Capitolo I, “Distruttività, violenza e aggressività: i nodi della natura umana".
1.1 Imprescindibilità dell'aggressione nelle diverse forme di vita: prospettive
etologiche e ambientali.
Fenomeni come aggressività, violenza e distruttività rappresentano manifestazioni
comportamentali ed espressive umane che spesso, pur investendo ambiti di senso ben
distinti, vengono assimilate sotto uno stesso contesto semantico. L’alta variabilità
caratteristica di quest’espressioni include azioni che possono essere ricondotte alla più
generale categoria delle aggressioni, fino ad agiti distruttivi privi di un fine pratico, a
omicidi, suicidi, atti sacrileghi, guerre o anche tacite modalità di pensiero. Gli approcci
di studio al fenomeno e le teorie elaborate a riguardo, sembrano presentare come
elemento comune un fulcro d’interpretazione razionalizzante, che vede nel
comportamento distruttivo e nelle sue derive sadiche e necrofile le strutture fondanti di
pulsioni innate dell'uomo, da lui inscindibili poiché costitutive. Le discipline
psicologiche e antropologiche, proponendosi di studiare la spinta mortifera umana e i
profili di rilievo che questa detiene nei più diversi aspetti dell'esistenza, si sono
concentrate su situazioni controverse, soprattutto se si considera come l’argomento
possa facilmente affrancarsi dalla ricerca empirica per sconfinare nella mera
speculazione filosofica, ridimensionando di conseguenza l'oggetto d'indagine. Altra
variabile di problematicità è la tendenza che, nel corso del tempo, si è andata
cristallizzando rispetto a percezione e reazioni rivolte ai diversi fenomeni distruttivi: se
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da un lato sembra aumentare la tolleranza e l'assuefazione del singolo e del gruppo alla
violenza, dall'altro si cerca di contrastare questa evoluzione appellandosi a principi di
morale non esperienziale né dotata di applicazione pratica e che sembra voler contenere
le espressioni umane specifiche e significative, più che applicarsi in senso ragionato ad
un’analisi sulla distruttività. Le diverse scienze umane si sono dunque concentrate
sull'analisi delle componenti soggettive e oggettive della crudeltà come prodotto tipico
dell’uomo, cercando d’individuarne gradi, intensità e fenomeni. Pur presentando un
pensiero già anticipato in epoche ben più antiche dalla filosofia greca, che postulava
come la vita nasca e proceda secondo un percorso in divenire, o in potenza, nell'ambito
dei primi studi naturalisti “L'origine della specie” (1859) di Charles Darwin stabilì un
turning point del pensiero biologico sulla natura. Seguendo la teoria dell'evoluzione di
Darwin, in un percorso generazionale, ogni forma di vita deriva da un suo antecedente
meno complesso e, lentamente ma progressivamente, procede con modifiche articolate
che creano strutture vitali ricche e varie, secondo un meccanismo di mutazione genetica
casuale che permane qualora questi accomodamenti si rivelino adattativi; i membri che
non evolvono la caratteristica che ha reso possibile un miglioramento delle condizioni di
vita si estinguono gradualmente. Benché questa dinamica naturale, nella sua forma
originaria, sia rimasta applicata esclusivamente all'ambito animale
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, applicandone i
fondamenti al caso umano potremmo pensare la distruttività come risultato di un agire
aggressivo necessario, quasi richiesto, per assicurarsi la sopravvivenza. Se però il
meccanismo evoluzionistico richiede un movimento di eliminazione progressiva, di
pratica quasi egoistica e costante nel tempo, fenomeni fuori dal coro come la
2 sarà il filosofo Herbert Spencer, contemporaneo di Darwin, a promuovere l'idea del darwinismo sociale
applicando i fondamenti della selezione naturale alle questioni sociali, economiche e politiche.
