3
INTRODUZIONE
Le identità multiple
Molteplici ambiti del sapere umano mettono in primo piano la questione
dell’identità. Lo sviluppo tecnologico ha condotto l’uomo alla possibilità di
vedersi clonato in robots che ripetono, simulano i nostri gesti sostituendoci
in maniera efficace in molte azioni. Le scienze mediche, con la cosiddetta
″rivoluzione pro-creativa″, sembrano aver messo in crisi la modalità di
comprendere il tempo dell’origine, la creazione della vita. Si pensi ad
esempio all’utilizzo della diagnosi del preimpianto: si applicano dei test
genetici sugli embrioni al fine di decidere il loro impianto. L’applicazione
di questa pratica rende precario, «non più definibile con chiarezza il confine
concettuale tra il prevenire la nascita di un bambino gravemente malato e la
decisione eugenetica di migliorarne il patrimonio ereditario»
1
. Sulla scia
delle osservazioni dell’autore di Il futuro della natura umana non
intendiamo tacerne l’importanza in ambito diagnostico, ma, nel contempo,
consideriamo innegabili le implicazioni che essa induce sul piano etico.
Il pensatore tedesco si chiede infatti se sia compatibile con la dignità della
vita umana essere generato con riserva, «essere giudicato degno di vita e di
sviluppo in base all’esito di un test genetico»
2
. Quest’ interrogativo rimanda
alla questione fondamentale del valore da attribuire alla vita della specie
umana. Quale significato vogliamo dare alla vita umana? Habermas teme
che la genetica liberale, affidandosi alle opzioni interessate dei genitori, nel
caso dell’applicazione della diagnosi del preiimpianto, sfoci in
un’eugenetica. Il medesimo timore appartiene anche ad Hans Jonas, altro
pensatore attento e preoccupato delle sterminate possibilità dell’uomo della
tecnica. L’autore di Il Principio responsabilità, Un’etica per la civiltà
tecnologica esprime, con preoccupazione, in diversi luoghi e modi, i rischi
dello sviluppo della genetica. Il rischio principale sarebbe rintracciabile
«[…] nell’eventualità che l’uomo, sostituendosi a Dio, possa un giorno
arrivare a manipolare la sua stessa costituzione genetica per i fini più
1
J. Habermas, Il futuro della natura umana, I rischi di una genetica liberale, Torino, 2002.
pp. 23, 24.
2
Ivi, p. 23.
4
disparati o anche prospettiva non meno inquietante, per produrre uomini
migliori»
3
.
Timore quanto mai realistico. Jonas presagisce una situazione che le
biotecnologie hanno consentito di ipotizzare ovvero la modificazione del
patrimonio genetico. Infatti, gli sviluppi nel campo della biologia hanno
condotto alla possibilità d’immaginare una modificazione
dell’immodificabile: il DNA, caratteristica peculiare della propria identità
biologica. In relazione agli sviluppi tecnologici raggiunti e prospettati, ci
chiediamo quale sia l’identità dell’uomo e come si possa rispondere a tale
interrogativo, su un piano filosofico, nella contemporaneità
4
. L’identità
dell’uomo come identità biologica, se le modificazioni del DNA non si
limitassero alla cura delle malattie genetiche, non potrebbe più equivalere a
ciò che siamo, ma equivarrebbe «a ciò che ci siamo dati», ciò che hanno
scelto che fossimo
5
. Dunque, ci chiediamo: cos’è che fa dell’uomo un
uomo?
6
La domanda si ripropone con un’urgenza che scaturisce dalla
necessità di rispondere in una modalità innovativa, tanto quanto le
innovazioni che l’hanno riproposta. Innovazione interrogativa alla quale è
immanente una declinazione plurale della risposta e che implica un
superamento imprescindibile della risoluzione unilaterale e monotematica.
3
H. Jonas, L’ ingegneria biologica, una previsione, in Id., Dalla Fede antica all’uomo
tecnologico, Saggi filosofici, traduzione italiana di I. Bettini, Bologna, 1991. p. 243. Cfr. Il
principio responsabilità, Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, 2002. In quest’opera,
Jonas affronta, in maniera diffusa, la pericolosità etica suscitata dagli sviluppi della
genetica. Anche qui, il filosofo tedesco, individua come rischio più preoccupante
l’eventualità di un pieno controllo dell’uomo sull’evoluzione per fini eugenetici. Questa
eventualità viene dall’autore considerata come la realizzazione di un obiettivo che
appartiene all’uomo: «[…] il sogno ambizioso dell’homo sapiens può essere espresso nella
tesi, secondo cui l’uomo vorrebbe prendere in mano la propria evoluzione biologica, non
soltanto con lo scopo di preservare la specie nella sua integrità, anche per migliorarla e
trasformarla in base ad un proprio progetto. Se ne abbia il diritto, se sia qualificato ad
assumere tale ruolo creativo, ecco la questione più seria che possa venire posta all’uomo
che si trova improvvisamente a disporre di un simile potere fatale». Ivi, pp. 26-28.
