Introduzione.
Venticinque anni e un sogno australe. Il mio progetto di tesi comincia così.
Con un viaggio in Argentina nei mesi dell’estate europea del 2008 (inverno
sudamericano). Ma il mio itinerario comincia molto prima del check-in per
Ezeiza
1
. Il mio viaggio si è colorato con i libri di Chatwin letti tempo addietro; si
è delineato tra i nomi dei mittenti di lettere dall’aura magica indirizzate al mio
bisnonno, quei “parenti di Santa Fe-Argentina” che puntualmente telefonavano in
occasione delle festività, parenti mai visti, che erano emigrati quando il mio
paese era paese e non sono tornati per vederlo città; il mio viaggio si è arricchito
con le perle della curiosità che mi contraddistinguono; si è rafforzato con i
risparmi di due anni di lavoro in una agenzia di viaggi, due anni di orari quasi
inaccettabili, di stipendio misero, di saturazione del quotidiano. Il mio viaggio si
è concretizzato con quello stesso misero stipendio, combinato con la crescita
passionale del sogno australe e con la necessità di ricercare una solitudine che ho
incontrato solo al momento di dirigermi verso l’estremo Sud, verso la Tierra del
Fuego. In fondo, un modo come un altro per dire “la fine del mondo”, un non-
luogo, un posto come Timbuctù o Mandalay, non ubicabile geograficamente.
Perché si viaggia? Hanno certo il loro ruolo i libri, l’appetito per le
differenze, la relazione con i genitori; hanno il loro peso i sogni, gli stereotipi e,
forse, la visione di un amore che sfiorisce ancora prima di sbocciare. Lo
spostamento geografico smuove l’animo, bussa alla porta della coscienza, apre il
cuore alle prospettive tracciabili, a volte concede l’illecito, lo legittima, lo
conforta. È un movimento pieno di speranza alla ricerca di un orizzonte più
chiaro. Per accordare le note interiori con l’esterno. Scovare il luogo della
felicità. Avanzare per ritrovare il proprio passato. E in questo passato, scorgere
inglobato anche il proprio futuro. Una lezione proustiana: bisogna perdere molto
1
L’aeroporto internazionale di Buenos Aires.
3
del proprio tempo per poterlo ritrovare. Che sia in una stanza di boulevard
Haussmann o sotto il cielo pampero poco importa. L’aprirsi al mondo comporta
una chiusura in noi stessi.
Paradossalmente, viaggiando la distanza ci avvicina. Le emozioni fluiscono
sui chilometri d’acqua con la garanzia e la sicurezza del distacco. Con la paura di
cambiare e allo stesso tempo di rimanere uguali. Con la paura di non cambiare.
Tierra del Fuego, Fin del Mundo: la mia focosa passione riflessa in una distesa di
ghiaccio, una distesa d’accogliente Solitudine. Il Fine. La Fine. L’andare. Una
storia di latitudini, una storia di nostalgie. Una storia straniera e straniante,
eppure familiare.
+ E poi il primo ostello, nel cuore di San Telmo, quartiere storico di Buenos
Aires: una palazzina anni ’20 progettata dall’italiano Virginio Colombo
2
, gestita
da una famiglia di origine spagnola che tiene a precisare la propria amicizia con
quei toscani che per anni furono vicini di casa, sostegno, compagni di feste nella
casa di San Martín. Tanto che la signora ancora oggi continua a preparare il sugo
con i pomodori freschi e mette da parte le conserve, come le insegnò la vicina. E
ancora: i quioscos che fanno da tabacchi, locutori pubblici e quasi alimentari che
rallegrano las calles con le arie di Mina e “Tenímmucce accussí Anema e Core”;
il señor che segue cantando “Chi può fermare il fiume che corre verso il mare” e
mi spiega mentre mi vende un pacchetto di caramelle che lui ha origine spagnola
ma alla radio ascolta sempre la stazione di musica italiana perché è la musica
della sua giovinezza, tanto grande era l’influenza della collettività italiana nel suo
barrio
3
di Villa Voz; la señora sintonizzata su un programma dedicato al
Quartetto Cetra che mugugna “In un vecchio palco della Scala”; il vendedor de
2
Architetto uscito dall’Accademia di Brera, si diresse a Buenos Aires nel 1906 con Achille Lazzari e
Mario Baroffio Covati per portare avanti le decorazioni del Palazzo di Giustizia. Alla sua opera è dedicato
un blog all’indirizzo virginiocolombo.blogspot.com.
