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A Giuseppe
INTRODUZIONE
Come si legge negli Orientamenti del 1991: “la scuola si profila come
generalizzazione di un servizio educativo di elevata qualità (…), espressione di una
progettualità politica e pedagogica consapevole delle sfide provenienti dalle nuove dinamiche
della cultura e della società e in grado di tradurre nei fatti la convinzione che l’infanzia
rappresenta una fase ineludibilmente preziosa per l’educazione dell’uomo e del cittadino”.
Dalla convinzione della validità di tale affermazione e dall’esperienza vissuta nella scuola
d’infanzia a contatto con un bambino affetto dal disturbo di attenzione e iperattività (DDAI) è
nata l’idea di approfondire il problema dell’integrazione dei bambini irregolari nel sistema
educativo scolastico.
A seguito dei passi decisivi compiuti in questi ultimi decenni dalla scuola d’infanzia
verso la definitiva collocazione all’interno del sistema educativo del nostro Paese – anche
attraverso il superamento di una concezione soprattutto assistenziale e, nei casi migliori, di
scuola preparatoria.–l’integrazione degli alunni con handicap, e di tutti gli alunni in un regime
di autonomia, non può che essere considerata una delle componenti essenziali e irrinunciabili
della qualità del servizio scolastico.
Da una rassegna degli studi esistenti sull’argomento; in particolare dal saggio “Il
trattamento e l’educazione dei bambini irregolari” di Ovide Decroly, è emerso come i bambini
affetti da anomalie o problemi ci permettano di comprendere meglio certi meccanismi oscuri
del pensiero e dei sentimenti, inducendoci ad affinare i metodi educativi attuali.
Tra le strategie pedagogiche in grado di assicurare a tutti gli alunni abili e
diversamente abili l’apprendimento e la formazione in un contesto di reale integrazione,
quella che fa affidamento sul ruolo e le competenze dell’insegnante nel processo di
insegnamento-apprendimento è generalmente considerata indispensabile per un rapporto
equilibrato tra gli obiettivi di qualità e le risorse da investire.
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Solo la figura di un docente professionalmente preparato (in possesso quindi di
requisiti ben individuati sul piano delle competenze culturali, pedagogiche, didattiche e
metodologiche) ma anche dotato di sensibilità e disponibilità alla relazione educativa con i
bambini sembra garantire la necessaria capacità di comprensione di situazioni in continua
evoluzione e la ricerca costante di soluzioni innovative.
Lo studio e l’interpretazione dei risultati elaborati dalla letteratura scientifica intorno a
queste tematiche mi ha consentito – a conclusione del mio lavoro – di inquadrare meglio e
approfondire le origini del disturbo di attenzione e iperattività (DDAI) e le sue conseguenze
sull’apprendimento sia scolastico che extrascolastico dei bambini che ne sono affetti.
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Capitolo primo
Il caso dell’iperattività : apprendimenti e integrazione scolastica
Il problema della diversità, che appartiene a ogni momento storico e a ogni cultura è
stato affrontato dalle varie società in modo differente in rapporto alle proprie convinzioni
religiose, scientifiche, economiche e politiche espresse da queste che, in alcuni casi, non
limitandosi a vedere il diverso come uno ostacolo o un elemento di disturbo, hanno studiato
strategie e interventi a suo favore.
Purtroppo ciò è avvenuto troppo raramente, perché la diversità è stata bersaglio di
pregiudizi, di discriminazioni, di stereotipi, di paure e di persecuzioni di vario genere, infatti,
il diverso è stato riconosciuto come portatore di valori e integrato solamente nelle società
nelle quali prevalgono principi come il rispetto dei diritti dei soggetti e delle differenze, nei
contesti nei quali sono messi in atto modelli di condivisione, di etica, di tolleranza al fine di
costruire una società più giusta.
Oggi la diversità accoglie al suo interno una molteplicità di variabili : si è diversi per
religione, per cultura, per ideologia, per potere economico, ma possiamo dire che esiste un
secondo livello di diversità, rintracciabile in soggetti di ogni cultura, religione o ideologia, che
è quello di colui che presenta deficit, minorazioni; ci si riferisce alle persone che nel tempo
sono state indicate con termini come handicappato, disabile, diversamente abile.
