto indagine (Laiz et al. 2003); ma devono
comunque essere considerate come integranti e non sostitutive delle metodologie classiche, che
sono necessarie per gli studi metabolici delle specie batteriche, coinvolte nel biodeterioramento e
per discriminare tra microrganismi vivi e morti (González & Saiz-Jiménez 2005).
Nel caso dello studio condotto dal Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari e
Microbiologiche (DiSTAM) dell’Università di Milano, diversi approcci filogenetici molecolari di
coltura-indipendenti sono stati utilizzati per caratterizzare la comunità microbica presente nel
Codice di Leonardo Da Vinci al fine di valutarne la problematica. Per un più approfondito studio
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dello stato di conservazione del manoscritto, sono stati esaminati i microrganismi presenti sulle
carte, con e senza alterazioni colorate, e l'ambiente in cui il Codice è stato conservato.
In questo caso i ricercatori si sono avvalsi di una tecnica di campionamento con membrana
di nitrocellulosa che offre il vantaggio di non essere invasiva. L’elettroforesi su gel in gradiente
denaturante (DGGE) è stata scelta per descrivere le differenze nella composizione microbica tra
diversi campioni, come quelli con e senza alterazioni, rappresentate, nel caso specifico, da macchie
(Principi et al., 2011).
Un ulteriore caso di studio estremamente interessante è stato condotto da Michaelsen
(Michaelsen et al., 2010) applicando metodi diagnostici non tradizionali per indagare la comunità
microbica sviluppatasi su un antico manoscritto. Le osservazioni al microscopio elettronico a
scansione (SEM) hanno mostrato la presenza di spore fungine adese alle fibre, ma i metodi classici
di coltura non avevano permesso di isolare i contaminanti microbici. Pertanto sono stati utilizzati
metodi molecolari, tra cui l’ elettroforesi su gel denaturante (DGGE), come alternativa a tecniche di
coltivazione tradizionali. La DGGE ha rivelato l’elevata biodiversità sia di batteri che di funghi che
popolavano il manoscritto. L’analisi sequenziale del DNA ha confermato l'esistenza di funghi e
batteri nei campioni prelevati dal manoscritto.
Il ricorso alle tecniche molecolari si inserisce perfettamente in una politica di prevenzione,
che, sia da un punto di vista teorico che economico, risulta il migliore “intervento” di conservazione
dei beni culturali; le tecniche molecolari permettono di rivelare precocemente, e quindi di bloccare,
l’eventuale processo di biodeterioramento di un substrato, ancor prima che il degrado dello stesso
sia evidente e il danno irreversibile. Allo stesso modo, diventano uno strumento molto utile per il
monitoraggio sull’efficacia di un trattamento di restauro a breve e a lungo termine. Le indagini
molecolari permettono, infatti, di valutare con prelievi “micro-distruttivi” la riuscita di un intervento
di restauro e conservazione su un’opera d’arte, come ad esempio l’efficacia dell’applicazione di
biocidi destinati a distruggere organismi nocivi.
Gli ambienti di conservazione possono essere suddivisi in tre categorie: ambienti esterni
(outdoor), semiconfinati e interni o confinati (indoor). Sono molti i parametri ambientali che
possono influenzare la conservazione di un bene culturale. Alti valori di umidità relativa, cui i beni
culturali sono sottoposti in modo temporaneo o permanente, ad esempio, favoriscono la crescita di
funghi e batteri su quasi tutte le tipologie di oggetti (Strzelczyk 2004). Altrettanto pericolosi sono i
rapidi e frequenti sbalzi termo-igrometrici, che producono tensioni meccaniche, continue dilatazioni
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e contrazioni, tali da indebolire l’opera, rendendola più suscettibile all’attacco biologico. Uno dei
fattori che maggiormente influisce sui valori termo-igrometrici è rappresentato dall’elevata
concentrazione di pubblico, con un notevole apporto di vapore, anidride carbonica e calore.
Per favorire la conservazione in ambienti indoor, dove i parametri possono più facilmente
essere controllati, la temperatura dovrebbe mantenersi tra 18 e 20°C, e l’umidità relativa tra 50 e
65% (Nimis 2001). Inoltre, bisogna considerare qualità (colore), quantità (intensità) e durata della
luce, la cui energia, assorbita dal materiale, provoca fenomeni deleteri per la sua integrità, dal
surriscaldamento a reazioni fisico-chimiche e cercare di limitarne le emissioni nella banda
dell’infrarosso e dell’ultravioletto. Inoltre, si deve aggiungere la presenza di ossigeno, che per le sue
proprietà di forte ossidante, esercita un ruolo rilevante sulla crescita biologica.
