1.1 Mafia: stereotipi e paradigmi
La problematica sopra una possibile definizione di mafia desume un
rapido excursus sopra le differenti opinioni che fanno parte
dell’immaginario collettivo. Per avere un’idea adeguata della mafia
bisogna in primo luogo valutare le idee correnti e vedere se esse siano
valide o meno.
Per questo motivo faremo riferimento, prima di arrivare alla
definizione vera e propria di mafia, alla distinzione fra stereotipi e
paradigmi.
II
Chiamiamo stereotipi le idee correnti molto diffuse, i luoghi comuni
formatisi senza un riscontro documentale, recepiti per pigrizia mentale e
trasmessi per abitudine. Il vaglio di queste idee consiste nella loro
demistificazione, attraverso la messa a confronto con una rappresentazione
adeguata della realtà.
Chiamiamo paradigmi le idee che presentano un certo carattere di
scientificità, nel senso che esse vengono elaborate in base a un criterio e si
basano sulla raccolta e interpretazione di una certa massa di dati. Il più
grande problema dei paradigmi è che colgono solo alcuni aspetti del
fenomeno mafioso senza integrarli con i restanti aspetti che vengono
considerati marginalmente.
1.1.1 Stereotipi: emergenza, antistato, dalla mafia alla delinquenza
Lo stereotipo della mafia come emergenza si basa sull’idea che la
mafia sia essenzialmente o prevalentemente una fabbrica di omicidi. Se i
delitti sono molti e soprattutto se colpiscono personaggi conosciuti, allora
si parla di “emergenza”.
In base a questa visione la mafia se non uccide non c’è, o è come se
non esistesse e non fosse meritevole di attenzione; se non colpisce in alto è
solo un fenomeno locale che non desta preoccupazione.
Questo stereotipo è sicuramente il più diffuso ed è condiviso dal
legislatore. Tutte le leggi antimafia sono state approvate in seguito a grandi
delitti e alle stragi che hanno coinvolto l’attenzione dell’opinione pubblica:
dieci giorni dopo l’assassinio del generale-prefetto Dalla Chiesa
III
, dopo
II
. cfr. Umberto Santino, Breve storia della mafia e dell’antimafia, Trapani, Di Girolamo, 2008.
III
. L. n° 646 13 Settembre 1982, che introduce l’art. 416 bis del codice penale che definisce per la prima volta
l’associazione di tipo mafioso: L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della
forza di intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne deriva per
4
l’assassinio dell’imprenditore Libero Grassi
IV
, dopo le stragi del 1992 in
cui sono morti i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo
Borsellino e gli uomini di scorta
V
.
Lo stereotipo della mafia come antistato si basa su una lettura dei
delitti che colpiscono uomini delle istituzioni come “guerra allo Stato”,
mentre si tratta di delitti che colpiscono singoli personaggi particolarmente
impegnati nella lotta contro la mafia, spesso isolati all’interno delle
istituzioni e degli uffici di cui fanno parte.
Secondo questo stereotipo la mafia, in quanto fenomeno criminale,
sarebbe sempre e comunque altro dallo Stato e dalle istituzioni e
avversaria dello Stato e delle istituzioni. In realtà il rapporto della mafia
con le istituzioni è complesso, va dall’avversione all’interazione e, come
vedremo, il rapporto della mafia con settori delle istituzioni è costitutivo
del fenomeno mafioso.
L’ultimo stereotipo riguarda un concetto di evoluzione della mafia, e
della sua percezione da parte della società
VI
, secondo cui in passato si
poteva parlare di mafia, ma da qualche tempo essa si sarebbe trasformata
in mera delinquenza. Questo stereotipo avalla un’idea di mafia positiva, o
comunque rassicurante, per il passato ( la mafia vista come un’unione di
“uomini d’onore” che non uccidevano donne, bambini…) mentre negli
anni più recenti la mafia non ci sarebbe più, ci sarebbero soltanto piccoli
delinquenti che uccidono, minacciano, estorcono senza alcuna regola e
senza alcun onore. Ovviamente si cade in un grande errore, dato che la
mafia agisce da sempre all’interno di un sistema di rapporti e si evolve
adattandosi al mutamento della società e dei tempi.