3
“Quartiere”.
4
garrapiñadas
4
che mi offre le noccioline perché “muñeca
5
, ho origine calabbrèse,
soy italiano come te”.
Questo continuo richiamo all’Italia mi accompagna per tutti e tre i miei mesi
di cammino, dal confine con il Brasile al confine con l’Antartide. Dall’autista
Bottazzi di Puerto Iguazú che controllando i cognomi dei passeggeri mi chiama
da parte (“il tuo cognome mi sembra italiano”) e mi racconta di essere toscano,
figlio di un ebanista inviato a Buenos Aires dal Vaticano e di una contadina della
lucchesia emigrata con il marito quando era incinta di otto mesi (“aquella
loca
6
”); sino al timoniere di Ushuaia che si chiama Giobatta
7
come il nonno
materno, ligure, che si innamorò della vastità della pampa e non volle tornare
indietro.
I riferimenti in tavola non mancano: polenta, canelones, lasañas,
pascualina
8
, torte di verdura e zucchini ripieni. La cucina italiana non solo è
onnipresente nei menú argentini ma ne è parte integrante. Ed è anche l’unico
luogo che riunisce il nord e il sud della penisola, dalla cotoletta milanesa a quella
napolitana
9
. Fuori dal menú, “aquellos son meridionales”
10
.
Già, perché gli argentini sono gli unici stranieri che io abbia incontrato che
differenziano paesaggi e tipi sociali all’interno dei ridotti confini dello Stivale. Il
tano
11
bruto meridionale e quello del nord. Toscani e marchigiani, piemontesi e
napoletani. Tanto si sa quale sia il migliore dei tanos, si sa anche senza utilizzare
i punti cardinali: il migliore è sempre il paisano. Parola quasi magica, passe
partout. Parola precisa, precisissima nella sua generalità.
4
Mandorle o noccioline caramellate vendute per strada. Il carretto del vendedor de garrapiñadas fa parte
del panorama urbano di Buenos Aires.
5
“Bambola”.
6
“Quella pazza” (che si imbarca a un mese dal parto per stare dietro al marito).
7
Tipico nome ligure.
8
La Pasqualina è la torta di carciofi tipica i Genova.
9
La milanesa è la cotoletta semplice; la napolitana è la cotoletta a cui viene sovrapposta una sottiletta di
formaggio e una fetta di prosciutto.
10
“Quelli sono meridionali”.
11
Soprannome per “italiano”, derivato dall’abbreviazione “napoletano” ed esteso a tutte le regionalità.
5
Devo sforzarmi per pensarmi in Argentina a settemila miglia da casa, perché
cammino su scalini in marmo di Carrara, quello dei miei monti; perché mi
salutano con un “Ciao!” che si differenzia da quello dei miei amici solo nella
grafia
12
; perché la domenica è dedicata al calcio e il lunedì le prime notizie
riguardano i risultati delle partite, inclusi i gol di serie A. C’è così tanta Italia. Mi
ci imbatto costantemente. Incontro.
Norberto, il guardiano della cappella di San Martín nella Catedral della
Capital Federal, un uomo buffo dalle gambe leggermente arcuate. Ama parlare
con i turisti italiani per ricercare qualche compaesano di Feltre, e narra a tutti la
storia del santo teutonico a cui deve il nome. “Ma lei è religioso Señor
Norberto?” “Mah, per abitudine. Per tradizione. Perché in Italia c’è tanta
Chiesa.”
Altro uomo, altro santo: Cayetano edicolante di Córdoba e il vicentino
Gaetano, patrono del pane. I genitori gli diedero il nome per onorare il santo che
ha un grande seguito in Sudamerica
13
ma anche per onorare la propria città
veneta natale.
E ancora Mirta, attendente dell’ufficio del turismo al terminale degli autobus
di Comodoro Rivadavia, che vorrebbe tanto ripercorrere le sue radici per ottenere
un passaporto europeo. “Sai, sono una Fantoni ligure. Non conosco il mio paese
e nemmeno la mia provenienza esatta. Ho provato anche a fare delle ricerche e
ho seguito qualche corso d’italiano. Sai, non è solo una questione di passaporto
14
.
Me lo chiedo spesso com’è questo Paese lontano che senza conoscerlo mi si è
incollato sulla mia faccia da tana”.