Il mezzo principale di dispersione dei microrganismi deteriogeni è l’aria. Essi sono presenti,
infatti, nell’aerosol atmosferico sia negli spazi aperti che in quelli confinati. Il bioaerosol è
costituito da particelle biologiche prodotte da sorgenti naturali, accumulate nelle polveri e risospese
in atmosfera come organismi veri e propri o sottoforma di spore (forme di resistenza) che prima o
poi si depositano su tutte le superfici. La deposizione e la successiva colonizzazione sono i
fenomeni necessari per avviare i processi di degrado biologico sui materiali. I principali tipi di
particelle biologiche presenti nell’aria sono: cellule batteriche e spore di funghi, di batteri, di
briofite e pteridofite, propaguli lichenici, cellule algali, granuli di polline, cisti di protozoi, virus,
frammenti vegetali e animali, semi, insetti e loro uova (Pasquariello, 2006).
Le indagini aerobiologiche, in grado di offrire informazioni sulle sorgenti, la qualità e i
fenomeni di deposizione, possono fornire un valido supporto nella progettazione e nel controllo di
interventi per la salvaguardia di manufatti artistici (Nugari & Roccardi 2001).
I microrganismi biodeteriogeni appartengono a numerosi gruppi sistematici: batteri,
cianobatteri, funghi, alghe, licheni (Gourbushina et al. 2002), ma il gruppo di cui ci occupiamo, tra
quelli maggiormente investigati in relazione al biodeterioramento, è quello dei batteri, organismi
procarioti, ubiquitari, di frequente isolati in contesti di interesse storico-artistico. La biodiversità
batterica si esplica a diversi livelli. La diversità morfologica comporta variabilità nelle forme
(sferiche, bastoncellari, a spirale, lobate, filamentose) e nelle tipologie di raggruppamenti, una
differente composizione della capsula e della parete in ordine ad un massimo adattamento alle
condizioni ambientali. Diversità fisiologica, ovvero di sviluppo e di motilità, ed infine, diversità
metabolica. La loro presenza ubiquitaria testimonia questa estrema adattabilità alle condizioni
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ambientali, permette l’utilizzo di diverse fonti di energia e di substrati, di tollerare diverse
concentrazioni di ossigeno (fino alla totale assenza), di disporre di numerose vie di degradazione
dei carboidrati, di fissare la CO
2
e l’N
2
, atmosferico, capacità metabolica esclusiva dei batteri.
Rispetto all’utilizzo di fonti di carbonio, i batteri possono essere distinti in organismi
autotrofi ed eterotrofi: mentre i primi utilizzano direttamente la forma inorganica del carbonio come
la CO
2
, gli eterotrofi sono in grado di impiegare solo composti organici (uno o più). Parallelamente
i batteri sono raggruppati in funzione della sorgente di energia (esterna): i chemiotrofi, ottengono
energia dall’ossidazione di sostanze chimiche, i fototrofi ricavano la loro energia dalla luce. Alcuni
batteri possono ottenere energia solo in presenza di ossigeno, e sono chiamati quindi aerobi, altri
solo in assenza di ossigeno (anaerobi); altri ancora, possono vivere sia in presenza di ossigeno che
in sua assenza (aerobi facoltativi).
All’interno di questi due grandi gruppi possiamo ulteriormente distinguere i batteri (Ranalli
et al. 2005):
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2
BATTERI AUTOTROFI
Batteri solfoossidanti, considerati i più pericolosi per i materiali lapidei, in quanto sono in
grado di produrre l’acido solforico che ha un’azione fortemente aggressiva. Tra questi i
Thiobacillus, che ossidano direttamente i solfuri a solfati, sono i più dannosi per i manufatti.
Riescono a penetrare con la pioggia nel materiale lapideo e grazie alla loro microaerofilia
sono capaci di vivere e riprodursi all’interno dei pori del substrato (Strzelczyk 2004).