Questo tipo di diversità è oggi in larga misura presente nella nostra società, in
individui di varie età e situazioni che, a causa di fattori contestuali, ambientali e personali, che
rappresentano le condizioni nelle quali essi vivono, possono partecipare più o meno
attivamente alla vita sociale e sviluppare a pieno tutte le loro potenzialità.
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C’è anche da dire che tra i fattori personali che determinano più o meno il
funzionamento e la partecipazione del disabile alla vita sociale sono da collocare: lo stile di
vita, le abitudini, l’educazione, l’istruzione e la professione, tutti elementi alla formazione dei
quali contribuisce attivamente la scuola, ovviamente affiancando la famiglia che è la prima
responsabile di ogni processo educativo e formativo.
Nell’educazione del soggetto diversamente abile può risultare necessario attivare
strategie, metodi e risorse speciali al fine di favorire uno sviluppo orientato alla
partecipazione sociale.
Per questo la pedagogia speciale, come settore pedagogico specifico che ha come
campo di ricerca e di studio il processo educativo di coloro che si segnalano per situazioni di
disabilità, di minorazioni, di deficit, si colloca in quanto spazio e, pur avendo originariamente
sviluppato percorsi e strategie rivolte a soggetti in età evolutiva prevalentemente educati in
istituzioni speciali, ha saputo cogliere negli ultimi trent’anni gli stimoli che nascevano dal
campo culturale , scientifico e politico per affrontare il problema della partecipazione sociale
dei disabili, alla quale si può essere formati solamente sperimentando, sin dai primi anni di
vita, un modello educativo proposto in istituzioni comuni nelle quali alunni “abili” e alunni
con bisogni educativi speciali realizzano situazioni di reale integrazione.
La diversità a cui faccio riferimento in questo capitolo è il deficit di attenzione e
iperattività (DDAI)
Il mio incontro con questo tipo deficit mi ha portato come insegnante ad andare oltre
la disabilità!.
Era l’anno 2000, quando una scuola dell’infanzia della provincia di Modena mi ha
chiamato per supplire un'altra docente , la quale ha rifiutato l’incarico perché non riusciva a
stare con un bambino affetto da questo disturbo.
Io ho accettato il mio primo incarico annuale, anche se all’inizio ero piena di
incertezze dovute alle notizie che mi avevano dato sul bambino: “era un bambino anormale ,
salta dai tavoli , si arrampica dappertutto, picchia gli altri bambini, non riesce a stare seduto, è
disattento ecc..”. Insomma quel bambino sembrava il mostro cattivo di tutta la scuola
dell’infanzia.
Nel frattempo mi sono documentata sulla DDAI e avevo chiesto anche dei consigli
alla psicopedagogista dell’Istituto Comprensivo.
Il primo incontro con Paolo, (nome fittizio del bambino) e i genitori è stato
scoraggiante e impotente; la mamma molto gentile mi aveva spiegato chiaramente che cosa
era la DDAI, come comportarsi e quali erano le cose che piacevano e non piacevano a Paolo
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come ad esempio : “gli piace giocare con le macchine, con le costruzioni, non gli piace che gli
venga detto “No”, ma è preferibile spiegargli, le cose, non gli piacciono le figure estranee,
non gli piacciono improvvisi cambiamenti delle situazioni, ama stare all’aria aperta anche
quando c’è freddo ecc…”
Io mi ero annotata ogni minima notizia che mi avevano dato i genitori e così decisi di
continuare ad osservare e descrivere quotidianamente mediante un diario ciò che faceva il
bambino durante la giornata a scuola, ciò è stato molto difficile perché non sempre con il
bambino e la sezione avevo la possibilità di documentare determinate situazioni, o particolari
momenti svolti durante la giornata a scuola.
Paolo frequentava la scuola tutti i giorni, tranne il mercoledì perché andava con i
genitori dalla logopedista, egli aveva difficoltà di linguaggio e il neuropsichiatra aveva
consigliato ai genitori di portarlo dalla logopedista perché avrebbe avuto buone capacità di
recupero.
Erano trascorsi tre mesi che io, Paolo, i bambini della sezione e le colleghe abbiamo
imparato a conoscerci; quando la mattina Paolo arrivava a scuola con la mamma era sempre
sorridente, si toglieva le scarpe e mi prendeva per mano e mi conduceva in palestra.