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cooperazione sociale, gli atti di filantropia, il senso di comunione che sottostà al
processo di civilizzazione secolare dei gruppi umani e la stessa convivenza sociale non
avrebbero ragione né possibilità di esistere nell’ottica della sopravvivenza del più forte,
poiché gli uni sarebbero contraddizione dell’altro. Per certi aspetti, la questione irrisolta
intorno a come l’associazionismo umano non sia contemplato dall'evoluzionismo di
Darwin fu ripresa da Konrad Lorenz
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, i cui studi etologici portano ad analizzare l'aspetto
dualistico dell'aggressività, come vicenda vitale di apparenza malvagia ma necessaria
all'organizzazione degli istinti che governano l'esistenza. Per Lorenz l'aggressività
risponde alla richiesta di conservazione della propria specie, costantemente messa alla
prova dalla pressione selettiva e che si esprime nella lotta intraspecifica tra individui
appartenente alla stessa razza animale. E' una motivazione interna assoluta, tanto
minacciosa per via della sua concretezza, è una forza di bilanciamento che punta alla
conservazione dell'equilibrio delle risorse vitali disponibili in un determinato ambiente,
distribuendo la popolazione, selezionando gli esemplari più forti del gruppo e assicurare
la prolificazione. L'aggressività è un vero e proprio istinto, non una modesta reazione a
uno stimolo esterno ma anzi “sgorga spontanea dall’interno dell’uomo”
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e per questo
pericolosa, non plasmabile attraverso meccanismi di apprendimento e ancora è passibile
di sviluppi disfunzionali. Se un comportamento istintivo è lasciato per lungo tempo
inattivo, si carica di valori di soglia sempre più bassi e facilmente innescabili anche in
assenza di stimoli che giustifichino la potenziale reazione negativa susseguente.
L'ingorgo e il blocco di un'attività istintiva configurano una maggiore propensione a
reagire, attivano comportamenti di appetenza che spingono un organismo inquieto a
3 Konrad Lorenz, (1962), “L’aggressività”, Milano, Il Saggiatore 2008.
4 Ivi p.90
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ricercare in prima persona degli stimoli che lo possano elicitare, siano essi provenienti
da un estraneo o da un compagno di specie. Poiché ciò non s’intona alle necessità di
sopravvivenza, è la stessa evoluzione che crea dei rimedi efficaci che possano confinare
l'aggressività intraspecifica e deviarla verso campi innocui: a ciò servono i meccanismi
di ridirezionamento degli agiti aggressivi che diventano riti dotati di nuovi significati,
fissati nel tempo grazie al lento lavorio dell'abitudine, incastonati per caratteristiche e
funzioni nel ruolo di legame fine a se stesso. La ritualizzazione filogenetica possiede un
suo corrispettivo socio-culturale, umano, di cerimoniale valevole e dotato di scopo:
l’esempio principe è lo sviluppo e l’adesione alle buone maniere, cui ci si conforma in
modo quasi del tutto naturale, la cui violazione porta alla reazione rabbiosa o indignata
degli osservanti contro chi non vi si conforma. Un comportamento istintuale motivato e
prodromico al mantenimento della specie può però essere comprensibile nella realtà
animale, ma non mostrarsi in forme altrettanto lineari nel comportamento umano. La
natura umana si mostra in prima battuta curiosa e si distingue per la capacità di
pensiero, ma non è salva dall’irrazionalità che spesso emerge in un comportamento
individuale o sociale: a un alto profilo di coesione interna, cioè di unità tra simili, fa da
contraltare un'incisiva forma di bestialità rivolta all'esterno, verso ciò che è Altro, contro
la diversità, che ricalca il comportamento descritto dall’autore come tipico della società
dei ratti. La funzione di conservazione della specie giustificherebbe
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questa forma di
violenza solo in caso di complicazioni legate alla territorialità che la richiedono, eppure
l'esempio animale riportato, non perde efficacia nella sua funzione di similitudine con la
condizione umana. L’interesse a comprendere e creare, la spinta all'esplorazione e alla
sperimentazione e l’accuratezza del pensiero hanno aiutato l’uomo ad imporsi