12
“Chau!”.
13
San Cayetano viene venerato in tutto il Sudamerica e in particolare a Buenos Aires, dove viene
celebrato nella chiesa di Liniers il 7 di ogni mese con processioni, messe, fiere, lacrime e ringraziamenti
per grazie ricevute. “Pane” nel caso del Santo è sinonimo di lavoro, che è ciò che chiedono i devoti.
14
Il passaporto italiano è per gli argentini un vero capitale da investire poichè apre possibilità di transiti,
vacanze e lavori interdetti a quello argentino. Rappresenta inoltre la speranza di incentivi e contributi da
parte dello Stato Italiano.
6
Daniela, faccia da tana di Plaza Dorrego
15
, proprietaria di una bancarella
dove vende anticaglie, sente il mio accento e si rivolge a me con considerazioni
sulla sua condizione di migrante: “Hai presente Enea?”. È una citazione non
testuale ma visiva. Una citazione “par cœur”, nel senso francese di ricordare “a
memoria” ma anche nel senso letterale di ricordare con il cuore. “Sai, con il
vecchio Anchise in spalla e il figlioletto dietro. Senza valigie, ma con la statuetta
dei Lari in mano”. È il blocco marmoreo del Bernini
16
. La citazione si espande
dall’Enea di Galleria Borghese a quello dei banchi di scuola. Dall’Enea in fuga
che suscita l’orgoglio per l’arte italiana, all’Enea in approdo nel porto laziale che
suscita l’orgoglio di fare parte di quest’arte. Enea eroe che permette di tracciare
un parallelismo con la propria condizione di migrante, una condizione che tocca
tutta la famiglia, rappresentata dalle tre figure: il vecchio anziano, il giovane
padre e il figlio. E i Lari, affidati alle mani del vecchio. Il Bernini è sublime nel
compendiare età e sentimenti differenti in un blocco che sembra raffigurare un
unico personaggio quasi in rotazione su se stesso: lo sgomento del vecchio che
vede bruciare la città, la fermezza decisionale dell’iride di Enea, la fiducia del
piccolo che segue il padre quasi intralciandolo nel suo cammino, come spesso
fanno i bambini, ma anche il senso di perdita e di continuità garantite dalla statua
dei Lari simboleggianti il soprannaturale e la tradizione. L’arte diventa memoria,
diventa pietas, diventa coralità. Non c’è rottura nella linearità spazio-
generazionale dell’opera. È la rappresentazione del lignaggio. E nella bellezza
delle linee di un marmo tutto italiano e situato in Italia viene levigato anche lo
scontento di Daniela, emigrata e non tornata mai, nemmeno una volta in
cinquantacinque anni, al suo luogo natale. Con una discendenza oramai tutta
argentina tra le gambe, e i Lari chiusi in una boccetta di profumo di Nina Ricci
17
.
15
Plaza Dorrego è la piazza principale del quartiere di San Telmo a Buenos Aires, dove la domenica si
tiene la tradizionale feria, il mercato dell’usato.
16
Gian Lorenzo Bernini, Enea, Anchise e Ascanio in fuga da Troia, Roma, Galleria Borghese, 1618-
1619.
17
Nina Ricci è per gli emigrati una speranza di riuscita con l’esempio della propria vita di emigrata
italiana a Parigi divenuta nome indiscusso dell’haute couture internazionale.
7
Non in vendita. Un lignaggio vezzoso, tutto femminile, esposto in una bancarella
di San Telmo.
Sono tante queste facce da tano. Volti che vogliono raccontare e raccontarsi.
“Bueno, te cuento la historia de mi abuelo”
18
. Dal mio accento italiano il
raccontarsi zampilla così, come comincia la mia amicizia con Daniel, studente
alloggiato nella mia Residenza, a cui è appena stata riconosciuta la cittadinanza
italiana iure sanguinis. Sangue del nonno piemontese, nato per ultimo dopo otto
fratelli, ultimo che non si sentiva desiderato e a quattordici anni, dopo dieci anni
di lavoro come strillone a Genova, frequentando il porto decise di partire per
l’Argentina in cerca di una nuova vita. O semplicemente, di vita. Senza
nemmeno una valigia, perché non aveva nulla da metterci dentro.
