INCORPORAZIONI. PER UNA PREMESSA COMPRENDENTE
Questo lavoro rappresenta un’esplorazione delle radici profonde del
rapporto mente-corpo, una ricerca delle sue costituenti originarie che configurano
l’istante in cui la cosiddetta “scintilla di vita” prende corpo – nel duplice senso di
“incarnazione”, mente che si insedia nel somatico, e di corpo che si eleva
offrendosi alla mente – ripercorrendo i passi di quanti, nel corso dei numerosi
secoli trascorsi fino all’epoca attuale, si sono cimentati nella medesima impresa.
I primi sviluppi di forma di questo pensiero nascente hanno trovato forza
nel desiderio di rintracciare, all’interno della pratica clinica, uno spazio nel quale
potesse realizzarsi la coniugazione tra il corpo, inteso nella dimensione
individuale di agglomerato di processi chimici, biologici e psichici e l’apparato
gruppale, amalgama complesso e poliedrico di affetti, rappresentazioni, fantasie.
Uno spazio che, per citare Bion (1963), si rendesse evidente come il luogo dei
Sensi, della Passione, del Mito.
Questo luogo è stato cercato specificamente all’interno del campo
istituzionale, che per natura si presta ad essere contenitore indispensabile delle
potenti dinamiche emozionali proprie della collettività nelle sue molteplici
dimensioni (piccoli e grandi gruppi) e che a sua volta vive del respiro emesso
dalla società. La nostra ipotesi iniziale che l’istituzione sanitaria possa essere
considerata come una particolare forma assunta dal sintomo a livello sovra-
individuale, è stata diretta alla ricerca di un gruppo di donne reduci da un
intervento di mastectomia che partecipassero ad un percorso terapeutico gruppale
in una struttura ospedaliera. Abbiamo così individuato l’Istituto Nazionale per la
Lotta ai Tumori “G. Pascale” di Napoli, mediante il contatto preliminare con
l’Associazione ANDOS (Ass. Naz. Donne Operate al Seno) che all’interno
dell’ospedale forniva il servizio di supporto psicoterapico per la tipologia di
pazienti oncologiche menzionate. Quest’esperienza rivelatasi parziale per via di
una certa difficoltà incontrata nel conoscere direttamente il gruppo di pazienti, ha
determinato lo sviluppo del presente lavoro di tesi secondo un doppio vertice: il
2
primo, procede dal corpo del singolo al corpo del gruppo e dell’istituzione
(considerata come organismo sovra-sistemico) mentre il secondo si spinge dalla
malattia individuale verso quella dell’istituzione. Entrambi i piani permeano
trasversalmente tutto lo scritto, costituendone il costante sfondo riflessivo.
Lo scheletro organizzativo dell’elaborato mira appunto a mostrare questo
duplice tracciato, partendo dal corpo vivente nelle sue radici pulsionali e
funzionali per giungere al corpo re-integrato della terapia di gruppo, passando per
il corpo de-composto dalla malattia con la sua sintomatologia presente o assente
ed il corpo istituzionale come terreno specifico di dinamiche multilivello
polivalenti.
Il corpo vivente che dà nome al primo capitolo è il corpo che prende forma
dall’interrelazione tra i piani psichico e somatico, mentale ed organico –
riprendendo una distinzione cara ad Assoun (1997). Cerchiamo qui di
attraversarlo partendo dal processo di nascita e sviluppo energetico che fa da
sfondo al concetto di pulsione, congiunzione tra il somatico e lo psichico.
Esploriamo il piacere che la pulsione veicola nella ricerca di gratificazione per
mezzo della sessualità che è ricerca del corpo, influenzata nel suo sviluppo tanto
dalle determinanti culturali collettivamente costruite quanto dagli accidenti della
realtà. Cultura e realtà, con i loro limiti imposti, si pongono come potenziali
attivatori del trauma, una ferita difficile da ricucire. Accanto al piacere, dunque,
esse collocano così anche il dolore come controparte indissociabile, rendendo
spesso arduo distinguerli l’uno dall’altro. I segni di questo incontro possono
registrarsi nel corpo, attraverso un fenomeno paradossale che vede la simultanea
scomparsa (o l’assenza) di qualunque traccia nella mente degli episodi vissuti ed
in particolare della loro fibra emozionale. Se il senso del percorso psicoanalitico è
ri-collocare ed elaborare eventi di vita, promuovendo un passaggio circolare tra
corpo e mente, dobbiamo dunque guardare le manifestazioni psicosomatiche, che
si presentano così “essenziali”, come patologiche oppure possiamo considerarle
come strategie alternative di conservazione della memoria, realizzata su un
3
diverso piano di esistenza e con linguaggi e simboli differenti, come quelli
corporei?