4
Una contemporaneità tecnologica che sembrerebbe proporre, per alcuni versi, la piena
realizzazione della strumentalizzazione degli esseri umani, individuata da Jonas.
«[…]l’uomo stesso è diventato uno degli oggetti della tecnica, l’uomo faber rivolge a sé
stesso la propria arte e si appresta a riprogettare con ingegnosità l’inventore e l’artefice di
tutto il resto», così Jonas esprime la riduzione dell’uomo ad oggetto della tecnica. Ivi, p. 23.
5
Cfr., J. Habermas, J., Il futuro della natura umana, I rischi di una genetica liberale, cit.pp.
54-56, 67-70. Secondo Habermas, l’identità umana come identità biologica coincide con
ciò che ci siamo dati già con il solo utilizzo della pratica del pre-impianto.
6
E. Boncinelli, Le forme della vita. L’evoluzione e l’origine dell’uomo, Torino, 2000.
Questo interrogativo accomuna scienziati e filosofi, coinvolgendo i diversi ambiti del
sapere. Il genetista Boncinelli scrive: «Che cos’è che fa dell’uomo l’uomo: le sue capacità
mentali? La stazione eretta?L’utilizzazione degli strumenti?probabilmente un po’tutte
queste cose anche se non è molto chiaro quale sia venuta prima e quale dopo». Ivi, p. 148.
5
Ritorna, sul piano filosofico, l’inaggirabile questione della natura umana.
Essa non risiede in maniera univoca ed essenziale in un’unica nota
caratterizzante. Il linguaggio articolato, ad esempio, non può essere più
considerato una cifra distintiva dell’umano perché si è scoperto che diversi
animali emettono dei suoni aventi significatività sul piano della
comunicazione
7
. Nemmeno l’intelligenza
8
nè la capacità di pensare, il
possesso della ragione
9
possono qualificare in maniera univoca l’identità
dell’uomo perché queste possibilità vengono, se non ricreate, quantomeno
simulate dai robots. Solo l’empatia, come ha messo in luce Eugenio
Mazzarella, non sarebbe riproducibile nemmeno in via di simulazione e
risulterebbe, per tale motivo, l’ elemento distintivo dell’uomo rispetto al suo
«clone elettronico»
10
.
7
Si segnala sull’argomento F. De Wall, Naturalmente buoni, Il bene ed il male nell’uomo e
in altri animali, Milano, 1997. L’autore, un primatologo, attraverso lo studio delle scimmie
antropomorfe, mostra che è possibile rinvenire nei nostri antenati non umani atti di violenza
e prevaricazione, ma anche forme di solidarietà e tolleranza.
8
Il pensatore statunitense J. R. Searle ha individuato nell’intelligenza, nella effettiva
capacità di comprendere la cifra distintiva dell’uomo rispetto al computer: l’uomo
comprende, il computer esegue. Secondo l’autore de La mente, il progetto dell’intelligenza
artificiale forte fallisce perché non crea con il computer il corrispettivo elettronico
dell’intelligenza umana; esso ha successo pieno solo nel simulare la cognizione umana.
Searle ha mostrato la grande differenza che intercorre tra la computazione e la
comprensione reale in un esperimento mentale. «[…] se l’intelligenza artificiale forte fosse
vera –argomenta Searle in La Mente- allora chiunque dovrebbe essere in grado di acquisire
una capacità cognitiva qualsiasi semplicemente implementando il programma di computer
che simula tale capacità. Mettiamo l’idea alla prova con la lingua cinese. Io non capisco una
parola di cinese, nemmeno distinguere la scrittura cinese da quella giapponese. Ma
immaginiamo che io sia chiuso in una stanza con alcune scatole piene di simboli cinese, che
abbia un manuale di regole, programma informatico che mi consenta di rispondere a
domande formulate in cinese. Ricevo simboli che a mia insaputa sono domande, guardo nel
manuale cosa ci si aspetta che io faccia; prendo dei simboli dalle scatole, manipolo secondo
le regole del programma e mando fuori i simboli richiesti, che sono interpretati come
risposta. Possiamo supporre che io superi il test di Turino per la comprensione del cinese
ma non capisco una parola di cinese e se, pur implementando il programma informatico
appropriato, io non capisco il cinese, allora nessun altro computer lo capisce per il solo fatto
di implementare il programma, perché nessun computer possiede qualcosa che io non
abbia. Potetevi rendere conto della differenza tra computazione e comprensione reale se
immaginate come vivrei invece la situazione dovendo rispondere a domande in inglese.
