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Introduzione
Il termine “riqualificazione” nasce in contesti molto diversi da quelli dell’urbanistica;
se si fa rifermento al “Vocabolario illustrato della lingua italiana di G. Devoto –
G.C. Oli, nel definire il termine, viene omesso il significato relativo all’attività
pianificatoria, mentre si fa esplicitamente riferimento alla riqualificazione
professionale, si può leggere infatti:
“Conferimento di una nuova e migliore qualificazione professionale a un
lavoratore, mediante opportuni corsi di preparazione.”
Nello stesso vocabolario, cercando invece il termine “qualificazione” si legge:
“Formazione e miglioramento delle capacità tecniche e produttive dei lavoratori.”
Altri significati, si sono sviluppanti negli anni, man mano che le diverse discipline ne
hanno “fatto proprio” il termine; nelle scienze economiche per esempio, così come
definito dal “Dizionario di Economia Garzanti”, assume il senso analogo di
miglioramento della produttività: per riqualificazione della spesa si intende infatti
l’ottimizzazione delle risorse economiche precedentemente impiegate, a parità di
cassa, nel conseguimento di determinati obiettivi di bilancio.
Andando ancora alla ricerca di ulteriori definizioni e confrontandole tra di loro, a
prescindere da quale sia il contesto di riferimento, in tutte si denota come elemento
chiave l’aumento di competitività, il conferimento di nuove funzioni, la correzione di
sprechi e squilibri e la dotazione di qualità.
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Il prefisso “ri-” ci fa comprendere che tali elementi vengano non conferiti per la
prima volta, ma nuovamente, in seguito ad un decadimento o ad un cambiamento
delle circostanze esterne.
Fino a tutti gli anni ’80 i dizionari di urbanistica o non riportano la voce
“riqualificazione urbana” o la usano in modo indifferenziato come sinonimo di
recupero, riuso, rinnovo, rigenerazione.
In questi anni prevale il concetto di “sostituzione”, che non è certo nuovo nella
cultura urbanistica italiana; fatte salve alcune eccezioni come nel Lessico urbanistico
curato da D. Borri dove compare una definizione di “riqualificazione” quale:
“Attività pianificatoria, programmatoria o progettuale, finalizzata al recupero di
una valida dimensione qualitativa e funzionale in strutture urbane e/o edilizie –
nell’insieme o in singole loro parti – compromesse da obsolescenza o da degrado.”
Definizione che resta comunque ancora strettamente legata al concetto di “recupero
urbano”.
Oggi la riqualificazione urbana sembra essere uno dei temi centrali dei programmi
amministrativi e della pratica urbanistica ed è proprio in seno al dibattito urbanistico
degli ultimi anni che si è sviluppata l’autonomia del termine, almeno in Italia.
Il tutto si riconduce al problema del “conferimento di nuove funzioni” – quindi, della
“riqualificazione”- di interi parti di città; l’intero organismo urbano ha bisogno di
essere aggiornato alle nuove esigenze di una città che non cresce quantitativamente,
che ha mutato il proprio modo di produrre di lavorare e di impiegare il tempo libero,
che vede nuovi attori socio-economici e nuovi motori di trasformazione.
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La riqualificazione urbana, dunque, nel rifunzionalizzare spazi dismessi, nel
coinvolgere nuovi attori sociali e nuove dinamiche produttive, nel sostenere la
competitività di una comunità locale nel sistema globale, ha anche la necessità di
utilizzare al meglio le risorse economiche, finanziarie ed ambientali; e nel far questo
non può non coinvolgere tutte le risorse disponibili sul territorio, siano esse
pubbliche o private.
Al concetto di “Ri-qualificazione” urbana, complesso di opere ed interventi utili a
migliorare la qualità di un luogo, di una parte di città o meglio di un’intera città, si
aggiunge anche il tema ancor più complesso di qualità ambientale, la cui crescente
domanda, pone nuove questioni alle scienze del territorio.