Tale domanda, forse, risente di un vizio teorico posto a monte della
questione, che consiste nel continuare a mantenere separati mente e corpo, due
entità che invece andrebbero considerate nella loro inscindibile unitarietà. Questa
è la posizione che molti teorici hanno sposato nel tempo – da Donald Winnicott a
Wilfred Bion, fino al più attuale Armando Ferrari – e che noi prendiamo in
prestito per farla nostra, esplorandola criticamente. La costruzione dell’identità
(che in Winnicott (1966) nasce come “insediamento della mente nel corpo”)
deriva appunto da questa unità e non può essere esaminata senza considerare
questi due aspetti costituenti nella loro simultaneità. Corpo vissuto è dunque un
corpo che si mostra vitale e che, nelle sue conformazioni apparentemente
“disturbate”, segna semplicemente il tracciato del suo percorso di sviluppo, che
progredisce per crisi e lisi, disegnando l’andamento alterno proprio dell’esistenza
umana. In linea con questa prospettiva, dunque, potremmo considerare oggi come
corpo vissuto anche quello che un tempo era definito isterico: esso infatti, per il
suo essere deposito degli affetti entro i distretti corporei, costruito sulla base di
una precisa logica inconscia, rappresenta nelle sue forme meno eclatanti una
organizzazione di “normali” modalità di risposta all’ambiente, piuttosto che
un’aggregazione di difese patologiche adottate in maniera meccanica e reiterata.
Al contrario di quest’ultimo, il corpo de-composto del secondo capitolo
“prende forma” in maniera più sottile e meno evidente. Esso infatti plasma anche
attraverso “l’assenza” il dirottamento (o il re-indirizzamento) del percorso di
sviluppo, inteso come traduzione simbolica alternativa nel corpo e sul corpo di un
“quantum d’affetto” che non trova collocazione sul piano psichico oppure come
intraducibilità dell’affetto stesso, se si considera il corpo non come una via
secondaria di espressione simbolica ma come il vicolo cieco della
simbolizzazione. Il corpo qui delineato entra in gioco in un processo di
“falsificazione” che può essere assimilato per analogia al processo di
strutturazione del Falso Sé descritto da Winnicott (1970), punto in cui esso
4
sembra poter ritrovare la psiche sul piano teorico. Tanto nel caso del corpo quanto
in quello del Sé parrebbe attivarsi uno speciale processo di costruzione difensiva
per effetto di un arcaico istinto auto-conservativo; una barriera protettiva che può
servirsi anche della negazione prodotte dall’assenza, dal vuoto emozionale, per
strutturarsi. Questo fenomeno può giungere a livelli estremi al distacco da sé
come mente-corpo, testimoniato dall’anaffettività particolare che dalla descrizione
di Smadja (2001) appare caratteristica dei soggetti psicosomatici quale tentativo
ultimo di salvaguardia della propria integrità, che esita in un atto di ripristino
omeostatico inevitabilmente mortifero. Per questi casi siamo stati indotti ad
interrogarci su come e in che misura il processo di identificazione sia un
passaggio fondamentale per la costruzione di una identità anche parzialmente
stabile. Abbiamo cercato risposta a questa domanda ricostruendo sinteticamente
il processo identificatorio dalla sua origine somatica fino al più ampio spazio
relazionale, per giungere ad indagare il destino delle identificazioni al livello
meta-comprensivo dell’istituzione. Attraverso la moltiplicazione di livelli che le è
funzionalmente costitutiva, infatti, si realizza inevitabilmente una espansione
quantitativa e qualitativa delle stesse identificazioni che, a partire innanzitutto
dagli individui che fanno parte dell’istituzione, giustificano e sostanziano la sua
esistenza.