Immaginiamo che nella stessa stanza mi siano rivolte anche domande in inglese, cui io
rispondo. All’esterno, le risposte alle domande in inglese ed a quelle in cinese appaiono
ugualmente buone, ma vista dall’interno la differenza è enorme. Quale è esattamente? In
inglese, capisco ciò che le parole significano, in cinese non capisco niente. Per il cinese
sono un computer». J.R., Searle, La mente, Milano, 2005. pp-81-82.
9
Come Cartesio ci ha suggerito nelle Meditazioni Metafisiche, Cogito ergo sum, penso
dunque sono, esisto. Il cogitare qualificherebbe in maniera esclusiva, il soggetto umano
che esiste, è in virtù della capacità di pensare. L’identità dell’uomo è nel suo essere
razionale. Meditazioni Metafisiche, in Opere, vol. 2, p. 205, 206.
10
Diverse sono le correnti di pensiero che mirano alla definizione dell’identità dell’uomo a
partire dalla differenziazione dal suo possibile clone elettronico. L’elemento di
differenziazione risiederebbe nel possesso dell’empatia come caratteristica esclusivamente
umana. Eugenio Mazzarella, in Identità umana ed artificio, idee per una libertà sostenibile,
6
A qualificare come obsoleto il tentativo di definire l’identità umana in
maniera monolitica ed a moltiplicare la complessità della questione è la
situazione politico-culturale contemporanea, caratterizzata dalla cospicua
compresenza di diversi gruppi etnici. Tale presenza connota culturalmente
le società come pluralistiche. Ciò che, maggiormente, impegna il pensiero
filosofico è proprio la questione dell’identità umana contestualizzata nello
scenario multiculturale contemporaneo. In tale prospettiva nasce l’ esigenza
di un ripensamento dell’identità dell’io in parametri nuovi per favorire la
nascita di un linguaggio interculturale.
″Un linguaggio″ che non si limiti alla giustapposizione delle diverse realtà
culturali, che non dia vita, parafrasando Maria Laura Lanzillo, ad una
società multiculturale a mosaico, nella quale ogni comunità culturale è una
realtà a sé stante, che non interagisce con l’esterno, limitandosi a vivere
come una sorta di monade. La causa principale della configurazione della
società multiculturale a mosaico, seguendo le considerazione dell’autrice di
Multiculturalismo, è l’incapacità di affrontare in maniera adeguata la
questione della cultura
11
. Inadeguatezza intesa come limite del pensiero,
mancanza di un linguaggio, che consenta di non limitarsi al
multiculturalismo come constatazione delle differenti culture
12
, ma che
si interroga, sulla scia di alcune osservazioni di Philih Dick, intorno a cosa è umano, cosa è
reale, cosa non lo è ed individua come caratteristica peculiare dell’uomo la capacità di
sentire l’altro, il bisogno dell’altro per la vita di ciascuno, l’empatia non riproducibile nel
robot. Le osservazioni di Dick, secondo Mazzarella «[…]bisogna tenerle a mente, quando
la filosofia riflette sulle possibilità di ibridazione tecnologica che tecnica e biotecnologia
offrono oggi alla struttura psico-biologica e in definitiva storica dell’esserci umano, alla sua
identità diveniente, al modo in cui abita il suo mondo e se stesso. Giacché ciò che è in gioco
è proprio l’identità a sé stessa riconoscibile di ciò che fino ad oggi è stato umano». Nella
contemporaneità tecnicizzata, in cui viviamo, viene meno, secondo l’autore, l’empatia, la
capacità di sentire l’altro, perché «viene meno l’avvertimento comunitario della nostra vita»
cioè la consapevolezza che la nostra vita si difende e nasce con la vita di qualcun altro. Ciò
che rende umano l’uomo, l’empatia, caratteristica non riproducibile nemmeno in via di
simulazione nel robot, «crolla con il tentativo di raggiungere una durata infinita
dell’individualità, pensiamo al tentativo delle biotecnologie di disattivare il programma di
invecchiamento dell’organismo» V. Gessa Kuroschka, G. Cacciatore, Saperi Umani e
consulenza filosofica, Roma, 2005, in particolare pp.107-117.