In realtà non dobbiamo distogliere l’attenzione sul perno, sul
“valore” fondamentale dell’agire mafioso, e cioè sulla capacità di usare
violenza (nella forma più bruta o con la semplice intimidazione) per la
soluzione di qualsiasi problema, sia esso interno all’organizzazione
mafiosa o esterno ad essa. La violenza, il delitto come unica forma di
espressione possibile, sono valori che permeano i soggetti mafiosi fin dal
momento del giuramento di affiliazione all’associazione mafiosa. La
violenza diverrà da quel momento in poi per l’affiliato la sanzione per un
suo eventuale tradimento al patto associativo.
commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche,
di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri.
IV
. d. L. n°419 31 Dicembre 1991, antiracket e antiusura.
V
. L. n° 356 7 Agosto 1992, introduzione del carcere duro (41 bis) e legislazione premiale per i mafiosi collaboratori di
giustizia.
VI
. cfr. Umberto Santino, Dalla mafia alle mafie,Soneria Mannelli (CS), Rubbettino, 2006
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1.1.2 Paradigmi: associazione a delinquere tipica, mafia-impresa e
impresa mafiosa, e il “sentire mafioso”
Il primo e più significativo dei paradigmi è quello che vede la mafia
come semplice associazione a delinquere sottintendendo anche una certa
restrizione geografica del fenomeno. Il problema di questa accezione sta
nel fatto che si mira ad apprezzare i delitti di mafia isolatamente, senza
tener conto del contesto sociale in cui operano e soprattutto senza
registrare le conseguenze che su tale contesto producono.
Il 13 settembre 1982 viene approvata la “legge antimafia” che
descrive per la prima volta l’associazione di tipo mafioso che si distacca
per caratteristiche peculiari dall’associazione a delinquere semplice.
Infatti, se l’associazione a delinquere semplice (art. 416 c.p.) consta
di tre elementi: vincolo associativo, struttura organizzativa, programma
criminoso; l’associazione di tipo mafioso presenta le sue peculiarità per via
di altri tre elementi: la forza intimidatrice del vincolo associativo,
l’assoggettamento e l’omertà che essa produce.
Appartenere (nel senso più forte del termine) all’associazione
mafiosa significa accettarne totalmente le regole e le feroci punizioni che
derivano dal non rispettarle. “La violazione di tali obblighi comporta la
comminazione e l’attuazione di punizioni che spesso consistono nella pena
di morte (l’omicidio per la mafia non è un delitto, ma una pena, una
sanzione per la violazione di una norma del codice mafioso)”.
VII
Il secondo paradigma che potremmo definire “imprenditoriale” verte
sugli aspetti economici dell’organizzazione che dialogano col mondo
economico-finanziario altro da quello mafioso. Anche qui la
parzializzazione dell’esame del fenomeno mafioso, visto come semplice
strumento di accumulazione illegale, snatura la vera essenza
dell’associazione mafiosa.
Nel definire questo secondo paradigma dobbiamo fare una
distinzione fra: mafia come impresa e impresa mafiosa.
“La mafia è impresa nel senso che l’agire mafioso si configura come
razionale combinazione di mezzi e di fini indirizzata al perseguimento di
scopi di arricchimento. Per esempio il traffico di droghe e altri traffici
illeciti vengono svolti con il preciso scopo di accumulare capitali e lucrare
VII
. Umberto Santino, Breve storia della mafia e dell’antimafia,Trapani, Di Girolamo, 2008, p. 18.
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profitti, controllando la produzione e la commercializzazione e
incentivando i consumi”.
VIII
Invece per impresa mafiosa definiamo quelle attività economiche
formalmente lecite che si avvalgono per la loro costituzione o per il loro
sviluppo di elementi illeciti di natura mafiosa.
Il terzo ed ultimo paradigma (di cui parleremo ampiamente in
seguito) riguarda il cosiddetto “sentire mafioso” o “psichismo mafioso”.