Il nuovo peso assunto dalle variabili ambientali all’interno delle discipline
urbanistiche e territoriali fa si che l’attenzione a questi aspetti risulti parte
fondamentale di un progetto urbano, sia esso riferito ad una nuova edificazione o ad
un progetto di ri-qualificazione.
In tutto ciò è plausibile inserire le “smart grids” letteralmente “reti intelligenti”;
questo termine intende una rete in grado di integrare sapientemente le azioni di tutti
gli utenti connessi – produttori, consumatori, prosumers – al fine di distribuire
energia in modo efficiente, sostenibile, economicamente vantaggioso e sicuro.
Le S.G. utilizzano prodotti e servizi innovativi assieme a tecnologie intelligenti di
monitoraggio, controllo, comunicazione, self-heating al fine di:
Facilitare la connessione e l’operatività di generatori elettrici eterogenei di
qualunque dimensione e tecnologia;
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Fornire ai consumatori strumenti per contribuire ad ottimizzare il
funzionamento del sistema globale,
Dare ai consumatori maggiori informazioni e poteri di scelta,
Aumentare il grado di affidabilità.
Uno dei maggiori vantaggi introdotti dalle Smart grids è l’abilità di integrare
efficientemente e semplicemente fonti di energia rinnovabili che risultano essere
intermittenti a causa della loro dipendenza da fenomeni non costanti, ma che
costituiscono un adeguato approvvigionamento d’energia se adeguatamente sfruttato.
È chiaro che questa nuova modalità di trasporto dell’energia elettrica, il cui sistema
di distribuzione verrà in seguito descritto, se intelligentemente studiato, fornisce
insieme agli strumenti classici dell’urbanistica cosiddetta eco-sostenibile un nuovo
punto di partenza per pensare la riqualificazione urbana; l’aumento di competitività,
il conferimento di nuove funzioni, la correzione di sprechi e squilibri e la dotazione
di qualità .
Capitolo 1
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Le azioni di riqualificazione
urbana in Europa e in Italia
È difficile oggi per un urbanista parlare di normativa; se si cerca di rivisitare il
“corpus di norme” che a livello Europeo e di conseguenza nazionale interferiscono
con la costruzione, la modifica, l’uso ed il riuso della città e del territorio, si corre il
rischio di essere scambiati o con chi “vuole rimuovere i vincoli” o con chi invece del
progetto urbanistico ha una concezione prettamente burocratica, guridica e
procedurale.
Per cercare in qualche modo di contrastare tale convinzione, bisogna partire dal
presupposto che, come affermato da Giovannoni, “non sono gli ingegneri o gli
architetti a dar vita ad un piano regolatore, più o meno bene designato; ma le
provvidenze amministrative e le combinazioni finanziarie ne rappresentano il vero
elemento dinamico che avvia l’attuazione non solo nello spazio ma anche nel
tempo.”
Tale affermazione, così acuta, è ancora oggi attuale e ci permette di comprendere
quanto sia necessario un raccordo tra cultura urbana e sistema normativo se si vuole
riportare quest’ultimo a svolgere la funzione di promotore e strumento per la
gestione urbana in tutti i suoi aspetti.
Capitolo 1
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1.1 L’evoluzione degli strumenti normativi
Nel corso della loro millenaria esistenza, le città si sono sempre sviluppate su se
stesse; gli uomini sono intervenuti sugli edifici eretti dai loro avi, hanno quindi
lavorato su contesti urbani esistenti per far si che questi si adattassero alla vita, agli
usi ed ai “valori” del proprio tempo. Per far ciò hanno distrutto, ristretto, modificato,
ingrandito, innovato il preesistente.
Nell’ ‘800 con il venir meno delle esigenze primarie che ne erano alla base delle
antiche città come difesa e costi di trasporto, si avvia un processo inarrestabile di
espansione orizzontale della città con il progressivo abbandono della parte storica e
degli interventi su di essa che ne avevano consentito l’efficienza fino ad allora.