11
M. L. Lanzillo, Il Multiculturalismo, Roma-Bari, 2005. pp. 20, 21.
12
Cfr., G. Cacciatore, G. D’Anna, Interculturalità, Tra etica e politica, Roma, 2010.
L’approccio multiculturale, come mettono in luce gli studiosi Cacciatore e D’Anna,
porterebbe ad elaborare «concezioni oggettivanti e descrittive delle differenti culture,
mentre l’interculturalità intende formulare relazioni progettuali tra le differenze». È
interessante notare che i due studiosi sottolineano e, nel contempo, superano l’usuale
polarizzazione tra multiculturalismo e intercultura: «il multiculturalismo si costituisce
come il campo di descrizione e di rilevazione delle differenze culturali, mentre
l’atteggiamento interculturale si determina come terreno di possibilità di costruzione del
dialogo tra le culture», «essi divengono tasselli complementari all’interno di una più
7
possa realizzare l’effettiva interrelazione. La nuova modalità di intendere
ed esprimere l’identità dell’io nel contesto multiculturale, che qui si intende
delineare, vorremmo fosse un monito a promuovere nuovi modi di pensare,
che siano conformi alla contemporanea socialità, che siano quindi
″interculturali″.
In tale prospettiva d’intenti, si vuole mostrare l’inadeguatezza delle
definizioni ‘ingabbianti dell’identità’ e la mancanza di pertinenza, nella
prospettiva attuale, di una certa modalità di argomentare e definire, una
maniera statica di pensare più che obsoleta. Ci riferiamo principalmente
alla concezione dell’identità dell’io, espressa in termini esclusivi di un
elemento portatore di specificità-singolarità, che funge da possibile punto
di riferimento per la superiorità, il dominio di una cultura sull’altra. A
questa concezione definitiva, chiusa, si vorrebbe contrapporre e promuovere
un’idea dell’identità, che possa costituirsi come criterio-guida per
riconoscere la complessità delle identità individuali e collettive,
ripensandole sul piano interculturale. Ripensare l’identità in modo fluido e
dinamico intende essere il presupposto teorico per la comunicazione tra le
differenti culture, che costellano la variegata società odierna. Essa si deve
configurare come un medium per l’ascolto, l’accoglimento, la
comprensione e la condivisione delle altre identità culturali.
Nella contemporaneità, infatti, l’identità sfugge ad ogni tentativo di
definizione che sia valido in maniera universale ed assoluta. È così difficile
determinarla in maniera univoca, perché essa non è più esprimibile con una
definizione. Occorre costatare che non è più una categoria di riconoscimento
dell’io, ma è un elemento mutevole, fluido che è in continuo divenire nella
dimensione dell’ascolto comunicativo con le altre identità
13
. Va promossa
generale teoria critica dell’intercultura». Il fine della critica all’interno di una possibile
metodologia dell’intercultura è «rintracciare le condizioni di possibilità all’interno delle
quali poter organizzare un pensiero dell’intercultura che sappia discernere, penetrare
ermeneuticamente e analizzare il tema della differenza in tutta la sua portata dialettica,
conflittuale e problematica». Ivi, pp. 11-12.
13
Cfr V. Gessa-Kurotschka, G. Cacciatore, Saperi umani e consulenza filosofica, Roma,
2007, in particolare il saggio di L. Cortella, Identità e riconoscimento, pp. 193-197.
L’autore mostra tale necessaria fluidità sostenendo che: «Il modo usuale di pensare
l’identità [..] che colloca l’identità dal lato della specificità, come ciò che caratterizza il
momento individuale[..]»sia obsoleto e sostiene che «l’identità dell’individuo sia il prodotto
sociale, il prodotto di interazioni soggettive».
8
una concezione di essa come spazio che consenta la condivisione delle
differenze, nell’ottica di un arricchimento conseguente.