5 Konrad Lorenz, (1962)“L’aggressività”, Milano, Il Saggiatore 2008, p.220
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sull’ambiente ma lo hanno anche privato della sicurezza che il puro istinto “ingenerato”
gli garantiva. La facilità con cui l'uomo riesce a uccidere è controbilanciata dalla
capacità di porsi domande, dalla responsabilità razionale
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, dall'inventiva che gli
consente di dominare l'ambiente e dall'autoregolazione della propria aggressività,
capacità che son nate sulla spinta della necessità di ostacolare omicidi o carneficine
immotivate, per impedire il sopravvento dell'aggressività intraspecifica puramente
autodistruttiva, cui è mancata l'attività plasmante della pressione selettiva animale. La
selezione intraspecifica umana si svolge in modi diversi rispetto al mondo animale, il
principale fattore selettivo non è più l'ambiente ma la presenza di simili visti come
minaccia diretta, da cui proviene la ratio delle virtù di guerra, della spasmodica ricerca
del potere, della ricchezza e della proprietà: in questo caso il ridirezionamento delle
pulsioni aggressive, la sua azione bilanciante, origina dall'introduzione della morale
nelle diverse situazioni vitali. Gli istinti sociali, coadiuvati dalle capacità di
apprendimento, danno all'uomo la possibilità di evitare azioni distruttive non per mezzo
della fredda ragione ma perché sulla stessa motivazione s’instaura un incentivo sentito,
emotivamente rilevante, che diventa anch'esso istintivo, poiché crea scopi con una
funzione equivalente a quella della ritualizzazione filogenetica. La diffidenza mostrata
da Lorenz nei confronti di una proiezione che presenti l'uomo come essere per nascita
avvolto da un'aura di cattiveria, viene da lui giustificata adducendo l'esempio dei
frequenti atti di abnegazione e altruismo compiuti per amore di qualche norma di
comportamento sociale o culturale, che sembravano non trovare alcuna collocazione
sostenibile nell’evoluzionismo darwiniano. In questo senso l'etica diviene quel quid di
raccordo e di equilibrio tra la responsabilizzazione e la capacità di uccidere,
6 Ivi, p.302
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all’inibizione alla distruzione. La si può pensare come quell’elemento che tenta di
resistere all’inesorabile processo di indifferenziazione che segue alla civilizzazione
estesa: quando la popolazione di una data comunità aumenta, conseguentemente
perdono efficacia gli equilibri costruiti dai vincoli personali e che confinano la portata
aggressiva, la capacità dei singoli di agire in maniera amorevole muta in maniera
inversamente proporzionale rispetto all'aumentare del gruppo. La diluizione
dell'attaccamento emotivo da affollamento crescente provoca una maggiore
predisposizione alla violenza cui solo la morale può rimediare, pur imponendo sforzi e
sofferenza. Con la ritualizzazione culturale delle norme sociali si è creato quindi un
sistema di arginamento dei moti istintivi che, per pensiero pratico, si ritrova nelle
usanze, nei costumi condivisi e nei tabù che assumono forza di automatismi, finalizzati
a compattare la comunità al suo interno, eliminando le alterità. E’ questa diversità
ineliminabile che può produrre eventuali degenerazioni qualora si tenti di integrare delle
diversità in un ambiente compatto: distruzione, sottomissione e appiattimento si
presentano in maniera così estesa e alterabile proprio perché sono residui di un prodotto
umano e non delle regole istintuali della selezione. La società che Lorenz descrive ben
si allontana da un perfetto modello di Età dell'Oro ed è anzi incentrata sulla rottura degli
equilibri di continuità tradizionale: l'uomo, come essere collettivo, necessità di stimoli
sociali per rinsaldare quei legami che vanno disfacendosi con il progressivo
allontanamento dai riti, movimento figurato che si affianca alla diffusione di
un'economia motivazionale che lascia vuoto il posto degli ideali. Il rischio da mettere in
conto è la possibilità di assistere a forme di aggressività che non sono dirette verso un
oggetto concreto, non sono ancorate a una necessità materiale o umana e, proprio perché
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private di umanizzazione, possono portare a conseguenze crudeli o distruttive.