Secondo Ciferri [1999] sono i primi a colonizzare i substrati, soprattutto in aree inquinate da
H
2
S ed SO
2
(Sorlini 1987), trasformando il carbonato di calcio in gesso (solfato di calcio),
molto più solubile del primo e destinando così l’opera a continue perdite degli strati che di
volta in volta vengono esposti all’azione dei batteri e delle piogge. La reazione, catalizzata
dai metalli pesanti e da alcuni gas presenti nell'aria, è la seguente:
SO
2
+ H
2
O + ½ O
2
→ H
2
SO
4
H
2
SO
4
+ CaCO
3
→ CO
2
+ CaSO
4
· 2H2O
Batteri solforiduttori, molto più raramente ritrovati su pareti dipinte rispetto a i primi;
Batteri nitrificanti, sono noti per essere pionieri nella colonizzazione di superfici lapidee e
per la capacità di produrre acido nitrico, in grado di reagire producendo nitrato di calcio, che
essendo molto solubile, viene portato via facilmente lasciando lacune e caverne sull’opera;
la loro fonte di energia non deriva solo dalla riduzione di componenti azotati provenienti dal
suolo, ma anche dagli escrementi degli uccelli, numerosi su monumenti e strutture lapidee
esposte (Strzelczyk 2004); comprendono sia i batteri ammonio-ossidanti o nitrosanti, che
ossidano ammoniaca ad acido nitroso (NH
4
+
→NO
2
-
)
(come Nitrosomonas o Nitrosococcus),
sia i nitrito-ossidanti o nitrificanti (come Nitrobacter), che ossidano acido nitroso ad acido
nitrico (NO
2
-
→NO
3
-
) (Crispim & Gaylarde 2005).
Idrogenobatteri, la cui importanza deriva dal fatto che risultano attivi anche quando le
condizioni ambientali sono limitanti o la fonte primaria di energia non è continuamente
disponibile.
Ferrobatteri, in grado di ossidare il ferro ferroso (Fe
2+
) in ferrico (Fe
3+
). Su manufatti ferrosi,
pietre contenenti pirite (solfuro di ferro), su affreschi, dipinti murali, ecc. in cui sono
presenti composti a base di Fe, formano composti indesiderati e antiestetici dal colore giallo-
bruno.
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53 5
3
BATTERI ETEROTROFI
La loro attività si esplica in relazione alle attitudini enzimatiche specifiche di ogni gruppo, e
alla produzione di cataboliti, dannosi per il substrato.
Batteri del genere Arthrobacter, identificati come responsabili di alterazioni cromatiche di
alcuni pigmenti, in seguito alla produzione di idrogeno solforato che reagendo con il piombo
contenuto in alcuni composti colorati (come la biacca o il minio), portano alla formazione di
solfuro di piombo nero, o di perossido di idrogeno che li ossida a PbO
2
di colore marrone.
Batteri cellulosolitici, che attaccano la cellulosa amorfa, ma alcuni sono in grado di attaccare
la cellulosa cristallina. Possono essere primari quando si nutrono solo di cellulosa (come
Cytophaga) o facoltativi, che si nutrono anche di lignina e di altre componenti del legno
(resine, gomma, coloranti, acido tannico, cere, grassi) come Vibrio.
Batteri proteolitici e ammonificanti, capaci di idrolizzare sostanze proteiche in peptidi e
amminoacidi, con produzione di proteasi (proteine in peptidi) e peptidasi (peptidi in
amminoacidi).Successivamente degradano gli amminoacidi (ammonificanti) con liberazione
di ammoniaca.
Batteri lipolitici e amilolitici, in grado di deteriorare manufatti contenenti, rispettivamente,
sostanze grasse (es. legno, pastelli) e amido.
Batteri denitrificanti, unici batteri anaerobi comuni su superfici di manufatti se presente
sostanza organica, la cui attività biodeteriogena è legata alla produzione di enzimi e acidi
organici.
Il semplice ritrovamento dei batteri su manufatti artistici, non può essere collegato direttamente
al danno. Infatti, finché non si ricostruisce la successione delle popolazioni di microrganismi che ha
avuto luogo sul substrato e il ruolo che ognuna ha avuto nel biodeterioramento, non si può essere
certi che gli organismi presenti al momento del prelievo siano i responsabili del deterioramento.
Sono frequenti i casi in cui le specie predominanti o facilmente isolabili non siano la causa del
danno ma colonizzatori secondari, che si sono procurati le sostanze organiche, necessarie per la
crescita, dalla morte e dalla lisi cellulare di microrganismi pionieri.
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