Con il corpo istituzionale all’interno del quarto capitolo ci siamo calati
ulteriormente nell’Organismo istituzione al fine di recuperarne le fondamenta
teoriche, che al pari delle cellule per l’organismo ne strutturano il tessuto di base.
Queste fondamenta ci permettono di scoprire una caratteristica essenziale
dell’Istituzione, corrispondente alla sua intrinseca natura dialettica. Il rapporto
ambivalente che essa instaura con l’individuo complessifica l’intero campo
interattivo, nel quale i processi di proiezione e di introiezione notevolmente
amplificati inducono alterazioni di grado progressivamente maggiore. Proprio
queste alterazioni aprono scenari patologici di difficile determinazione: la malattia
che si manifesta a questi livelli, pur chiamando in causa ancora l’individuo, può
essere letta come malattia dell’Istituzione vista nel suo complesso? L’esperienza
5
clinica riportata ci è apparsa un calderone sufficientemente ricco cui attingere per
cercare risposta a tale quesito, cogliendo la particolarità di rimandi patologici che
non procedono unicamente nella direzione che va dall’individuo al sovra-sistema
istituzionale, ma che da quest’ultimo corre all’opposto verso l’individuo che la
struttura e che, nella patologia, si esprime forse come un sintomo dell’istituzione
stessa. Tale sintomo, a questo livello considerato, può essere opportunamente
esplorato nelle sue valenze semantiche: fino a che punto “l’organo”, a qualunque
piano esso si collochi (individuale, gruppale, istituzionale), è portatore di un
messaggio simbolico? Possiamo ipotizzare che esso possieda un linguaggio?
Il corpo è spesso stato indagato in qualità di strumento cosciente di
comunicazione, alternativo alla forma espressiva verbale. Non ci si è soffermati
ancora a sufficienza, però, sulla considerazione che il corpo possa essere il fine
stesso della comunicazione piuttosto che un mezzo, che rappresenta uno dei punti
che attraverso il presente scritto intendiamo analizzare . Secondo Chiozza (1991)
ad essere chiamato in causa negli stati psicosomatici è un linguaggio differente,
non più verbale ma essenzialmente somatico, mediante il quale ″il corpo parla al
posto della mente″; ciò permette di concepire l’esistenza di un funzionamento
molto primitivo, di natura non psicotica, che vede la psiche totalmente bypassata
ed i suoi contenuti privi di modi di espressione alternativi al pensiero. Queste
caratteristiche però possono degenerare nella disorganizzazione psichica e
comportamentale, come avviene nella malattia psicosomatica grave in cui i
contenuti mentali sono direttamente trasferiti dalla mente al corpo, senza
intermediari.
Il corpo re-ntegrato posto a chiusura di questo elaborato cerca appunto di
aprirsi ai nuovi orizzonti elaborati per la comprensione di questi casi e alla
predisposizione di metodi di cura, realizzate entrambe a partire da piani di
osservazione più ampi. Riappropriandoci sul piano concettuale dello strumento
fondamentale del transfert, nelle sue estensioni dal campo duale a quello plurale,
ci avviciniamo alle qualità primitive e sincretiche della gruppalità, per riscoprire
inabissandoci nuovamente nel corpo le basi sensoriali dell’istituzione. Queste
6
infatti possono essere una valida risorsa per definire strategie terapeutiche efficaci
e valide per i casi istituzionali, le cui connotazioni affettive in terapia possono
essere estremamente intense e coinvolgenti. Le proprietà affettive del gruppo,
però, non si caratterizzano solo come potenti ostacoli alla cura, ma possono
costituire anche una risorsa taumaturgica, come testimoniano i fattori
psicoterapeutici descritti da Yalom (1970).