Estero, extranjero, estraneo, estraniamento, ex, esilio. Lasciare il familiare,
procedere, viaggiare. Emigrare. È una quest singola, singolare e collettiva, intima
e pubblica. Personale, personalissima. Così come la mia Argentina non è una
mera destinazione turistica, l’emigrazione non è soltanto una necessità
economica. Accompagnati da amici, libri, dischi, speranze, si parte comunque
soli. Le valigie e i Lari non sono intercambiabili. Per noi lunigianesi i Lari sono
sicuramente scolpiti in marmo bianco di Carrara, il marmo per eccellenza, pietra
legata nella sua entità materiale ai nostri luoghi, alle Alpi Apuane che ci fanno da
orizzonte.
Giusto prima di cominciare la discesa verso Sud, nella tappa intermedia di
Buenos Aires, all’indirizzo di Avenida de Mayo 639, nel bar La Junta conosco
Romano. Romano è il figlio del migliore amico di mio bisnonno, quell’ “Ideale
dell’Argentina” di cui da piccola riconoscevo la grafia. La Junta è un café molto
elegante, “copiato” dai caffè europei degli anni Venti e recentemente
riammodernato. Specchi, sedie rosse profilate d’oro, tavolini tondi, una ringhiera
interna di ferro battuto. Io non ho mai visto Romano prima della Junta. E lui non
18
“Allora, ti racconto la storia di mio nonno”.
8
ha mai visto me, anche se è convinto di avermi vista da piccolissima nell’unico
suo rientro in Italia nel 1968. Dice che ero sul tavolo della cucina e che mia
madre mi stava cambiando il pannolino. Invece la madre era mia nonna e la
bambina era mia madre. “Il tempo si ferma per noi emigrati”, commenta. Lui mi
aspetta già dentro il locale. Sorpasso l’uscio e subito mi viene incontro: “Ah, gli
occhi della Rosa… forse non nel colore, ma sono gli occhi della Rosa”.
Sorridiamo. “La Rosa” è mia bisnonna, quella che ci ha tenuti in contatto anche
in tutti questi anni che è morta. Per abitudine. Per la telefonata annuale che il
padre di Romano continuava a comporre. E quella che i figli Romano ed Enza
non hanno smesso di comporre, nell’illusione, forse, di essere ancora vicini ai
genitori estinti, al paese che non è più, e nel caso di Romano, alla madrepatria.
“Madrepatria” è una parole che all’orecchio italiano risuona retorica, ma che
all’orecchio dell’ emigrato tintinna quale campanello che apre un mondo
parallelo, dove l’italianità è l’insieme di fattori che gravitano attorno al
paesaggio, agli studi, alle abitudini del luogo d’infanzia. Per cui la “patria”, nel
significato che via via assume il termine, coincide la maggior parte delle volte
con il paese d’origine
19
, un localismo ben identificato.
“Podán parlar ‘n dialeto, no
20
?”. Veramente no; io non lo so parlare. In casa
i miei genitori già non lo parlavano. Erano rimasti i bisnonni a parlarlo. Solo tra
di loro però. Poi la bisnonna sola. “La Rosa”. Quella dalle iridi screziate come
me. Quella che parlava dell’Argentina. Quella che non riuscì mai a visitarla, ma
che in questo mio viaggio si affaccia di tanto in tanto dalle finestre dei miei
occhi.
I miei occhi si fanno obiettivo multiplo. “La Rosa”. “La Melania”.
“L’Italia”. Italia turrita che protegge nel pensiero. Mamma Italia che ci ha dato la
luce. Nonna Italia che ha svelato i trucchi del territorio. Penelope Italia che
19
Vedasi la nota alla traduzione in Gabaccia, Donna, Emigranti. Le diaspore degli italiani dal Medioevo
a oggi, Einaudi, 2000.
20
“Possiamo parlare in dialetto, no?”.
9
continua a tessere la tela del ricordo. Mitologemi, sentimenti e figure si
confondono e compendiano nel mio viaggio come nel blocco berniniano.
Soggetti tutti maschili nella pietra; soggetti spesso femminei e femminili nella
quest di viaggio. L’orizzonte più chiaro assomiglia forse ad un éternel féminin?
L’infanzia paesana, l’adolescenza di lavoro, la vecchiaia straniera si
sovrappongono nel miraggio di un fiore con occhi di donna.
