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INTRODUZIONE
L’antropologia è una componente essenziale per lo studio e le ricerche sui disastri,
analizzare antropologicamente un disastro, significa saper guardare oltre l’evento
riuscire a cogliere elementi che sfuggono ad una prima analisi. Quando un disastro
colpisce una comunità, non produce unicamente danni ingenti a cose e persone ma
compromette tutte quelle certezze necessarie all’uomo per la sua sopravvivenza.
Ciò che mi propongo di esporre con questo elaborato scritto è un itinere che
dimostri come l’applicazione degli studi antropologici ai disastri sia utile per un
duplice scopo: da una parte dimostrare come un disastro non si configura
unicamente come un agente esterno alla comunità, ma come un fenomeno sociale
analizzabile da un punto di vista culturale per gli effetti che provoca sulle strutture
sociali colpite; e dall’altra riuscire attraverso queste premesse, a definire delle
nuove modalità di approccio nella ricostituzione dei territori colpiti, partendo dal
presupposto che la rinascita di una comunità si delinea a partire dal legame che
stabilisce con il proprio ambiente, che nel caso di un disastro naturale deve
necessariamente essere riconfigurato tenendo conto delle pratiche e degli elementi
culturali adottati nel corso del tempo.
La prima parte dell’elaborato è stata dedicata alla definizione del concetto di
disastro, partendo dalle teorie formulate da Gianluca Ligi, uno dei pochi antropologi
italiani chi si è occupato sistematicamente delle analisi sui disastri contrapponendo
all’impostazione tecnocentrica che definisce un disastro unicamente in termine
fisici, le nozioni socio antropologiche, che definiscono un disastro come un
fenomeno che si caratterizza a partire dal grado di vulnerabilità che una comunità
produce attraverso determinate pratiche culturali; vulnerabilità intesa come
elemento in grado di amplificare o ridurre gli effetti di un disastro. Per una
ridefinizione del concetto di disastro in una prospettiva marcatamente
antropologica, ho preso in esame anche i lavori di Mary Douglas in riferimento alla
teoria culturale del rischio, che illustra come la percezione e reazione al rischio
siano elementi che si definiscono in base al gruppo sociale di appartenenza.
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Partendo da queste premesse ho deciso di estendere le mie ricerche sul legame tra
l’uomo e l’ambiente, prendendo spunto dai studi di Franco Lai e Nadia Breda sulle
pratiche culturali che modificano un territorio connotandolo di elementi che
strutturano l’identità di una determinata comunità. In questo senso ho analizzato il
legame tra disastri e territorio, in riferimento al fatto che una possibile calamità
naturale, distruggendo l’assetto morfologico di un territorio, provoca
inevitabilmente degli effetti dannosi nel tessuto sociale delle comunità colpite
frammentando le varie identità culturali attraverso l’interruzione di correlazioni di
tipo economico, religioso, politico e affettivo, che legano l’uomo al proprio
ambiente.
L’analisi antropologica dei disastri e del territorio mi ha aiutato nella stesura della
seconda parte di questo elaborato, interamente dedicato al terremoto dell’Aquila del
sei aprile duemilanove. Ho deciso di concentrare le mie analisi sul disastro aquilano
prendendo in considerazione gli interventi di ricostruzione dei complessi abitativi e
di riconfigurazione del tessuto territoriale lacerato dall’evento sismico; analizzando
antropologicamente gli effetti degli interventi post-disastro. Il caso aquilano
rappresenta un evento particolare nella storia dei terremoti italiani, per la prima
volta tutti gli interventi di ricostruzione e riconfigurazione del territorio sono stati
condotti senza tener conto dei criteri di regolamentazione legislativa in materia di
riqualificazione urbana e senza sottostare a determinate procedure di sicurezza.
I diversi interventi come il progetto C.A.S.E. (complessi, antisismici, sostenibili,
ecocompatibili) gestiti quasi esclusivamente dalla Protezione Civile, non hanno
tenuto conto delle istituzioni locali e hanno prodotto una serie di danni che rischiano
di divenire irreversibili senza un adeguata risposta. In questo senso non mi riferisco
unicamente alla ricostruzione dei complessi abitativi, ma anche alla gestione del
patrimonio culturale, all’abbandono del centro storico sepolto sotto le macerie, e in
sintesi alla mancanza di una progettazione condivisa con la popolazione locale. Tutti
elementi che hanno portato ad una seria lacerazione nel tessuto sociale e culturale
aquilano, che a distanza di quasi tre anni dal sisma fatica a ricostituirsi.