Tra i casi appartenenti all’istituzione, quello delle malattie psicosomatiche
si caratterizza come ancor più complesso: dal momento che per esse corpo e
mente sono implicati in maniera ancor più profonda, il coinvolgimento affettivo
scatenato assume una qualità del tutto particolare, che sempre più oggi sembra
richiedere una modalità di gestione specifica. Attualmente le metodologie
utilizzate con questo tipo di problematiche si collocano all’intersezione tra i campi
medico, psicodinamico, sociale e sistemico-relazionale. Tra di essi, abbiamo
scelto di focalizzare l’attenzione sui percorsi metodologici di tipo sistemico per
valutare, in conclusione, l’efficacia terapeutica che un intervento di tipo gruppale
(ed il particolare intervento dedicato alle figure di supporto per le pazienti, dette
caregivers) può esercitare su questo genere di disturbi, servendosi dello
strumento-gruppo come veicolo, oggetto transazionale e spazio proiettivo per quei
vissuti angosciosi e soverchianti per il soggetto, che finalmente troverebbero qui
possibilità di bonificazione e ridimensionamento rispetto alla loro connotazione
traumatica.
7
Capitolo Primo
IL CORPO VIVENTE
“La vita di un individuo è la vita del suo corpo. Poiché
il corpo vivente comprende la mente, lo spirito e
l’anima, vivere la vita del corpo significa avere una
vita mentale, spirituale e sentimentale piena. Se questi
aspetti della nostra natura sono carenti, è perché non
viviamo interamente dentro o con il nostro corpo. […]
Non ci identifichiamo con il nostro corpo…anzi, lo
tradiamo”.
(A. Lowen, 1975)
Possiamo ritrovare il senso profondo del corpo serbato, nel duplice senso
di celato e preservato, nella sua fonte etimologica originaria: la parola corpus
deriva dalla radice indo-iraniana KRP che indica la “forma”, qualcosa che allo
stesso tempo è unitaria e tangibile (Macchia, 2008), quell’unità psiche-soma che il
lessico può solo ricostituire mediante un trattino, ad evidenziare i limiti di una
mente che, nel suo sforzo di coglierla, non può far altro che disgiungerla (De
Toffoli, 2001).
Le numerose incognite progressivamente emerse in merito ai rapporti tra
corpo e mente – i quali, lungi dall’essere chiariti, hanno finito col rivelarsi agli
occhi di quanti si apprestavano a sondarli ancor più misteriosi ed inspiegabili –
hanno offerto nuovo slancio alla ricerca epistemologica nel campo dei fenomeni
psico-somatici (o somato-psichici) e dei relativi disturbi. Quest’ultima, nel
tentativo di trovare nuove fonti teoriche che potessero fornire risposte ai quesiti
avanzati, si è spinta a ritroso verso le origini dell’elaborazione concettuale sulla
materia, dove ampio ed in larga parte ancora misconosciuto sembra essere il
bagaglio di conoscenze sinora prodotte; queste hanno visto avvicendarsi e
confrontarsi voci eminenti sollevatesi dai più disparati campi, quali la neurologia
8
e la fisiologia, passando per la psichiatria e la medicina generale, prospettive
rispetto alle quali l’opera di Freud si presenta come sintesi equilibrata,
ricostruendo un quadro complessivo omogeneo ed articolato.
La psicoanalisi “classica”, a partire dalle prime teorizzazioni inerenti
all’esistenza di una regione psichica inconscia (ed in quanto tale “aliena” all’uomo
nella sua quasi totalità), è pervenuta con Chiozza (1991) alla formulazione di una
“Seconda Ipotesi Fondamentale” che definisce come elemento somatico puro
l’irruzione nella coscienza di quote di inconscio non ordinabili in catene di
significati, stabilendo così psiche e soma come due categorie che la coscienza
costruisce nel suo rapportarsi all’ente psicosomatico unitario, piuttosto che due
modi d’essere specifici e distinti della sua realtà; anch’essa, tuttavia, si è
dimostrata per molti aspetti insufficiente a spiegare da sola vecchie e nuove forme
di psicopatologia grave (potremmo dire, riprendendo le parole di Gaddini (1980),
che “gli psicoanalisti non dimenticano mai che il mentale è basato sull’organico,
ma il loro lavoro può portarli fino a quella base, e non al di là di essa”) che
includono tutto l’ampio ventaglio di disturbi oggi definiti come psicosomatici,
spesso posti all’attenzione del clinico come molto più invalidanti della “comune”
nevrosi e persino della psicosi, tanto che per essi non si è ancora riusciti a trovare
adeguato e definito statuto psicopatologico autonomo: per questa ragione hanno
finito per essere collocate, data la loro natura, in uno spazio teoricamente
“sfocato” definito border, ossia al limite, posto per comodità espositiva e
concettuale in un’area intermedia tra le due classi psicopatologiche
summenzionate. D’altro canto, la riscoperta di molti contributi originali, letti
secondo un’ottica differente, ha permesso di accendere una nuova luce sulla
possibilità di sciogliere i nodi che avvolgono l’antica ed annosa questione del
rapporto mente-corpo e delle loro reciproche influenze, ri-scoprendo quindi la
portata innovativa degli originari apporti teorici, che si dimostrano così più che
mai attuali.