Per la prova finale del Master in Women’s and Gender Studies ho tentato di
andare alla ricerca di altre storie sospese tra una lettera e una telefonata, da Aulla
all’Argentina. Inizialmente volevo ordinare le loro vite per ricavarne un quadro
generale dipinto con i tratti a volte impercettibili, a volte intimi, a volte urlanti
della storia delle donne, ma subito mi sono piuttosto lasciata assorbire da loro,
senza dare un colore alla memoria. Il mio tentativo è quello di riuscire a farli
parlare seguendo ora uno ora l’altro filo, affinché si intreccino nella mia scrittura
così come loro hanno fatto con me, regalandomi l’accesso alle loro foto, ai loro
corredi nuziali, alle loro speranze cadute, lasciandomi permeare dalla loro
nebulosa identità, facendomi sentire come una benedizione, in tempi in cui
nessuno crede più alle benedizioni. Non certo in senso teologico, ma come acqua
che il sacerdote asperge e che rinnova la fede. Una scintilla che riaccende i
ricordi, le parole, le vecchie foto. La luce è nuova, non è sola nostalgia. Io
rappresento la gioventù, il progresso, io conosco la città che era paese d’infanzia.
Io sono andata a conoscere l’Argentina. Sono la connessione tra passato, presente
e futuro. Sono la connessione tra dialetto, castellano e italiano. Di certo tale
connessione non si stabilisce in modo indolore. Il verbo che accompagna i ricordi
è un verbo violento, che appartiene al campo semantico della guerra: “assaltare”.
I ricordi assaltano, anche se alla porta bussano timidamente come me.
Carla mi ha confidato di non riuscire a mangiare il pane senza sale. È il pane
toscano, come a volte compriamo noi. È il pane della memoria: l’ultimo boccone
è sempre troppo amaro. “Tanto i miei figli mangiano crackers”. La modernità e
l’attualità del cibo preconfezionato intervengono a spezzare la simbologia di un
10
alimento basico e caratterizzante, d’illustre pregnanza letteraria, dal pane biblico
che Sara offre ai tre angeli del Signore nelle Querce di Mamre, a “lo pane altrui”
dantesco
21
(eccessivamente salato) passando per il “Pane dei carcamano”
22
e il
“Pane degli Altri
23
” attorno a cui sono raccolte le lettere degli emigranti, titolo
che si riallaccia anche al detto popolare “cercarsi il pane altrove”. Il pane è
simbolo in molte culture di vita, di tradizione, di speranza, di prosperità, di
accoglienza, è desiderio e necessità.
Che questa tesi sia un pezzo di pane.
La partenza.
Al momento di iniziare questa ricerca ho tentato in primis di rivolgermi agli
archivi ufficiali per reperire i dati statistici, tentare di quantificare il fenomeno
migratorio e rintracciare i nomi dei protagonisti dell’ emigrazione. L’inizio non è
stato dei migliori data l’incertezza e l’irreperibilità delle fonti. Il primo
censimento data 1952, l’Anagrafe degli Italiani all’Estero risale al 1998.
Dovendo stabilire un limite temporale, ho considerato i casi di persone emigrate
dalla fine della Seconda Guerra Mondiale al 1960, che è l’anno in cui i rientri
italiani dall’Argentina superano le partenze. In Lunigiana è l’anno in cui si
concretizza il saldo di popolazione negativo che negli anni precedenti era
contenuto
24
. Se infatti nel 1951 lo scarto tra la popolazione residente e quella
21
Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui
scale. (Dante Alighieri, Par. CANTO XVII).
22
Titolo del libro di Giovanni Passeri che nel 1958 raccoglie le storie degli emigrati in Brasile. I
“carcamano” designano in senso dispregiativo gli immigrati italiani della zona di San Paolo, con
riferimento ai primi commercianti immigrati che solevano “calcare la mano” sul piatto della bilancia
mentre pesavano la merce per alterarne la misurazione e aumentare il prezzo. Il termine inizialmente
sinonimo di “disonesto” permise la diffusione di stereotipi negativi nei confronti degli immigrati italiani
soprattutto da parte della classe abbiente brasiliana.
23
A cura di Buongiorno e Barbina, Il Pane degli Altri. Lettere di emigranti, La Situazione, Udine, 1970.
24
Quartieri, Pietro, L’emigrazione nella Lunigiana toscana, in «Studi Lunigianesi», anno 4, Villafranca
in Lunigiana, 1974, p. 27.
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