L’intenzionalità teorica qui sottesa è quella di superare l’orizzonte
concettuale definitivo dell’identità dell’io di matrice cartesiana,
contestualizzando la problematica nello scenario multiculturale della
contemporaneità. Rivolgendo lo sguardo alla storia della filosofia, non tanto
lontana, pensiamo agli anni Settanta del 900, ci si rende conto che, forse, tali
intenzioni non sono affatto peregrine. La filosofia francese, dopo lo
strutturalismo, rappresentata dal pensiero di Sartre, Foucault Deridda,
Deleuze, Levinas, Barthes, Lyotard, costituisce un ″campo di battaglia″
intorno al soggetto cartesianamente inteso. L’idea che accomuna questi
pensatori è quella di «aprire delle faglie» dalle quali far riaffiorare un
soggetto, che non sia più un soggetto cartesiano, «che pensa e dunque è», un
soggetto che non sia più fondamento e principio, ma libertà
14
. Muore il
soggetto, nasce la soggettività! Viene confutata la modalità di intendere
l’identità umana che fa esclusivo riferimento, sulla scia di Cartesio, al
possesso della ragione ed all’esercizio di questa nel pensare. L’emblema di
questa contestazione del soggetto cartesianamente inteso e della
delineazione della nascita di un nuovo soggetto inteso come soggettività è
l’immagine letteraria del soggetto vuoto di Foucault, di un soggetto senza
identità
15
. I filosofi francesi del post-strutturalismo hanno cercato di dare
voce ad un pensiero libero
16
ad una modalità di ″pensare senza ringhiera″,
prendendo in prestito un’espressione di Hanna Arendt. Una modalità di
pensare che fosse mobile, dinamica, così come lo era il soggetto, l’identità
dell’io e la filosofia stessa, come sapere che racconta la storia di questa
fluidità. In questa costruzione concettuale, di matrice francese, volta alla
messa in crisi del soggetto cartesianamente inteso, che promuove un’idea di
io mai definitivamente risolta, la filosofia di Paul Ricoeur assume un ruolo
di grande rilievo. L’autore di Sè come un altro, crea una filosofia del sé,
14
Cfr. D. Tarizzo, Il pensiero libero, la filosofia francese dopo lo strutturalismo, Milano,
2003, pp. 9-23.
15
M. Foucault, Il pensiero del fuori, Milano, 1966, p. 116.
16
Mettendo in discussione la tesi di Cartesio, questi filosofi francesi hanno posto le basi
per nuovi interrogativi, a dirla con le parole della studiosa Francesca Brezzi: «non più ti
estin cosa è, ossessione della metafisica classica, ma ti sesti (chi è?), chi sono io?chi sei
tu?». Cfr. in proposito V. Gessa-Kurotschka, G. Cacciatore, Saperi umani e consulenza
filosofica, op. cit. in particolare il saggio F. Brezzi, Oltre la differenza verso il
riconoscimento, p. 201.
9
della persona contrapponendola alla visione logica e solipsistica del cogito
cartesiano. La filosofia di Ricoeur rappresenta uno degli itinerari analitici
individuati perché consente di trarre alcune indicazioni funzionali al
raggiungimento di una concezione dell’identità come prospettiva fluida e
dinamica.
10
CAPITOLO I
LA QUESTIONE DELL’IDENTITA’ NEL
MULTICULTURALISMO
1.1. Irrinunciabilità e separatezza
I flussi migratori, le dimensioni globali dell’economia e dei mercati, le
tecnologie moderne della comunicazione
17
delineano uno scenario
contemporaneo in cui l’identità si configura come una questione complessa.
La riflessione sul processo identitario rimanda a due elementi
imprescindibili: l’irrinunciabilità e la separatezza
18
.
L’irrinunciabilità dell’identità e, congiuntamente, la sua complessità, come
si è cercato di far emergere nell’introduzione di questo lavoro, scaturisce
«dall’incompletezza biologica». L’identità, nella sua forma culturale,
rappresenterebbe perciò una «faccenda da non procrastinare» perché
fungerebbe da risposta alle lacune che segnano la biologia dell’essere
umano
19
. È importante chiarire, prima di procedere oltre, che la cultura non
17
L’influenza delle moderne tecnologie della comunicazione sulla struttura della società in
cui viviamo e sulla modalità d’istaurare le relazioni è al centro di diversi studi sociologici.
Si veda in proposito A. Giddens, Le conseguenze della modernità: fiducia e rischio,
sicurezza e pericolo, Bologna, 1994.
Bologna, 1994; Z. Bauman, Vita Liquida, Roma-Bari, 2006.
18
Nelle riflessioni svolte in questo paragrafo sono stati elaborati alcuni suggerimenti rilevati
durante il seminario Identità plurime e relazione interculturale, tenuto dal Dott. Rosario
Diana, presso l’ Istituto per la Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno,
Consiglio Nazionale delle Ricerche, 1,4,9,10,giugno/2010.