Quella dei disturbi psicosomatici è una storia per la quale la parola inizio
pare ancora ben lontana dal poter essere scritta: la loro etiologia, infatti, riguarda il
9
complesso intreccio tra mente e corpo, zona grigia a cavallo tra la nevrosi
d’angoscia, in cui “l’eccitamento, nel cui spostamento si esprime la nevrosi, è
puramente somatico (eccitamento sessuale somatico)” e l’isteria, dove esso “è
psichico (provocato da un conflitto)” (Freud, 1894). Dalla scoperta di questa
distinzione siamo invincibilmente indotti ad inoltrarci negli abissi dell’individuo-
organismo (dal gr. ὄργανον [organon]: "organo, strumento", termine strettamente
connesso a quello di organizzazione, che rimanda quindi l’idea di una struttura
globale e differenziata al suo interno), alla ricerca delle radici del suo
funzionamento nel corpo, per poi riemergere nello sforzo di ricomporre lo
sterminato mosaico di riflessioni e considerazioni di portata meta-individuale che
scaturiscono da questa operazione.
Le radici biologiche della psiche nel “misterioso salto” dal corpo alla mente
Proviamo a partire dunque, in un’artificiosa ma necessaria operazione di
“linearizzazione” epistemica subordinata alla comprensione, dai fondamenti del
corpo, risalendo il sentiero inaugurato dai primi scritti freudiani, in cui risuonano,
inevitabilmente ed in misura preponderante, le tracce della formazione di matrice
neurofisiologica di Freud (1881): egli, infatti, scelse di proseguire entro il solco
epistemologico aperto con la propria tesi sull’istologia delle cellule nervose
affiancando E. Brücke nel suo percorso di ricerca, per poi trasferirsi presso la
clinica parigina della Salpêtrière al seguito di J-M. Charcot, stimolato dalla
possibilità di approfondire attraverso lo sviluppo del metodo ipnotico i suoi
interessi sull’isteria, disturbo che con le sue espressioni repentine e cangianti si
affacciava allora sull’orizzonte clinico. Com’è ormai noto, tali interessi trovarono
compiuta forma scritta nel 1895 con il titolo originale di Studien über Hysterie,
scritti in collaborazione con lo psichiatra austriaco J. Breuer: all’interno di
quest’opera il metodo catartico conquistò un primo statuto di strumento
terapeutico applicabile ai casi nevrosi isterica (poi esteso alle nevrosi in generale,
nei casi considerati trattabili), mediante l’utilizzo dell’effetto abreativo dato dalla
10
parola in un’area che vedeva e vede tuttora, nelle sue manifestazioni patologiche,
la parziale – ma non trascurabile – sovrapposizione tra lo psichico ed il somatico.
Tali considerazioni aprono il varco al successivo sviluppo di ciò che è progredito
sino ai giorni nostri come l’edificio monolitico della teoria psicoanalitica, con
annesso il suo strumentario tecnico rigorosamente definito (entro la cornice del
Setting): lo Spazio, il Tempo, la Parola. Quest’ultima, in particolare, verrà elevata
a mezzo terapeutico elettivo, con specifico riferimento a quei casi in cui il
conflitto (sia esso interno, tra due/più rappresentazioni e/o tra queste ultime e le
pulsioni ad esse soggiacenti; o esterno, tra i bisogni dell’individuo e le pressioni
indotte dall’ambiente) produce un’interruzione del “dialogo” tra aspetti differenti
del mondo psichico fino a quel momento armoniosamente conviventi ed
interagenti.