Seguendo questa prospettiva etologica, l'aggressività e la distruttività sarebbero istinti
cullati da un'energia in perenne movimento che, pur prevedendoli, non richiede
necessariamente la presenza di stimoli esterni che la distillino o le permettano di
manifestarsi: il vigore che caratterizza un istinto tende ad accumularsi e stratificarsi fino
a raggiungere un punto di esplosione, sollecitato o meno da un input esterno oppure
ricercato con comportamenti appetitivi dal soggetto attivo. Se nell'animale l'istinto
aggressivo è utile e necessario, nell'uomo corre il rischio di diventare una minaccia
qualora evolva nell'organizzazione sistematica di guerre e violenza, perdendo ogni lato
vantaggioso dell'originario modello istintivo-idraulico. In particolare nella trattazione
sull'istinto di autoconservazione e sull'istinto di morte freudiano, inteso anche nella sua
commistione alla sessualità con atteggiamenti sadici o necrofili, si propone una forma
non dissimile da questo modello idraulico, per cui l'aggressione non assume
necessariamente la veste di elemento reattivo a un campionario statico e già prefigurato
di stimoli, ma è piuttosto un flusso in continuo movimento, radicato nell'individuo, che
presenta la stessa ricorsività
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delle pulsioni freudiane. Ciò ritorna nello studio del
carattere e della personalità come quelle variabili che influiscono sul comportamento e
sull’essere orientati verso l’essere creativi o distruttivi, a rappresentarsi secondo una
determinata immagine e ad agire secondo schemi che diano una soddisfazione. E' qui
che s’inserisce il principio di realtà freudiano, cioè quell’istanza, in opposizione al
principio di piacere, motivata dalle necessità di autoconservazione e che tende a
moderare i comportamenti istintivi e diretti, cercando un punto di mediazione tra
l'azione effettiva e le spinte istintuali. In senso comportamentista, mettendo quindi in
7 Nel senso di regressività con cui Freud intende le pulsioni in “Al di là del principio di piacere”, (1920).
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secondo piano sentimenti, impulsi e altri aspetti soggettivi in favore di ciò che il
comportamento umano riesce a raggiungere, vanno considerati quegli elementi di
origine ambientale che rendono positivo e desiderabile un comportamento che dia
piacere, sia esaminando l’uomo per se stesso, che inserendolo nelle più ampie situazioni
sociali e culturali. Osservando un comportamento per le sue caratteristiche oggettive,
per ciò che lo definisce a prescindere da chi ne sia l’attore, se l'aggressione riceve dei
rinforzi positivi, perché ha la capacità di provocare piacere, tenderà a stabilizzarsi in
senso di ricorsività dell'atto e dunque, anche per le atrocità, queste sarebbero sollecitate
e cronicizzate dal vissuto positivo che se ne riceve in termini di appagamento. In questo
caso, si procederebbe facendo appello all'investimento d’interesse nell'Io e
nell'autoconservazione, e alla rilevanza motivazionale di cui sono dotati. A ricollegarsi a
un campo d’indagine di stampo concretamente ambientalista è la teoria della
frustrazione-aggressione elaborata da John Dollard nell’opera “Frustrazione e
Aggressività” (1939): qui ipotizza come, qualora occorra un comportamento aggressivo,
esista sempre una condizione originaria di frustrazione tanto intensa quanto la risposta
che ottiene e, viceversa, alla presenza di quest'ultima si verifichi sempre una risposta di
aggressività. Oltre alla proporzionalità diretta tra i due termini di causa-effetto, è
decisiva anche l'intensità del singolo impedimento che allontana l'individuo dal
raggiungimento del risultato desiderato o delle piccole diverse frustrazioni che,
sommandosi, possono generare una reazione di violenza maggiore rispetto quella che si
sarebbe ottenuta dallo scorporo dei singoli eventi. Sperimentare reazioni aggressive e le
conseguenti punizioni ambientali, porta a inibire una risposta immediata, pur
costituendo un ulteriore motivo di frustrazione che, in un circolo vizioso, sobilla nuova
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