Io, e le mie colleghe in quei tre mesi cercammo di integrare Paolo con gli altri
bambini e per questo, quasi tutti i giorni decidemmo di trascorrere qualche ora in palestra con
un gruppo di bambini di diverse età.
Paolo, con gradualità cominciava volentieri a stare sia in sezione, che fuori dalla
sezione insieme ai suoi compagni. Questi cambiamenti li avevano anche notati i genitori , mi
comunicarono che Paolo cercava continuamente la mamma, mentre prima non lo facevo,
cercava la sorella, il papà, i genitori erano molto entusiasti tanto che, ci chiesero (a noi
insegnanti) cosa avessimo fatto a scuola per arrivare a una conquista del genere!.
Io gli risposi che fin dall’inizio tutte e tre le insegnanti abbiamo cercato e voluto
instaurare un contatto d’amore, quasi materno con il bambino, dato che all’inizio Paolo non
aveva una buona relazione con la madre assecondandolo, correndo avanti e indietro dalla
sezione alla palestra e viceversa, cantando, giocando, parlando mediante frasi minime e chiare
e soprattutto, cercavamo di instaurare un rapporto con Paolo tramite lo sguardo, osservando il
linguaggio del corpo di Paolo, il suo modo di agire…
Questa esperienza con Paolo, il lavoro con le mie colleghe e con alcuni dei genitori
della sezione è stato molto faticoso, ma indimenticabile, ancora oggi anche se sono trascorsi
cinque anni, questa esperienza non l’ho dimenticata anzi, ha suscitato in me un desiderio di
lavorare per promuovere nella scuola contesti di integrazione, di competenze e di qualità.
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Oggi Paolo è un bambino di nove anni anche se ancora oggi utilizza in minima parte
dei psicofarmaci è un bambino straordinario: va regolarmente a scuola , usa il computer, ha
imparato a leggere e a scrivere ed è integrato sia nella sua scuola che nell’ambiente
extrascolastico del territorio in cui attualmente vive.
4.1 Cos’è il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (DDAI)
Con l’espressione :” Disturbo da deficit di attenzione con iperattività” secondo il DSM
IV ci si riferisce a un quadro diagnostico in cui compaiono: disattenzione, impulsività e
iperattività.
Il DDAI venne descritto per la prima volta nel 1902 da parte di G.F. Still ma è stata
sempre confermata l’ipotesi che il DDAI sia in parte dovuto a fattori neurobiologici ( Barkley,
1997).
• I sintomi relativi alla disattenzione si riscontrano soprattutto in bambini che,
rispetto ai loro coetanei presentano un’evidente difficoltà a rimanere attenti o a lavorare su
uno stesso compito per un periodo di tempo sufficientemente prolungato.
Diversi autori sostengono che il deficit principale della sindrome sia rappresentata
proprio dalle difficoltà di attenzione, che si manifestano sia nelle situazioni
scolastiche/lavorative, che in quelle sociali. Dato che il costrutto di attenzione è
multidimensionale, si possono individuare nell’attenzione quattro componenti dell’attenzione:
attenzione selettiva, attenzione sostenuta o mantenuta, attenzione focalizzata e attenzione
divisa.
Secondo le ultime ricerche sembrano concordi nello stabilire che il problema
maggiormente evidente nei soggetti DDAI sia il mantenimento dell’attenzione sostenuta,
soprattutto durante le attività ripetitive o noiose.
Queste difficoltà si evidenziano anche nelle situazioni ludiche, nelle quali il bambino
manifesta frequenti passaggi da un gioco a un altro, senza completarne nessuno. In molte altre
situazioni che richiedono attenzione il bambini con DDAI non presenta però particolari
problemi, per cui recentemente l’accento è stato posto sulle difficoltà di autoregolazione, cioè
sulla incapacità di regolare autonomamente il proprio comportamento , inclusa l’attenzione.
Il bambino con DDAI avrebbe invece una buona capacità di comportamento
eteroregolato , cioè di regolare il proprio comportamento quando viene guidato da altri,
soprattutto nella relazione a due adulto –bambino e difficoltà invece di comportamento
autoregolato.