In un certo senso, possiamo affermare che nel disturbo isterico corpo e parola
abbiano un piano semantico in comune, sebbene adottino codici differenti per
esprimerlo: il passaggio dall’uno all’altro non è interrotto, a guisa di un ponte
crollato, ma è solamente occultato alla vista. Anche Green (1991) sembra sposare
la medesima opinione quando sostiene, a proposito della paziente di Tausk
descritta da Freud, che “nell’isterico […] il salto nell’organico non basta a creare
la rottura della comunicazione perché la comunicazione col sistema inconscio è
mantenuta”. L’operazione di ricomposizione di questo iato apparente, di
traduzione dell’uno nell’altro, consta semplicemente nello svelarlo,
nell’esplicitarlo recuperando quei nessi associativi rinvenibili in forma criptata nei
simboli di cui i sintomi isterici costituiscono una così ricca e ″consistente″
produzione (attraverso meccanismi di conversione dei contenuti psichici entro il
piano somatico). La rappresentazione di cosa e la rappresentazione di parola,
funzioni del preconscio rispettivamente come tracce mnestiche oggettuali della
realtà e tracce acustico-verbali connesse all’immagine motoria, si ritrovano qui
unite in una stretta corrispondenza per intercessione del corpo. Lacan ci illustra
come queste due insieme si costituiscano, compiendo un passo ulteriore, come
rappresentazioni di relazioni: infatti, sebbene i rapporti tra le diverse dimensioni
del soggetto (Immaginario, Simbolico e Reale) costruiscano uno spazio nel quale
11
le complesse dinamiche che li riguardano sono giocate intra-psichicamente, esse
chiamano in causa un Altro che pure è inestricabilmente parte di sé, secondo un
sistema di rimandi speculari; inoltre, pur trattandosi di un piano prevalentemente
fantasmatico, qui è il corpo con la sua profonda e primitiva sensorialità a porsi
come nucleo centrale dell’esistenza, dominando realmente la scena come
leitmotiv; sotterranea, costante presenza (Ranieri, 2010). Parafrasando Freud,
potremmo dire che L’Io non è più solo “servo di tre padroni” (richieste del mondo
esterno, pressioni dell’Es ed esigenze superegoiche interiorizzate) ma a questi se
ne aggiunge un quarto, costituito appunto dalla dimensione corporea concreta,
considerata nella sua essenza, per riferirci ai casi in cui “l’uomo non riesce a farsi
fa verbo”, in cui la mente non è ancora pronta ad accogliere, sufficientemente
digerite, le quote di energia/emozioni/ansia che il corpo contiene ed incamera e
che, non potendo più essere così sostenute, eventualmente cercano e trovano altre
vie d’espressione, di scarica.
Il pensiero freudiano, nonostante l’attenzione successivamente rivolta allo
psichismo in via quasi esclusiva, non si allontanerà mai completamente dall’idea
di una riunificazione del somatico e del mentale, tanto che ne ritroveremo delle
tracce negli ultimi scritti, arricchiti delle considerazioni maturate lungo il suo
fervido ed inesausto dipanarsi. Al suo interno è possibile enucleare alcuni nodi
concettuali fondamentali che permettano di ricostruire un tracciato che, sostenuto
da un piano concreto e scientifico, ci permettano di renderlo realmente presente e
visibile oltre che pensabile: tra questi ritroviamo il concetto di energia psichica,
costituita da “stati quantitativamente determinati di particelle materiali
identificabili” (Freud, 1895) rappresentanti i processi psichici, altrimenti definiti
Q, quanta di energia spesa nell’esercizio dell’attività dei neuroni. Solo più tardi
essi verranno riuniti, sotto un profilo prettamente psichico, entro il termine di
pulsione – quel concetto “a cavallo tra il somatico e lo psichico” tanto caro alla
psicoanalisi con il compito di definire quanto ricopre la funzione di
rappresentanza del corpo presso la mente.
1
Tali livelli di funzionamento sono
1
Con la formulazione di questo concetto, l’ottica di indagine viene estesa al funzionamento
somato-psichico nella sua globalità e non più limitata esclusivamente al Sistema Nervoso, con un