Ho deciso infine di mostrare alcuni esempi innovativi negli interventi di ricostruzione
e riqualificazione del territorio, attraverso la nascita di network operativi come il
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comitato Osservatorio Nord-Ovest, che ha operato per una riattivazione di una
cultura dello spazio collettivo attraverso nuove forme urbane per ricostituire i luoghi
identitari del territorio. In questa prospettiva ho analizzato anche le operazioni di
gestione del patrimonio culturale aquilano, sottolineando attraverso le ricerche di
Anna Maria Reggiani, come nuove modalità gestionali possano contribuire alla
rinascita di un territorio.
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CAPITOLO 1. DEFINIZIONE DI DISASTRO
1.1. IL disastro tra tecnocentrismo ed antropologia
Il concetto di disastro si definisce attraverso l’analisi di due nozioni differenti
formulate da Gianluca Ligi
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: una nozione tecnocentrica che riguarda l’ambito delle
scienze fisiche e ingegneristiche e una serie di nozioni che prevedono l’applicazione
degli studi antropologici, per una nuova e più estesa definizione del concetto di
disastro.
La nozione tecnocentrica definisce il disastro in termini fisici, attraverso la
combinazione di due elementi: l’agente di impatto che può essere sia naturale che
tecnologico e l’effetto fisico che l’ impatto provoca sulle comunità in termini di danni
a persone e cose. Il disastro viene quindi a definirsi essenzialmente attraverso
parametri quantitativi di misurazione come la scala Richter per i terremoti o la scala
Fujita per gli uragani, l’elemento rilevante è rappresentato dal calcolo statistico dei
danni provocati.
Questa interpretazione dei disastri è l’unica che oggi predomina a livello
istituzionale, per la previsione e l’approccio che le comunità sociali adottano quando
si trovano a fronteggiare una situazione di pericolo. Nell’impostazione tecnocentrica
c’è un esclusione netta della comprensione e dell’analisi culturale di un disastro,
questa prospettiva diventa la principale lacuna nell’affrontare un situazione di
emergenza. L’applicazione degli studi antropologici porta ad una riformulazione del
concetto di disastro che non si definisce unicamente attraverso il rapporto tra
l’impatto dell’agente distruttivo e il danno provocato alle comunità colpite, ma
attraverso l’elemento della disgregazione sociale.
In termini antropologici un disastro è un fenomeno sociale che si manifesta
attraverso una disarticolazione della struttura sociale e dei suoi sistemi di significati.
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G. Ligi, Antropologia dei disastri, Laterza, Bari 2009.
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Per definire un disastro in termini antropologici non è necessario un numero
stabilito di vittime o di danni provocati.
Micheal Barkun
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nel 1974 definisce i disastri in questi termini: “ la distruzione
grave, relativamente improvvisa e frequentemente imprevista, della struttura
organizzativa normale di un sistema sociale, provocata da una forza naturale o
sociale interna al sistema o esterna ad esso ”. La gravità di un disastro si configura
attraverso il mutamento subito dalla struttura organizzativa di un sistema sociale,
che attraversa un periodo di disintegrazione mutando le proprie strutture per poi
riorganizzarsi e reintegrarsi in un nuovo ordine, volto a ricreare una condizione di
normalità perduta in origine.
Il mutamento della struttura organizzativa sociale colpisce differenti aspetti di una
comunità: il ruolo di integrazione sociale, il ruolo dei poteri decisionali e l’intera
scansione della vita quotidiana collettiva.
L’antropologia elabora una definizione di disastro esterna all’evento fisico, mettendo
in evidenza come gli effetti di una possibile crisi scatenata da un impatto distruttivo
siano già presenti all’interno del sistema sociale colpito, in questo senso un evento
critico si configura come disastro anche per le debolezze interne della comunità
colpita, debolezze che G. Ligi definisce come vulnerabilità socio culturali che
caratterizzano ogni sistema sociale: “Gli effetti del disastro si configurano come
nemici invisibili già costituiti all’interno di un sistema sociale, attraverso una data
struttura di parentela, nei processi decisionali di risposta istituzionalizzati, nel ruolo
attivo di un sistema di credenze relative alla percezione del pericolo, o attraverso
una schema di relazione economiche
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”, questi elementi influiscono sulle modalità di
percezione dell’individuo che reagisce e interpreta un disastro in base a determinati
sistemi di significato che una comunità produce.
Un disastro si configura allora attraverso la relazione tra l’impatto con un agente
fisico naturale o tecnologico e il grado di vulnerabilità culturale della comunità
colpita. Tutto ciò porta a nuove definizioni teoriche che riconfigurano anche i studi
sui disastri, analizzare gli effetti di un disastro significa analizzare indirettamente la
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M. Barkun, Disaster In history, Yale University press, New Haven.
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G. Ligi op cit., pag. 18.