Tale corso, che raggiunge il culmine nel periodo immediatamente seguente la
seconda guerra mondiale, entra però ben presto in crisi per l’incapacità della città di
sostenere un processo di sviluppo indefinito; da un lato si assiste al crescente degrado
ed abbandono delle aree urbane edificate marginali, con distruzione di risorse e
difficile gestione di nuovi quartieri, dall’altro si palesa una ridiscussione critica dei
modelli di sviluppo urbano ad espansione orizzontale indefinita, nate alla luce delle
mutate situazioni energetiche, ma anche dei diversi atteggiamenti culturali,
soprattutto in relazione alla maggiore importanza assunta dal concetto di “qualità
della vita”.
Si sente allora sempre più la necessità di ritornare a “lavorare” sul patrimonio
edilizio esistente e di conseguenza conservarlo; in un primo momento tutta
l’attenzione si sposta sulla parte storica della città, riscoprendo non solo la possibilità
Capitolo 1
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di evitare la distruzione di risorse legate alla perdita di edifici storici (spesso
doppiamente interessanti sia per il loro intrinseco valore economico, sia per la
“posizione” che occupano nel centro urbano), ma anche le sorprendenti capacità di
risposta alle emergenti richieste della società.
Queste ragioni spingono la cultura urbanistica in tema di riqualificazione agli inizi
degli anni ’60, ad esaurire la questione del “recupero” nel problema connesso alla
tutela e conservazione dei centri storici. Nel primo Convegno ANCSA (Venezia
1962) viene superato il concetto di “centro storico-artistico”, artificiosa elaborazione
degli storici dell’arte, per giungere ad estendere il concetto di “tutela” al centro
storico nella sua interezza. Sul piano normativo la Legge urbanistica 1150/1942
dedica alla città costruita poche e generiche norme tra le quali:
• l’impegno del Ministero dei LL.PP. a vigilare per assicurare il rispetto dei caratteri
tradizionali della città;
• l’obbligo di indicare nel PRG gli edifici soggetti a demolizione e/o ricostruzione.
Con l’obbligo di subordinare il rilascio delle licenze alla preventiva formazione del
Piano Particolareggiato, l’uso, il riuso ed il rinnovo del patrimonio edilizio
residenziale sarebbe stato “disciplinato” dall’applicazione combinata del PP e del
Regolamento Edilizio.
Negli anni ’50, essendo la cultura dominante condizionata ancora dalle esperienze
dei decenni passati, i PRG erano redatti nell’ottica:
• del massimo sfruttamento delle aree,
Capitolo 1
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• degli sventramenti dei tessuti urbani,
• degli isolamenti delle emergenze architettoniche.
Il primo provvedimento legislativo che interessa il patrimonio edilizio esistente è la
Legge 60/1963 istitutiva della Gescal la cui funzione sarebbe stata a livello teorico
molto semplice: da una parte incassare i contributi dei lavoratori e delle imprese,
nonché alcuni finanziamenti del governo e dall'altra spendere questi soldi nella
costruzione di case per i lavoratori.
La Gescal aveva due organismi dirigenti, un consiglio d'amministrazione ed un
comitato centrale. Nella sua attività vi erano quattro tipi di spesa: finanziamento per
lavoratori dipendenti; finanziamento di aziende pubbliche o private che costruiscono
abitazioni per i propri dipendenti; finanziamento delle cooperative; mutui a singoli
privati.