Inseriamo questi nuovi studi di natura psicologica e psicopatologica
nell’ambito dei paradigmi in quanto, pur essendo studi scientifici svolti
osservando elementi dedotti da un’ampia casistica, si rischierebbe,
escludendo l’analisi di altri aspetti del fenomeno mafioso, di legare ad
aspetti antropologici ed inconsci propri del popolo siciliano l’esistenza
stessa della mafia.
Cadendo in questo errore si rischierebbe di definire la mafia come
elemento immodificabile della realtà siciliana.
In conclusione, scartate le idee date dagli stereotipi e dai paradigmi,
possiamo adottare come definizione di mafia la seguente:
“Mafia è un insieme di organizzazioni criminali, di cui la più importante,
ma non l’unica, è Cosa Nostra, che agiscono all’interno di un sistema di
rapporti, svolgono attività violente e illegali ma pure formalmente legali,
finalizzate all’arricchimento e all’acquisizione e gestione di posizioni di
potere, si avvalgono di un codice culturale e godono di un certo consenso
sociale” (U. Santino).
1.2 Delitto di mafia: l’uso della violenza
L’art. 39 c.p.
IX
descrive i reati facendo una distinzione fra
contravvenzioni e delitti. Il criterio formale di distinzione si basa sulla
pena prevista per le singole fattispecie di reato. Richiamando quindi le
disposizioni dell’art. 17 si definisce delitto l’illecito punito con l’ergastolo,
con la reclusione e/o con la multa.
Il delitto di mafia, oggetto del nostro studio, si caratterizza dall’uso
privato della violenza e dal non riconoscimento del monopolio statale della
VIII
. Umberto Santino, Breve storia della mafia e dell’antimafia, Soneria Mannelli (CS), Rubbettino, 2006, p. 20.
IX
. Art. 39 c.p. Reato: distinzione fra delitti e contravvenzioni.- I reati si distinguono in delitti e contravvenzioni,
secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite da questo codice.
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forza. L’elemento della violenza è parte integrante della vita sociale
interna dell’organizzazione, ne caratterizza le sue espressioni, è mezzo di
comunicazione con l’esterno, è intimidazione, è controllo sociale. Il delitto
mafioso e l’uso della violenza concorrono nella selezione dei quadri e nel
rinnovamento dell’organismo di comando, sono determinanti
nell’atteggiamento intimidatorio nei confronti degli imprenditori, e
costituiscono la regola per sopprimere tutte le forme di rivolta al sistema
mafioso.
“Così si spiega il ricorso all’omicidio e alle stragi ai tempi delle lotte
contadine e più recentemente nei periodi in cui maturavano scelte politico-
istituzionali che potevano contrastare o ridimensionare gli interessi dei
mafiosi e dei soggetti che compongono il sistema dei rapporti.
Per lungo tempo l’uso della violenza è stato legittimato con
l’impunità; solo negli ultimi anni il ricorso alla violenza nei confronti di
soggetti politico-istituzionali (poliziotti, magistrati, uomini politici di
governo) ha suscitato la reazione delle istituzioni, sempre però in un
quadro di emergenza, cioè di risposta allo straripare della violenza
mafiosa. Sono i casi che abbiamo già ricordato dell’assassinio di Dalla
Chiesa, delle stragi in cui sono morti Falcone e Borsellino.
La violenza mafiosa è strumentale, cioè è un mezzo per il
raggiungimento di obiettivi essenziali per l’agire mafioso e si inscrive in
una visione secondo cui è legittimo farsi giustizia da sé e non ricorrere allo
Stato.
Dallo studio della forma più grave di violenza mafiosa, l’omicidio, si
possono ricavare le seguenti indicazioni: l’omicidio mafioso più che frutto
di un istinto sanguinario e incontrollato e di una subcultura marginale è
principalmente omicidio-progetto, cioè è animato da una razionalità
strategica, in quanto:
A) è il modo in cui si esprime la concorrenza tra organizzazioni
mafiose o tra singoli mafiosi, quando non è componibile
con altri mezzi;
B) è lo strumento principale, o uno degli strumenti essenziali,
per la risoluzione della gara egemonica, interna ed esterna;
C) spiana la strada per il controllo delle attività gestite dalle
organizzazioni mafiose, illegali e legali;
D) è una modalità di intervento e di condizionamento del
quadro sociale e politico-istituzionale.
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