19
Cfr. in proposito F. Remotti,Contro L’identità, Roma, 1996, pp. 16-19. A. Gehlen,
l’uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, 1983. Il noto filosofo e antropologo
tedesco si sofferma più volte sull’incompiutezza biologica della natura umana, giungendo a
definire l’uomo come un essere carente: «Dal punto di vista morfologico – a differenza di
tutti i mammiferi superiori – l’uomo è determinato in linea fondamentale da una serie di
carenze, le quali di volta in volta vanno definite nel senso biologico di inadattamenti, non
specializzazioni, primitivismi, cioè di carenze di sviluppo: e dunque in senso
essenzialmente negativo». L’autore propone un’immagine dell’uomo diametralmente
opposta a quella proposta dall’evoluzionismo darwiniano: l’uomo non sarebbe il risultato
perfetto del processo evolutivo, ma sarebbe «l’animale ancora non definito». Quest’ultima
espressione appartiene a Nietzsche. Secondo Ghelen è un’espressione esatta ed ha un
duplice senso: «In primo luogo vuol dire che non sussiste ancora un accertamento di ciò
che l’uomo propriamente è. E in secondo luogo l’essere umano è per qualche verso
incompiuto, non costituito una volta per tutte». L’immagine dell’uomo che emerge è quella
di un uomo carente perché privo di «specializzazioni specifiche», ma capace attraverso
l’azione di costruire sé stesso. Il tratto distintivo dell’umano risiede nell’ «Welt offen heit »,
nell’apertura al mondo attraverso la quale non si colloca solo in «un ambiente», ma ha
mondo, vivendo e adattandosi attraverso le azioni. In tale prospettiva identità culturale è il
risultato delle costruzioni degli individui e diviene una sorta di «seconda natura». Ivi, pp.
60-63; 36.
11
assume nell’intento di questo lavoro il ruolo di paradigma definitorio,
sostitutivo della natura.
La necessità della declinazione plurale è diffusamente e chiaramente messa
in evidenza da molteplici studi di antropologia culturale. Richiamiamo alla
memoria, a titolo esemplificativo, le considerazioni dello studioso Clifford
Geerzt:
«La cultura, non completa gli esseri umani, in quanto animali incompleti,
ma si tratta di forme di cultura particolari che entrano in gioco nella
costruzione dell’identità. Non esiste una natura dell’uomo che lo possa
definire, l’uomo diventa tale assumendo subito sembianze particolari,
forgiate in qualche luogo sociale, in qualche ambiente culturale[…]si tratta
di una cornice all’interno della quale, ogni zona del mondo è un
conglomerato di differenze profonde, particolarità e stranezze»
20
.
Nelle luci e nelle ombre, negli universi simbolici e nelle discontinuità di cui
la cultura è portatrice risiederebbe la formazione delle identità. Nella
visione dell’antropologo statunitense, la cultura va intesa, quindi, come un
orizzonte di inclusione della molteplicità di valori, credenze e significati che
gli individui elaborano. Le argomentazioni di Geertz, dedicano infatti,
ampio spazio alla riflessione sulla dimensione simbolica e mettono in luce
il ruolo attivo degli individui nella creazione dei numerosi sistemi di
significato che costellano una cultura:
«L’idea di cultura che io prescelgo è essenzialmente di tipo semiotico.
Convinto come, Max Weber, che l’uomo sia un animale sospeso entro reti
di significato che egli stesso ha tessuto, credo che la cultura sia costituita da
queste reti e che quindi la sua analisi non debba essere una scienza
sperimentale in ricerca delle leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di
significato. Quel che cerco è una spiegazione»
21
.
La configurazione particolare, plurale semantica e semiotica della cultura,
intorno alla quale diversi studiosi si sono soffermati, rappresenta in questo
lavoro un punto di riferimento essenziale per poter mettere a tema la
questione dell’identità in un mondo multiculturale.
L’irrinunciabilità
22
scaturisce anche dall’inevitabile confronto con le
identità altre che attraversano il variegato scenario multiculturale
contemporaneo.
20
C. Geertz, Interpretazione delle culture, Bologna, 1987, p. 92.
21
Ivi, pp. 4-5.
22
Si veda in proposito S. Hall, La questione multi-culturale in Il soggetto e la differenza.
Per un archeologia degli studi coloniali e post coloniali, Roma, 2000. Qui si discorre
dell’irrinunciabilità dell’identità come centralità, che nella contemporaneità, avrebbe