Il finanziamento derivava dai prelievi effettuati direttamente sulle retribuzioni di
dipendenti pubblici e privati, comprensive di contingenza, pari allo 0,35%, mentre le
imprese dovevano versare lo 0,70%. Nel 1973, la Gescal viene soppressa come ente,
ma il contributo continuerà ad essere versato praticamente fino al 1992; almeno il
60% dei fondi Gescal e di quelli ad essa assegnati dallo Stato doveva essere speso
per il risanamento dei complessi edilizi, purtroppo non solo i finanziamenti Gescal
toccarono nei primi anni ’60 il livello più basso mai raggiunto in precedenza, ma una
quota dei fondi fu ricavata con la svendita del patrimonio immobiliare INA-casa, col
che venne a mancare un possibile campo di applicazione di quel 60% dei fondi
destinati al risanamento dell’esistente.
Capitolo 1
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Con la Legge 765/1967 - Legge Ponte - viene posto un particolare accento sulla
tutela dei centri storici; introducendo una impostazione che guarda, non tanto la
valore eccezionale dei singoli elementi architettonici ma a tutto l’impianto
urbanistico tradizionale, che va conservato nel suo insieme, in quanto testimonianza
materiale delle singole comunità cittadine.
Allo stesso tempo si da importanza alla gestione del territorio; viene esteso infatti
l'obbligo della licenza edilizia a tutto il territorio comunale e cosa fondamentale, la
subordina all'esistenza delle opere di urbanizzazione. Limita drasticamente l'attività
edilizia nei comuni sprovvisti di P.R.G. e in quelli provvisti la subordina
all'approvazione dei piani particolareggiati e dei piani di lottizzazione.
Obiettivi fondamentali furono:
- Ottenere che si procedesse effettivamente alla pianificazione del territorio e che i
piani venissero rispettati, si fissarono i termini oltre i quali il comune inadempiente
sarebbe stato sostituito dagli organi statali nella redazione del PRG,e infine si estese
l'obbligo di licenza edilizia a tutto il territorio comunale, mentre in precedenza era
limitato ai centri abitati e relative zone di espansione.
- Porre un freno allo sviluppo edilizio incontrollato e speculativo, vennero infatti
posti limiti all'edificazione in assenza di piani urbanistici, si regolamentarono le
lottizzazioni rendendole obbligatorie nelle zone di espansione e vennero fissati i
limiti di inderogabili di densità edilizia di altezza, di distanza fra i fabbricati e la
dotazione minima di servizi per abitante (standard urbanistici).
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- Ottenere la partecipazione dei privati alle spese dello sviluppo urbano fino ad
allora gravante solo sui comuni mediante convenzioni tra privati e comuni nelle quali
si prescriveva che sono a carico dei privati tutte le opere di urbanizzazione primaria e
una quota a parte di quelle di urbanizzazione secondaria e che tale obbligo sia sancito
dalla convenzione stessa necessaria per ottenere l'autorizzazione a lottizzare.
È dunque opinione comune che la tutela introdotta dalla legge n. 765/67 rifletta i
caratteri peculiari della politica urbanistica del periodo, preoccupata di regolare
principalmente (se non soltanto) gli interventi nelle zone di espansione dell’abitato:
essa per il tessuto edilizio e abitativo preesistente nei centri storici, non poteva che
proporre una tutela conservativa, incentrata su uno “strumentario di blocco” degli
interventi.
Frenata la spinta alla sostituzione edilizia, attraverso il contenimento degli indici e le
relative prescrizioni restrittive della 765/67 e del D.M. 1444/68, ampie parti dei
tessuti urbani sono interessate da fenomeni di disinvestimento e di mancanza di
manutenzione continua, con enormi perdite di valore economico.
Nel 1978 con l'introduzione della Legge 457 si compie una svolta fondamentale nella
politica del recupero edilizio. Si chiude la fase alimentata sostanzialmente da alcune
esperienze pilota e se ne apre un'altra, grazie ai nuovi compiti (individuazione delle
zone di degrado e formazione dei piani di recupero) e ai nuovi mezzi (finanziamenti
per l'edilizia sovvenzionata e agevolata) che la legge propone, in modo generalizzato
sul territorio nazionale, all'attenzione dei Comuni e degli altri soggetti interessati.